Dietro le quinte di "Figli di ieri" di Elisabetta Sala

Ho fatto quattro chiacchiere con Elisabetta Sala, autrice del nuovo Figli di ieri. Ne è risultata una conversazione dal sapore nostalgico, a tratti pessimistico, sui giovani e sui valori che li guidano nella loro quotidianità. Che ne sarà dei “figli di oggi”?

 

Dietro le quinte di Figli di ieri di Elisabetta Sala

Qual era l’intento nello scrivere questo libro?

Non c’è un motivo particolare ma, vivendo in mezzo ai ragazzi, mi sono resa conto che il nostro presente è ormai diventato un periodo storico, cioè fa parte della storia del passato, e lo volevo raccontare.

La gioventù di adesso è molto, molto diversa da quella che ricordavo io. I ragazzi ora sono totalmente appiattiti, tutti sulle stesse posizioni, non si può più discutere di niente, sono attentissimi a non giudicare e accettare sempre tutto e quindi non hanno nessun tipo di posizione critica. Anche come insegnante mi sono detta che noi abbiamo sempre l’obiettivo, nei piani di offerta formativa, di formare lo spirito critico negli studenti.

Non voglio dire che una volta avessero ragione, però erano quantomeno interessati. Io ricordo questa curiosità, questo spirito di ricerca.

È interessante però notare come le dinamiche cambino in base al contesto in cui si è inseriti. Nella tua storia, c’è una contrapposizione fra i ragazzi di città e quelli di montagna…

È quello che molti hanno vissuto in quel tempo, l’Italia stava cambiando. L’Italia che conosciamo adesso, che è succube della cultura americana, cominciava allora, ma in quel momento era diversa. Ho voluto offrire uno spaccato di qualcosa che non c’è più, dal punto di vista di un bambino che ha il sogno di diventare un supereroe. Un sogno che poi evolve con la crescita, ma è comunque un sogno. E anche qui trovo delle differenze con il presente.

I sogni dei ragazzi di oggi sono sogni buoni ma sono sempre le stesse cose: il riscaldamento globale, l’inquinamento, la raccolta differenziata; sono “fissati” con queste cose, non vanno più in là, i loro sogni sono potersi divertire, ma lo fanno poi? Sono abbastanza disancorati dalla realtà. Pensano proprio al divertimento spiccio, quello del “stasera si esce”, “domani si va a fare shopping”. Seguono gli youtuber e fanno un uso dei social che oramai è pervasivo. Noi insegnanti siamo incoraggiati a utilizzare nuove tecnologie per la didattica e sono tutte ancorate, ovviamente, al computer e anche ai telefoni dei ragazzi, quindi non si staccano mai dai dispositivi elettronici. Io personalmente mi rifiuto perché noi dobbiamo proporre un’alternativa (a parte il fatto che ho scoperto che questi ragazzi sono bravissimi con il cellulare ma il computer non lo sanno usare. Banalmente un documento di Word non sanno da che parte affrontarlo). Perdono il contatto persino con l’ortografia italiana. I ragazzi di allora leggevano come matti, avevano un amore per la cultura, poi magari erano sempre gli stessi autori, sempre di una stessa linea, però si ponevano delle domande, cercavano di informarsi, discutevano. Mi piaceva fare questo affresco affinché i giovani di adesso si confrontassero anche con la generazione che è quella ormai dei loro nonni.

Ma quindi non ci sono più i collettivi, i gruppi di ritrovo fuori da scuola?

No, no, al massimo ci sono gruppi di studio, perché bisogna aiutarli a far tutto, anche a studiare.

Mi risulta un po’ strano perché io ho frequentato un liceo artistico di Milano che era molto interessato alla politica. Al mio primo anno c’era stata una settimana di autogestione all’inizio di dicembre – che già è tanto perché le altre scuole davano come opportunità solo la cogestione o l’autogestione di massimo un giorno – che si era poi trasformata in un’occupazione che era andata avanti fino a gennaio, quindi noi abbiamo fatto un mese di mancanza dalla scuola, alla fine.

Sì, diciamo che un incontro a metà sarebbe l’ideale. Noi cerchiamo di sviluppare un’autonomia che di fatto né c’è mai stata, né c’è.

Ma queste conseguenze secondo te dipendono molto dal covid, dalla pandemia, da tutto quel periodo?

Sono peggiorate, tanto. Erano dinamiche già presenti ma con il lockdown li abbiamo resi totalmente dipendenti dai loro telefonini. Adesso si sentono proprio persi senza.

