Descrivere a fine luglio il prossimo scenario politico italiano per un periodico che uscirà a settembre è un atto di presunzione. Spero che i lettori scuseranno la mia irresponsabile impresa che affronto solo perché non so come dire di no a Cesare Cavalleri.
Comunque, per tentare di capire quel che è successo e succederà in Italia, la prima cosa da fare è liberarsi dalla retorica che ha accompagnato la fine del governo Draghi.
L’esercizio che suggerisco a chi vuole comprendere lo stato reale delle cose e non fermarsi alla loro superficie è riflettere sul caso Merkel: fino al 2021 considerata la leader migliore per l’Europa e, dopo l’aggressione russa all’Ucraina, una delle principali responsabili del caos che stiamo vivendo perché sempre appiattita solo sulla tattica (rapporti commerciali con Mosca senza cercare un accordo sulla sicurezza), priva di respiro strategico.
In questo senso le sciocchezze sul “Draghicidio” corrispondono perfettamente agli entusiasmi per “Angela”.
Il governo Draghi nasce per motivi di emergenza: quei pasticcioni di Giuseppe Conte, Domenico Arcuri e Roberto Gualtieri non riuscivano a organizzare né un’adeguata risposta all’espandersi dell’epidemia da Covid-19 né a preparare seriamente il piano di “ripresa” richiesto dalla Commissione europea.
Si formò così un esecutivo non frutto di un accordo tra partiti, ma di una forzatura del Quirinale, che sostanzialmente imponeva un “commissario autorevole” a cui i partiti che accettavano di gestire l’emergenza di fatto delegavano scelta di ministri e programma. Mettendo al posto degli uomini di “Giuseppi” persone come Francesco Figliuolo e Daniele Franco, guidati da un supertecnico come l’ex Presidente della Bce, si sono raggiunti diversi risultati in tempi brevi: peraltro essenzialmente sui temi posti dall’emergenza.
Naturalmente, era evidente come questo esecutivo non potesse avere una vita lunga. Il Parlamento si stava disgregando: un terzo dei suoi deputati e senatori aveva cambiato casacca anche perché si era tagliato un terzo dei suoi membri senza (irresponsabilmente da parte del Quirinale) programmare di sciogliere rapidamente Camere nei fatti delegittimate. Mario Draghi ne era consapevole e di fatto contava di passare, dopo lo sforzo di risanamento iniziale, al Quirinale, dove con il suo prestigio avrebbe potuto offrire una garanzia alla finanza globale, a Washington, e a francesi e tedeschi, ridando insieme consistenza alla politica italiana con elezioni anticipate.
Questo passaggio, però, non è avvenuto, perché, al di là delle miopi manovre dei partiti, il segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti ha intrigato per far rieleggere un riluttante Sergio Mattarella. Questo esito, come Giulio Sapelli e io in un libretto uscito nell’ottobre del 2021 avevamo previsto, non poteva non preparare il caos: il Parlamento era liquido, il governo senza una vera linea politica non aveva basi sufficienti per durare, si avvicinava la campagna elettorale per un voto che non poteva non tenersi entro l’estate del 2023.
L'”imprevisto della guerra
L’aggressione russa all’Ucraina ha intralciato quell’ordinato scioglimento delle Camere che altrimenti il Presidente del Consiglio in carica avrebbe certamente favorito. Ma i nodi non potevano comunque non venire al pettine. Anche perché all’inizio della guerra ucraina è avvenuto un importante fatto che va ricordato.
Draghi, in qualche sintonia con Emmanuel Macron e Olaf Scholz (e anche con la segretaria del Tesoro americano, Janet Yellen e gli ambienti Goldman Sachs a cui è particolarmente legato), mentre sosteneva senza riserve la resistenza di Kiev contro l’aggressione di Mosca, cercava anche di pensare a uno sbocco al conflitto che non fosse affidato solo allo scontro bellico.
Tempestivamente, sul Corriere della Sera Ian Bremmer, politologo e commentatore politico particolarmente legato all’ala dei Democratici americani più radicalmente interventisti, lo ha bollato come lo “Schroeder italiano”.
