Karen Blixen: conosciuta per La mia Africa, il libro più apertamente autobiografico, che ha visto l’interpretazione sullo schermo di Maryl Streep e Robert Redford, è stata insuperata autrice danese di racconti. Scrive di lei per la collana “Profili” Rossella Pretto, poetessa, traduttrice e scrittrice, viaggiatrice nei luoghi di Blixen di cui ci racconta anche attraverso un diario di viaggio alla fine del volume.
Abbiamo incontrato Rossella per scoprire i “dietro le quinte” di Karen Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia.
Cosa ti ha spinto a scrivere un profilo su Karen Blixen?
Credo che Karen Blixen sia sempre stata, nei miei pensieri, una figura protettrice e un maestro, se vogliamo usare questo termine. È esplosa quasi all’improvviso, in me. Io la conoscevo già, era una scrittrice che aveva molto da dirmi. C’è stato un periodo in cui seguivo un filone inerente alle riscritture shakespeariane, e la Blixen vi è entrata di diritto. Penso all’incontro che ebbe con John Gielgud, grandissimo attore inglese, che lei incrociò un giorno a Parigi. Lui la invitò ad andare a vedere la sua versione de La tempesta di Shakespeare a Stratford-upon-Avon. Dopo la rappresentazione, Karen scrisse una tempesta a modo suo.
Non saprei rispondere alla tua domanda. È un’esigenza che viene dal profondo, non ha cause specifiche.
Nel libro tratti molti aspetti della sua vita. Quali di questi pensi sia il più rappresentativo della sua personalità e della sua opera letteraria?
Sicuramente l’esperienza africana e la conseguente cesura avvenuta con il ritorno in Danimarca.
Questi due ambienti, questi due modi di vivere completamente opposti: da una parte l’esperienza a contatto con l’Africa – un’esperienza appunto arcaica, primigenia, che l’ha formata e ha fornito l’impalcatura alle sue storie – le ha fatto vedere un possibile modo del racconto, abituata com’era ai grandi miti, all’oralità, alle storie dei suoi africani.
Dall’altra parte invece, l’impostazione austera della Danimarca, della sua famiglia d’origine le ha dato uno scossone che le ha permesso, in quella cesura, di insinuarsi e affermarsi come essere particolare.
Come ha influenzato la sua vita il periodo trascorso in Africa?
Proprio quello che ti dicevo, il fatto di essere totalmente immersa in un ambiente extra-ordinario rispetto alla sua crescita le ha insinuato questa grande voglia, questo desiderio di avventura che preesisteva in lei e che è sbocciato con impeto. Anche il fatto di essere a contatto con gli animali e con le malattie (ha contratto la sifilide e se l’è cavata da sola, viveva in una piantagione con migliaia di boys – come vengono chiamati i nativi – ma sostanzialmente da sola). Ha diretto una piantagione, inseguendo l’amore in maniera così anticonformista, come ha fatto poi con Denys Finch Hatton districandosi da tutti i problemi, anche quelli burocratici, combattendo per i diritti di un popolo non suo, con l’obiettivo di restituire loro le terre.
Tutto questo le ha dato la libertà e l’agio di trasformarsi in una narratrice raffinata, che in qualche modo assomigliava a quello che lei voleva essere: Sheherazade, simbolo del racconto che ti prolunga la vita.
A che età parte per la prima volta per l’Africa?
A ventott’anni. E subito si innamora di queste terre.
Va in Africa col marito Bror von Blixen-Finecke, un nobile danese con le mani bucate e quindi bisognoso di soldi. Lei, al contrario, ricca di famiglia, ha bisogno di un titolo. Un matrimonio conveniente per entrambe le parti con un’ambizione comune: partire per l’avventura. Avevano fame di vita. Karen voleva vivere, voleva ballare, voleva dipingere, voleva provare qualsiasi emozione. Non le interessava fare arte, letteratura, essere un’intellettuale. Voleva vivere, e l’Africa era questo per lei.
Tre aggettivi per descrivere Karen Blixen?
Coraggiosa, passionale, ironica.
Karen Blixen è sempre stata entusiasta nonostante tutti gli ostacoli, coraggiosa e ironica. Diceva ai giovani che senza l’ironia, senza l’amore, senza il coraggio non si va da nessuna parte, perché bisogna oltrepassare ciò che il destino ci ha messo di fronte – e il coraggio serve anche ad accettare questo destino: a modificarlo accettandolo. Vivere la propria vita, scegliendola: è un concetto tragico e fondamentale per comprendere i meccanismi dell’esistenza.
Nel libro è presente anche un diario di viaggio a Rungstedlund. Ci racconti come è andata?
