grafica dietro le quinte di guardandoti ballare

Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Elena Borravicchio, autrice di Guardandoti ballare, una novità della narrativa Ares.
Musica, danza, dolore e cura, lacrime di gioia. Tante emozioni racchiuse tutte in un testo. Continuate a leggere!

Dietro le quinte di Guardandoti ballare

Iniziamo dalla domanda che tutti si fanno: Guardandoti ballare è ispirato a una storia vera?

Allora, sì e no. No, nel senso che non è la storia letterale di una coppia, però sì, perché dentro a questo libro c’è molto di me, della mia vita, della mia esperienza e di quella di persone a me care, che ho trasfigurato nella costruzione letteraria, attraverso la metafora.

È un libro sulla mancanza e sul dolore: come mai hai scelto di incentrare un libro su questi temi?

Penso che tutti incappiamo a un certo punto in un’esperienza di dolore e di richiesta di senso. Credo che caratterizzi la fatica e il desiderio di Guido (ndr il protagonista) la ricerca di una risposta, di un senso per continuare a vivere una vita che valga la pena di essere vissuta. Forse il libro si incentra più su questo: il cuore, la sua fatica esistenziale, la sua ricerca, non tanto il dolore.

E come mai hai scelto il titolo Guardandoti ballare? La danza ha un significato simbolico?

Ha un significato simbolico e ha anche un significato letterale, perché è molto importante per me. Io sono molto innamorata della danza. Forse la danza non è molto innamorata di me, perché effettivamente la facevo da bambina e l’ho ritrovata da adulta come un amore mai spento, ma non è così importante per la mia vita. È stata più importante nella vita di Marta, la moglie del protagonista, e ha senz’altro un significato anche simbolico, perché per lei era la gioia di vivere, era il dinamismo che si contrappone alla stasi, alla paralisi alla quale poi la malattia la costringe. Ed è anche, in controluce, un simbolo di ciò che manca a Guido, che invece è caratterizzato da una sorta di paralisi interiore.

Leggo la frase che si trova nel testo dalla quale ho tratto il titolo, dice così:

Trovo finalmente posteggio quando per radio passano una canzone di Niccolò Fabi: «Sei davanti e tutto il resto è soltanto sfondo, sei l’unica cosa che è a colori mentre il resto è in bianco e nero». Mia moglie amava questo artista, io non gli avevo mai prestato attenzione. «Sotto un temporale, guardandoti ballare, a braccia aperte ad occhi chiusi, sorridendo al tuo destino». Rimango impietrito. Questa canzone è Marta. Non saprei fotografarla meglio. E non potrebbe farmi meglio ricordarla così. Sono sciolto in lacrime. Come Marta abbia sorriso al suo destino fino alla fine, per me resta un mistero».

È molto importante la musica in questo testo perché è molto importante per me. Niccolò Fabi in particolare, dal quale appunto è tratto il titolo, è stato un autore che mi ha ispirata molto. Ho avuto anche il piacere di conoscerlo e di regalargli una copia di Guardandoti ballare, che mi ha assicurato avrebbe letto, perché – mi ha detto – in tournée c’è molto tempo per leggere. Penso che il contatto con la musica sia stato importante anche per Guido: la musica che era così vitale per la moglie è stata presente nel suo processo di rinascita, perché la musica è movimento, è bellezza, è vita. Alla fine del volume c’è un QR code che collega direttamente a una playlist su Spotify con tutti i brani citati nel romanzo.

Le canzoni di De André sono molto presenti nel romanzo. Ci racconti perché?

De André è uno dei miei autori preferiti. È un cantautore che quando l’ho scoperto da ragazza, con gli amici al mare, la chitarra in spiaggia – episodi che riporto anche nel libro come ricordi di gioventù di Marta – mi ha proprio conquistata. Nel testo cito un verso di Andrea che recita «più fondo del fondo degli occhi, della notte del pianto», per descrivere uno dei momenti di maggiore tormento di Guido, nel quale però, paradossalmente, sente come una piccola luce, un piccolo guizzo di speranza. De André è speciale, secondo me, ovviamente per la sua capacità di scrittore, di musicista, ma anche per la sua sensibilità così delicata, così creativa e così profonda, per i disgraziati in fondo, per situazioni e persone molto complicate o molto estreme, molto degradate a volte. Lui riusciva a trovare la bellezza anche nelle situazioni più terribili e questo mi sembrava molto azzeccato rispetto a questa storia.

A quale tipo di pubblico si rivolge il tuo romanzo?

Beh, a tutti naturalmente! Immagino però più a persone che abbiano almeno la mia età, che abbiano già vissuto un pezzo di vita, con delle gioie, ma anche delle sofferenze, delle prove che ti costringono ad un certo punto a porti la domanda: “Per che cosa vale la pena? Per che cosa ha senso questa vita?”.

Ti è risultato difficile scrivere questo libro? A livello tecnico, c’è una parte che hai sentito più difficoltosa nell’esprimere delle situazioni, dei sentimenti, delle emozioni?