Poi sono fragilissimi: abbiamo riscontrato moltissimi problemi psicologici, psichiatrici, di tutto e di più, proprio all’ennesima potenza.

I genitori sono di supporto?

Allora, da una parte sono genitori ansiosi che vogliono sapere, devono sapere in ogni momento che il figlio sta bene. Prima del cellulare, la normalità era che mamma e papà non sapevano dove fosse il figlio. “È a spasso con gli amici, tornerà all’ora di cena. Se non torna, boh, vedremo cosa succede”. Era normale. Oggi a parte il fatto che anche la città è diventata un posto pericoloso, come prima non era, è la vita a essere cambiata.

I genitori, secondo la mia esperienza, dicono che vorrebbero tanto che loro limitassero l’uso del cellulare, ma sono totalmente impotenti. Non riescono. Anche i vari filtri parentali sono un fallimento.

Diciamo che la tecnologia è utile se usata bene e se non si diventa totalmente dipendenti. E se comunque si è conosciuto anche la bellezza del vivere senza.

Non sanno più scrivere a mano, sanno solo digitare con i pollici. Poi c’è il correttore automatico quindi non ci imponiamo neanche il problema di fare eventuali errori. I ragazzi di una volta scrivevano lettere; ora consegnare una lettera scritta a mano il giorno dopo a scuola è qualcosa fuori dal mondo.

E invece secondo te com’è la situazione nei paesi di montagna?

A volte meglio, a volte peggio. La mia esperienza mi dice che dove ci sono circostanze felici, dove c’è un bel gruppo di giovani seguiti dalle persone giuste, magari ci sono tante attività e prospettive favorevoli. Poi ci sono altre zone un po’ depresse, dove non funziona neanche l’oratorio, in cui la situazione è forse peggio che a Milano. Il mio personaggio Tino vuole idealizzare il suo paese natale (Monno, ndr), che probabilmente è anche un bel posto, ma questo è il suo punto di vista. In realtà il degrado quando arriva, arriva e dove arriva, arriva. Non c’è differenza tra città e montagna.

Mi ha incuriosita tantissimo la scelta di introdurre nella narrazione delle frasi in dialetto. Come ti sei destreggiata?

Ho fatto un po’ di ricerca. Mia nonna paterna era di quelle zone, però la sentivo più parlare in milanese, il bresciano puro non credo di averlo mai sentito. Un pochino di bergamasco lo conosco a orecchio, però la mia ricerca l’ho fatta.

E come si fa una ricerca di questo tipo? Perché è una mia paura quello che i dialetti, soprattutto nordici perché meno praticati giornalmente, tendano a scomparire.

Si fa un po’ fatica, ma online ci sono molti aficionados. Siamo in tanti che si rendono conto che è un peccato.

Prima c’è stata la guerra ai dialetti: quando è uscita la televisione bisognava eliminare i dialetti per uniformare tutte le regioni d’Italia al fiorentino. Adesso che ormai ci sono dei perditi irreparabili, c’è nostalgia, per cui sono tanti anche i blogger che cercano di salvare vecchi proverbi e canzoncine in dialetto. Io per esempio ho ritrovato il testo completo di una filastrocca di cui avevo dei ricordi a stralci.

Con Chiara Ferla Lodigiani, la mia editor, abbiamo deciso di ritradurre in italiano alcune parti perché non erano facilmente comprensibili. Ho lasciato quelle più intuibili. Direi che come equilibrio definitivo è ottimale.

Secondo te qual è invece il target ideale di lettori per questo libro? Te lo chiedo perché io mi sono ritrovata ad amarlo per la mia immedesimazione nei miei anni del liceo, ma effettivamente io sono andata al liceo nei primi anni ‘10 del 2000, mentre questo è ambientato cinquant’anni anni prima. Quindi qual è secondo te il tipo di lettore ideale?

La mia idea era rivolgermi un po’ a tutti quanti: a coloro che fanno parte di quella vecchia generazione, che trovano magari un po’ di atmosfera nella storia; ai giovani che invece si confrontano con una realtà che non conoscono; e a quelli che stanno a metà, che possono confrontare alcune cose che ricordano con i tempi più recenti. Siccome i miei romanzi precedenti li ho ambientati in epoche storiche più remote e non in Italia, ho voluto provare una cosa diversa.

Che tipo di romanzo è?

Io lo concepisco un po’ come un romanzo storico perché è stato necessario fare una ricerca e perché sono passati più di cinquant’anni, quindi tecnicamente oltre che un romanzo di formazione è un romanzo storico.