È stato molto bello, io sono stata più volte nella sua casa. Casa bellissima, tra l’altro, che adoro e che è diventato uno dei miei posti del cuore, dove trovo pace. Lì si respira davvero un’atmosfera armonica. Adesso è una casa-museo, è aperta tutto l’anno, organizzano molti eventi e mostre, è bella e molto interessante. Ti leggo un pezzetto, se vuoi, di questo viaggio, dove racconto della stanza verde dove veniva ospitato uno dei suoi grandi amori.
Rimane da vedere la stanza verde, dove Karen ospitava Thorkild Bjørnvig: l’amore che ti rifiuta e ripudia. L’onta di un tempo che volta le spalle lasciando l’eredità dell’amaro. Il salottino, il tavolo da lavoro. E il grammofono! Si sbrigliano le note dell’andante del Quartetto per archi numero 17 di Haydn e sei anche tu con loro, con lei e Denys, guardi le giraffe, le distese infinite dove la vita si annulla e si rialza, sgroppa su quella terra d’origine e corre insieme ai bufali, corre al fianco delle gazzelle e si sfrena nel galoppo delle zebre, ansa nelle fermate poderose dei leoni e riprende a percuotere il suolo tra le zampe dei rinoceronti. È tutto così leggero, un fiato che esala dalla terra e capriola nell’aria sventolando. La baronessa è stesa lì sul divanetto sotto la finestra, come spesso la trovava Bjørnvig, lo sguardo oltre i limiti degli occhi, nella favola che poteva onorare solo in parole. Andata.
C’è un aspetto meno noto che pensi meriti più attenzione? Perché, secondo te, è sconosciuta ai più?
È vero, non è tanto conosciuta, ora come ora, ma in realtà è sempre stata una scrittrice di grande rilievo, soprattutto per il cinema. La mia Africa l’hanno visto tutti, lo ripassano molte volte in tv. Ma ci sono anche altri capolavori come Il pranzo di Babette, la Storia immortale girata poi da Orson Welles. Credo che in questo momento sia una scrittrice forse sottovalutata perché è anche molto difficile: la sua scrittura è preziosa, fatta di strati, il suo pensiero attinge alle storie, al mito, a tutta una cultura a cui non siamo abituati oggi e che richiede molto impegno; i suoi personaggi sono complessi e tanti i riferimenti. Come diceva un critico, le sue storie avvengono in uno strato della coscienza a metà tra il fisico e l’inconscio, uno strano limbo dove tutto si scioglie, si aggroviglia. È complessa ma anche molto interessante.
E da dove consiglieresti di iniziare per un neofita?
Io amo molto gli Ultimi racconti perché sono un po’ la sintesi della sua opera, però sicuramente La mia Africa è interessante perché coniuga parte della sua vita, e quindi ci racconta anche dell’Africa come era concepita all’epoca, cioè una grande avventura. Attraverso questo libro si possono ritracciare un po’ gli eventi della sua vita. Però insomma, tutte le raccolte sono particolari. Considera che lei ha cominciato a scrivere e a pubblicare le Sette Storie Gotiche a circa 50 anni, una cosa abbastanza strana all’epoca.
Hai un aneddoto su di lei che ti è rimasto impresso, che vuoi condividere? Una curiosità che ti è piaciuta?
Vediamo, ce ne sono tanti, tante cose da ripescare.
Sposando Bror diviene la Baronessa, circondata da un’aura quasi sacerdotale, ma una bella curiosità è quella che la vede dare nomi ai suoi vestiti: tutto diventava occasione per farne racconto, per affascinare, per essere eccentrica, per – insomma, sì, lei aveva questo bisogno assoluto di fare della vita, racconto. Si consegna alla scrittura come se fosse un demone e prende occasione da tutto.
Anche durante il suo ultimo viaggio trionfale, la tournée americana del 1959 che la riporta indietro in fin di vita praticamente, lei non smette di raccontare e va a tutti gli eventi, incontra tutti; si regge in piedi a stento, ma è in questo contesto che incontra ad esempio Marilyn Monroe, Arthur Miller e Truman Capote. Due ostriche, un po’ di champagne, qualche chicco d’uva e continua a raccontare, a raccontare, a raccontare. Poi sono costretti a ricoverarla e riportarla a casa, però era questo il suo modo di vivere, di raccontare la vita.
Cosa può insegnarci con questo?
Insegnare non lo so. Una filosofia perdente nella nostra società, ma che io amo molto, è quella che insegna a vivere in un “inter-regno” dove ancora sono possibili i miti, dove la vita non è solo esteriorità, raggiungimento di obiettivi, funzionalità, ma è stacco che educa a perdersi nell’inutile, in ciò che è spreco.Per me è un grande dono quello di poter “sprecare”. Un concetto in qualche modo aristocratico, perché gratuito, come l’arte. L’arte è gratuita – uno “spreco” quindi – non serve a niente. Ma è fondamentale per essere umani.