La marea si sta alzando rapidamente e c’è un’anziana che cammina a piedi nudi sulla battigia. Ha i capelli lunghi e ancora neri. Va avanti e indietro in modo lento e ossessivo. La osservo dalla sommità di una panettone di cemento semiaffondato nella sabbia, un bunker della Normandia. Siamo a Utah, la prima spiaggia su cui gli americani sbarcarono alle 6.30 del 6 giugno 1944, l’alba dell’operazione Overlord. La donna volta la testa al mare aperto. «Vengo dal Maryland», confida, «Utah è casa mia, perché qui sbarcò mio padre…». È una liturgia che ripete ogni anno, al tramonto. E in effetti il suo incedere ha qualcosa di sacro, sembra una vestale.

Ti porta dentro una storia più grande, che per il nostro immaginario ha i colori seppiati del Giorno più lungo (1962) con Robert Mitchum e John Wayne, o i rossi arteriosi dei primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan (1998) di Spielberg. Per le giovani generazioni, magari cresciute di fronte agli scenari virtuali di Call of Duty, il D-Day è questo: un mare in tempesta che strapazza i mezzi da sbarco, i portelloni che si aprono di-schiudendo un facile bersaglio per le mitragliatrici, i tedeschi invisibili che seminano morte dietro le feritoie… Fu l’inferno, scandito nelle cinque tappe dell’inizio dell’invasione: le spiagge ribattezzate Sword, Juno, Gold (per il settore anglo-canadese) e Utah e Omaha, dove si registrò la massima carneficina, per il settore statunitense.

Oggi la Normandia è un piccolo Eden, con giardini impeccabili e le celebri siepi che abbracciano il mare. Tutto è in ordine. C’è molto silenzio. Eppure tutto qui riporta al 6 giugno, a partire dalle indicazioni stradali che avvisano in merito ai luoghi di battaglia o alle postazioni di artiglieria.

Arromanches e il miracolo di “Mulberry Harbour”

Per viaggiare a ritroso nella storia si può partire dalla stupefacente vicenda di Arromanches. Su questa spiaggia giacciono ancora mammuth di ferro e cemento dell’estate del 1944. Qui si giocò il destino della Normandia. Gli angloamericani avevano bisogno di un porto per scaricare quotidianamente tonnellate di materiali, carburante, munizioni e veicoli. Sarebbe stato, infatti, troppo rischioso aspettare di conquistare un porto naturale in mano nazista. Avrebbe richiesto, come in effetti si verificò, troppo tempo. I rifornimenti servivano subito: per questo si progettò un porto artificiale. Un’avventura forse senza eguali per la logistica militare.

Così nacque Mulberry Harbour, un’idea fortemente voluta dallo stesso Churchill, anche dopo la catastrofica esperienza del raid di Dieppe (19 agosto 1942, tentativo di sbarco fallito, quasi tutti gli uomini uccisi o presi prigionieri). Grazie al porto artificiale poterono essere sbarcati oltre 2 milioni di uomini e 500mila veicoli. Per la sua costruzione furono necessari 600mila tonnellate di calcestruzzo che consentirono la costruzione di 33 moli e di 16 km di carreggiata galleggiante. Tutto fu preparato in gran segreto in Inghilterra nei 9 mesi precedenti lo sbarco. Mulberry Harbour iniziò a vivere 24 ore dopo lo sbarco: per iniziare a gettare le sue «fondamenta» in mare, furono affondate tre grosse navi proprio di fronte alla spiaggia di Arromanches.

In pochi giorni furono assemblati migliaia di pezzi prefabbricati: come un puzzle immane o il più grande Lego di tutti i tempi. Per chi volesse saperne di più, si può visitare il Museo inaugurato appena dieci anni dopo Overlord. L’edificio sorge proprio sulla spiaggia, circondato da bandiere e mezzi militari (tutt’intorno negozi con souvenir di militaria: può capitare di vedere bambini in tenuta cachi e con il tipico elmetto britannico a padella…). All’interno del memoriale: proiezioni di filmati d’epoca, una riproduzione in scala del porto artificiale, incrostati reperti bellici emersi dal mare, divise e armamenti.