Il premier ha colto il messaggio e da quel momento è diventato una sorta di notaio della linea più radicale dei Democratici americani. Su questa linea più radicale, però, gli Stati Uniti non sono riusciti a ottenere sufficienti successi: a un vertice degli Stati americani Joe Biden è apparso isolato, nel suo viaggio a Riad e in parte in quello a Gerusalemme il Presidente americano ha trovato tutto tranne che accoglienze calorose. La Casa Bianca ha insistito con l’India perché isolasse Mosca, e Nuova Delhi ha invece partecipato con entusiasmo al vertice dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Washington ha affidato ad Ankara un ruolo importante nella strategia della Nato (anche per favorire l’adesione di Svezia e Finlandia) e Recep Erdoğan ha partecipato a un vertice con Vladimir Putin a Teheran. Poi la Turchia si è messa a bombardare i curdi non solo in Siria, ma anche in Iraq. E spero che risparmi almeno quelle isolette greche che rivendica, da una delle quali scrivo queste note.
Il nostro premier appare spesso imbarazzato, per inesperienza, quando deve fare i conti con la politica democratica nazionale che non esiste senza i partiti, ma è particolarmente intelligente e attento interprete di quel che si muove sulla scena internazionale. E dunque il suo impegno a lasciare la guida di una politica che non funzionava più è diventato incalzante.
L’atto decisivo di rottura è stato il sostenere la scissione che il suo ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha organizzato nei Cinquestelle. Di fatto, non è immaginabile come l’esponente di punta, nell’esecutivo, del partito di maggioranza relativa possa organizzare una scissione nel suo pur sconclusionato movimento senza provocare una gravissima crisi politica. Mattarella in questa occasione ha compiuto un’ennesima forzatura istituzionale ignorando questo clamoroso avvenimento. Ma la sintassi della politica è stata ineludibile. Si è aperta così una dinamica che ha portato alle prime dimissioni di Draghi, respinte dal Quirinale, e poi a un discorso di rottura che ha imposto crisi e dimissioni di Draghi che non potevano essere più respinte.
Questo è quello che è avvenuto. Tutto il resto è propaganda. I fatti non assolvono Lega e Forza Italia perché dovevano puntare su Draghi al Quirinale. Ma nell’ultima fase non hanno fatto che prendere atto di un irresistibile corso delle cose. Anche chi piange per l’uscita di scena di un tecnico eccellente non può non considerare come uno Stato per sopravvivere abbia bisogno di una politica che lo leghi alla società: se lo Stato è democratico avrà bisogno del pluralismo partitico, se no richiederà almeno un partito unico.
Non basta “il giornalista collettivo” per reggere una nazione complessa come quella italiana. Pensare di sopravvivere accoppiando il disperato moralismo mattarelliano a pur eccellenti competenze tecniche non è tanto sbagliato quanto impossibile.
L’Italia tra Usa & Europa
Che cosa avverrà adesso? Chi si occupa di politica sa come il cuore dell’impegno statuale e partitico sia sempre orientato dalla scena internazionale.
Credo che anche nel nostro caso, per ragionare su quel che ci capiterà, la prima cosa da fare sia osservare lo scenario globale. In questo contesto Parigi e Berlino stanno prendendo atto dell’impasse della politica più radicale dei Democratici americani, e insieme si rendono conto come un ruolo che aiuti a ricostruire una politica più efficace contro il disperato imperialismo granderusso abbia bisogno di un’Unione Europea che senza l’Italia non può esistere.
Ecco perché sulla rete di protezione da crisi del debito statuale vengono segnali interessanti (previsione azzardata del 27/7/22, nda) non solo da Christine Lagard, ma persino dai riluttanti tedeschi. Oggi negli ambienti democratici americani più radicalmente interventisti, più che le influenze di Mosca su Roma (dove con Enrico Letta e Giorgia Meloni dominano gli atlantisti, mentre i filocinesi Conte, D’Alema, Grillo, Prodi sono ai margini) si teme un riaccostamento tra Francia, Italia e Germania che porti a una linea occidentale meno avventurosa e più consapevole – come dice Henry Kissinger – del fatto che non si possono fare guerre senza obiettivi chiari.
In questo contesto probabilmente Berlino e Parigi preferirebbero aver a che fare con un fragile Letta che con un autonomo governo di centrodestra. Ma comunque la loro priorità è la riconquista di un maggiore peso politico dell’Italia.
Ecco perché una vittoria della coalizione Fdi, Fi, Lega diventa meno traumatica, anche se avrà bisogno di un bel tasso di personalità competenti per prevalere: perché lo schieramento di centrosinistra godrà di un ampio sostegno di articolati settori d’establishment che temono un ritorno di una politica decisa dagli elettori sia per motivi più nobili (il peso del potere politico sullo Stato italiano ha spesso provocato guasti non secondari) sia per le tendenze egoistiche di chi ritiene di poter perseguire il proprio guicciardiniano particulare più facilmente se non esiste un machiavelliano indirizzo repubblicano teso a sostenere il futuro della nazione.