Qual è stata la prima idea di questo libro? Un personaggio, forse? Qual è stata la scintilla?

Tanti anni fa un mio alunno aveva delle problematiche. Lui non era figlio di un montanaro, era figlio di un diplomatico che a un certo punto decide di trasferirsi dalla Grecia con tutta la famiglia. Il figlio ha vissuto questo spostamento in modo traumatico. Ha iniziato a percepire la Grecia come il paradiso, e l’Italia come l’inferno. Questa nostalgia per una patria che si è costretti a lasciare, soprattutto a 10 anni, mi è tornata in mente ed è stata l’idea per Tino. Poi ho adattato l’idea a delle esperienze che conosco meglio.

Tino e la sua Atala, leggendaria bicicletta rossa…

È un oggetto che segna la transizione da rifiuto a apprezzamento ed è anche il suo cavallo da battaglia contro i problemi, le situazioni che deve affrontare. Ogni volta che doveva incontrarsi con Sara e voleva chiederle se voleva uscire insieme a lui, c’è sempre stata la bicicletta.

E Sara?

La figura di Sara è nata invece in altre circostanze. Volevo dar vita a un personaggio di cui mai immagineresti essere in un certo modo. Sara ha avuto un’evoluzione vorrei dire “inaspettata”, ma alla fine mentre leggevo non era inaspettata. Perché è capitato anche a me di conoscere delle persone, non propriamente così, che hanno fatto una trasformazione.

Un giorno decidono che non ne possono più di quello che sta succedendo e cambiano, perdendo la propria personalità, le attitudini, diventando qualcun altro. Tutti cambiano: pettinatura, look, abbigliamento.

Mi è piaciuto molto, però, come hai affrontato il tema – o per meglio dire, i temi – dell’amicizia. C’è il patto di sangue e l’incisione sull’albero degli amici della montagna, e c’è l’amicizia fatta di ideali comuni che Tino trova a Milano. Sono cose che lasciano un segno. Mi è piaciuto molto perché questo romanzo è anche il racconto di un’amicizia vera, o almeno io l’ho riscontrata così.

Sì, sì. È una delle cose che piacciono anche a me. Un senso, un valore della vita.

E questo valore, anche questo, è totalmente scomparso? O lo riscontri ancora?

Questo noi non lo vediamo tantissimo dall’altra parte della cattedra, non lo capiamo. Però no, credo che ci sia ancora. Non so quanto siano solidi i legami perché è diventato tutto tanto superficiale. Gli amori sono superficialissimi, quindi ne deduco anche le amicizie. Però su questo sono possibilista.

E poi c’è il magnetico professor Anselmi. All’inizio mi stava molto simpatico…

Voleva essere così. Perché un adulto che ti dà ascolto, ti dà spazio al di fuori della scuola, è un valore aggiunto.

Poi il personaggio ha uno sviluppo inaspettato… Come mai?

Joyce diceva che l’unica realtà conosciuta è quella che c’è nella propria mente, perché non si può pretendere di ritrarre la realtà. Io non voglio fare un fotogramma fedele della realtà, che non ha niente di particolarmente interessante. A me piace di più la teoria dell’homo fictus in cui tutto è un pochino più esagerato. Certo che la realtà deve essere fedele, ma le storie devono essere anche avvincenti. Per me l’intreccio è importante: è bello tratteggiare dei personaggi realistici, ma se viene fuori una storia noiosa lo scopo non è raggiunto.

Il professor Anselmi insegna filosofia perché, secondo la mia esperienza, i colleghi di filosofia hanno un carisma particolare nei confronti degli studenti: li fanno discorrere, pongono dei quesiti, li affascinano in qualche modo. Alcuni sono personaggi veramente in gamba, altri semplicemente amano farsi osannare dagli studenti. Io ho messo insieme questi spunti e calcando un po’ la mano mi è venuto fuori questo personaggio.

E quindi un finale inatteso, che secondo me a livello narrativo è la giusta conclusione. Una fine disturbante che però rende avvincente la storia.

 Un po’ di storia ci deve essere, non può essere solo descrizione.

Un’ultima domanda: come mai proprio “Figli di ieri”?

Volevo evocare un “ieri” che non c’è più. Tino vuole fare il modernista, ma alla fine scopre che suo malgrado lui non è così. Tino è un “figlio di ieri”, un nostalgico di un mondo che stava già scomparendo.

 

Alessia Soldati

 

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