La scrittura direi che è filata piuttosto liscia. La “prima stesura”, come si dice, mi ha richiesto pochi mesi; è stato molto grande il lavoro successivo. Numerose stesure, molte correzioni, tagli e modifiche che l’editor (ndr Chiara Ferla Lodigiani) mi ha consigliato e aiutato a realizzare. È stato inizialmente faticoso rimettersi sul testo, però poi, in realtà, come per magia, la fatica si è risolta in fretta perché mi rendevo conto, lavorando, che erano cambiamenti necessari. E quindi poi l’ispirazione, chiamiamola così, riusciva a insinuarsi e mi faceva cambiare le parole senza troppa sofferenza e ottenendo un risultato migliore, sicuramente più credibile, più fluido e, mi auguro, più bello.

C’è una scena o un capitolo a cui ti senti più legata?

Mi sento molto legata a tutti! Forse uno dei capitoli più belli, perché è uno dei più visivi, ma anche ricco di stimoli, di musica, di danza, di emozione è quello che ho chiesto al mio amico Daniele Bosio, attore della compagnia teatrale “I Rabdomanti”, di leggere alla prima presentazione di Guardandoti Ballare, in casa editrice. Riguarda un flashmob di danza che Marta fa in una piazza di Milano sulla musica del Canone in re di Pachelbel e al quale invita il suo allora fidanzato Guido, che non ne capisce niente di danza, né tantomeno di flashmob: è lì che lui si innamora di nuovo di lei. La vede danzare, la vede inserita in questo contesto di ballerine, tutte quante vestite di bianco, che dai sei ai sessant’anni, tutte insieme, improvvisamente danzano una coreografia di danza contemporanea ispirata a Martha Graham. E – lo scrivo – Guido racconta: «La compagnia intorno a lei svanisce e non ho occhi che per lei». Questo è proprio un momento di amore, di emozione.

La prima presentazione è stata qui in casa editrice, però stai portando il tuo libro in giro per l’Italia. Quali sono stati i primi pareri che hai ricevuto dalle tue lettrici e lettori?

Molto positivi, sorprendentemente positivi. Sono davvero super contenta, stupita. Mi sono arrivate di recente su Facebook due recensioni di persone che non conosco, alle quali evidentemente è stato consigliato o regalato il mio libro. Fa molto piacere questo, perché travalica l’amicizia che magari condiziona un po’ nei giudizi. Per il resto mi è stato detto da più persone che è un libro che contiene molta vita. Questo mi gratifica perché è proprio così: c’è molta vita pulsante nel mio racconto, quindi sono contenta di essere riuscita a trascriverla sulla carta e permettere a tante persone di immedesimarsi. C’è chi è stato più coinvolto da un personaggio, chi più dalla storia del rapporto tra padre e figlio – Guido ha un bambino di 7 anni; qualcun altro dal percorso spirituale di Guido, che verso la fine si orienta un po’ verso la fede, valore molto importante per sua moglie.

Il 5 dicembre farò una presentazione al Circolo dei lettori di Torino. Anche questa è una grande sorpresa, realizzata grazie alla Libreria Luxemburg e a un amico comune tra me e il libraio della più antica libreria di Torino. E poi chissà: mi hanno proposto varie idee, progetti, una presentazione in una scuola di danza

Sono stata ospite anche presso una struttura per malattie di SLA di Monza, la San Pietro. È stato molto interessante, soprattutto l’incontro con l’educatrice che mi ha accolta, perché anche per lei, che lavora nel nucleo protetto della San Pietro, con le persone con demenza, è molto importante il senso della bellezza che ha trovato nel libro e che lei cerca di restituire alle persone con cui lavora, con cui parla. La bellezza resta, indipendentemente dal fatto che  la si voglia guardare, indipendentemente dalle condizioni fisico-mentali delle persone che vivono delle problematiche. La ringrazio, si chiama Francesca Casiello, è stata davvero molto sensibile.

Come mai ha deciso di raccontare la SLA?

La scelta della SLA in realtà è stata casuale. Mi è stato di grande ispirazione il libro Sul mio divano blu di una scrittrice monzese, Laura Tangorra, che mi ha comunicato un’estrema voglia di vivere e grinta in contrasto con la sua dolorosa esperienza con la SLA, di cui si ammala la scrittrice stessa. Immagino pure che, forse inconsciamente, abbia scelto una malattia di paralisi fisica per la moglie di Guido, quando all’inizio del libro Guido era in preda a una sorta di paralisi interiore.

Ultima, ultimissima domanda. Quando hai finito di scrivere, ti sei messa a ballare per l’emozione?

Guarda, ti farò ridere, mi sono messa a piangere, per l’emozione: quando ho visto il testo impaginato, pronto per la stampa, c’è stato davvero un momento di lacrimuccia, di commozione. Non me l’aspettavo.

Alessia Soldati

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