Rovine del porto artificiale Mulberry Harbour sulla spiaggia di Arromanches, Normandia, con persone che camminano sulla sabbia in lontananza

Rovine del porto artificiale Mulberry Harbour sulla spiaggia di Arromanches

Il massacro di Omaha, croci a Colleville-sur-Mer

Un’altra tappa museale obbligata è proprio alle spalle di Omaha Beach. Si tratta dell’Overlord Museum, aperto solo un paio di anni fa. È uno sconfinato hangar che raccoglie i mezzi dello sbarco, nato grazie alla passione di Michel Leloup (1929 – 2011), che da bambino rimase conquistato dal tragico spettacolo della guerra e passò la vita a raccogliere cimeli: la collezione dei carri armati e dei mezzi pesanti è notevolissima. Una curiosità: nel ricchissimo bookshop si trovano modellini e soldatini di ogni genere, tra cui una sorta di imitazione dei Lego, con tanto di croce tedesca sui mezzi militari (la marca è «Cobi»). Un elmetto-salvadanaio americano costa 16 euro, la tazza con la foto del D-Day 8 euro, il coltello a serramanico, 12 euro.

A Omaha gli americani persero più di 4mila uomini. La prima ondata dei genieri che dovevano aprire la strada fu letteralmente falcidiata: morì il 40% degli effettivi. Oggi l’erba arriva quasi fino al mare. Ci sono dune pacifiche e i bianchi camper dei turisti. Sulle prime collinette si scorgono ancora dei bunker inghiottiti dalla vegetazione, perfettamente camuffati. Il cemento intorno alle aperture è crivellato di colpi. Uniche cicatrici della battaglia immensa. L’universo grigio che immortalò Robert Capa (si sono salvati solo 18 fotogrammi di quel giorno) con i soldati semiaffogati dietro i cavalli di Frisia sembra un altro mondo. Un silenzio assordante regna qualche collina più in là, a Colleville-sur-Mer, tra le bianche croci del cimitero americano, dove riposano 9400 soldati americani.

Il paracadutista di Sainte-Mère-Église

Il luogo attira ogni anno un milione di turisti. È stato visitato da tutti i Presidenti Usa e Spielberg l’ha usato per la prima scena del suo kolossal. Tra i caduti, c’è Theodore Roosevelt Jr, figlio del Presidente americano: fu tra i primi a sbarcare a Utah, aveva 56 anni e meritò la Medaglia d’onore. Sarebbe morto qualche giorno più tardi per un attacco di cuore a Sainte-Mère-Église, la prima cittadina liberata dai paracadutisti americani. Il simbolo del paese è la torre campanaria dove rimase impigliato con il suo paracadute John Steele, della 82ª Divisione Aviotrasportata. Tentò di districarsi per un paio di ore senza riuscirci, prima di essere catturato dai tedeschi (ma riuscì a fuggire e a continuare la battaglia). Un manichino e un paracadute sulla chiesa ricordano a tutti oggi la sua storia.

Proprio a fianco all’edificio sacro, c’è il museo che ricorda gli aviolanci. È diverso dagli altri perché il suo zoom è fisso sull’attacco dal cielo. Nel lungo percorso (bisogna mettere in conto almeno un paio d’ore) si possono vedere: un rarissimo aliante (poteva portare una dozzina di soldati e ne furono mandati circa 500), un grosso aereo C47, ricostruzioni senza numero di diorami e operazioni militari.

Memoriali e musei

Tra i tantissimi video d’epoca, ce n’è uno amatoriale in cui si vede lo sconcerto dei tedeschi durante l’attacco dei paracadutisti: la scena è quella di un formicaio impazzito, le case in fiamme, i mitra puntati verso l’alto… L’altro volto della guerra, quello dei tedeschi sconfitti, è forse più difficile da ricostruire (anche se nel museo di Sainte-Mère-Église c’è un’interessante sezione dedicata alla stampa di Vichy e alle prime impressioni dello sbarco osservate dall’altra parte del Vallo Atlantico).

Per una ricostruzione dettagliata si può visitare «Le grand Bunker – Mur de l’Atlantique», il museo di Ouistreham, a pochi km da Caen, oppure le batterie tedesche di Maisy, quelle di Longues-sur-Mer (sono presenti ancora i cannoni nei bunker) o l’intricato sistema di fortificazioni di Merville (con i bunker dipinti: sembrano le tipiche case della Normandia). I cimiteri tedeschi (Marigny, Orglandes, St. Désir-de-Lisieux, La Cambe), sono spogli di ogni retorica. Uno di questi ha un’alta croce nel mezzo del giardino circondata da una pesante struttura circolare che protegge migliaia di loculi. È Mont-de-Huisnes, poco lontano dalla meraviglia gotica di Mont Saint Michel. Una meraviglia dell’architettura di Dio che fa sentire più vicini al cielo. E non a caso ha ispirato l’intenso To The Wonder di Terrence Malick, il cui refrain ricorda: «Bisogna amare, anche correndo il rischio del fallimento».