Anna Benvenuti torna in libreria con il terzo libro con protagoniste Arianna e Carolina, arrivate ora all’estate della maturità. Una storia che affronta temi molto importanti e delicati: dai dubbi alle incertezze per il futuro, alle conseguenze psicologiche post-pandemia. Abbiamo allora incontrato l’autrice per fare una chiacchierata sul dietro le quinte di Quello che ci resta.
Dietro le quinte di Quello che ci resta: una chiacchierata con Anna Benvenuti
Da dove arriva l’ispirazione?
L’ispirazione è tornata, oserei dire. Essendo questo il terzo libro di una trilogia, è come se le protagoniste del mio ultimo romanzo avessero fatto un sonnellino per un paio d’anni e poi si fossero risvegliate nell’anno della maturità. Sono venute a trovarmi esigendo di essere prese in considerazione.
Era estate, ero in Sardegna ed effettivamente era il momento giusto. Mio marito Lorenzo aveva visto che avevo un po’ il blocco dello scrittore perché stavo cercando di portare a termine un romanzo che riguardava mio nonno ma ero troppo coinvolta emotivamente su di lui e allora Lorenzo mi ha proprio detto: “A te piace raccontare. Perché non riprendi in mano questa storia e la racconti?”
Ed è stato proprio così. Arianna è venuta a trovarmi insieme alla sua amica Carolina e in venti giorni ho raccontato la loro storia.
Il libro è ambientato nell’entroterra sardo. Sei andata a visitare nello specifico i luoghi della tua storia o, al contrario, sei solita frequentare quei posti e ti è venuto in mente di poter usarli come quinte teatrali?
Io vado in Sardegna da più di vent’anni perché mio marito ha origini sarde e conosco tutta la zona nord della Sardegna che è un posto bellissimo. Non mi era mai venuto in mente, in realtà, di ambientarci questi romanzi, che erano invece situati in Puglia, ma quest’anno i luoghi mi parlavano in modo diverso. Ogni gita in macchina, ogni spostamento verso la spiaggia, io me li immaginavo già trasfigurati tra le pagine. In particolare, queste fazioni immerse nel verde dell’entroterra, sotto queste bellissime falesie mi hanno dato una folgorazione. Lì le falesie sono diventate anche il mio nuovo ambiente naturale preferito! Ho poi voluto inserire Castelsardo che è un luogo bellissimo, e la spiaggia “La Madonnina” a Lu Bagno in cui ho da sempre portato i miei figli.
Riallacciandomi alla prima domanda, anche in Quello che ci resta c’è la figura del nonno Pinna: hai preso ispirazione dalla tua vicenda personale?
No, questo nonno non assomiglia assolutamente al mio, però è vero che probabilmente da qualche parte nella mia mente c’era questa presenza forte del nonno. Io ero legatissima a mio nonno. È una figura veramente importante per me, un punto di riferimento perché penso che sia stata una persona che aveva tantissimo da insegnare. Anche senza volerlo lui con il suo esempio mi ha fatto capire che cos’è l’amore e quindi permane anche se il nonno del romanzo non ha niente a che vedere con lui. Era una persona profondamente buona.
È stato difficile quindi scrivere le scene in cui Carolina non parlava al nonno e lo trattava con ostilità e indifferenza?
Un po’ sì, anche se capivo che quello poteva essere proprio la svolta per Carolina stessa. In fondo non è l’unico nonno che c’è. C’è sia nonno Pinna, sia il nonno di Arianna, molto presente negli altri romanzi. Sottotraccia la figura del nonno c’è sempre. Sono nonni che sono punti di riferimento, sono rocce contro le quali le ragazze vanno a sbattere, infrangendosi come onde, ma che alla fine hanno la capacità di resistere e le ragazze imparano qualcosa grazie al loro esempio.
Per quanto riguarda le due protagoniste, Arianna e Carolina: rivedi qualcosa di te stessa in loro o sono completamente diverse?
In Arianna ho imparato a rivedermi: ormai ragiono come lei, anche se non ero così a quell’età. Però mi rivedo un po’ nella sua impulsività che a volte la trascina nel panico… ecco, sono un po’ così anche io. Ormai però lei vive di vita propria. Mi identifico in lei ma quando scrivo sono proprio lei, due cose ben diverse: non sono più me, sono lei e lei vive in questo modo. Invece Carolina è stata molto più complessa. Lei è la perfetta sintesi di alcune mie studentesse che mi sono corse davanti in questi ultimi anni e che hanno vissuto delle esperienze profonde di sofferenza, tant’è che anche nella dedica del romanzo ho voluto richiamare alcune di loro citandole per nome perché sono persone con le quali io ho imparato tanto. Mi hanno lasciato tantissimo e volevo che Carolina un po’ le raccogliesse tutte. Quindi non è nessuna di loro, assolutamente, ma qualche volta Carolina dice cose che ogni tanto loro mi hanno detto. Spero che loro possano rivedersi un po’ in lei e nella speranza che lascia alla fine.
A un certo punto della storia Arianna inizia una caccia al tesoro in casa di nonno Pinna: ha mai fatto una caccia al tesoro come Arianna in casa di ospiti?
In realtà no, però effettivamente fin da piccola, anche con mia sorella, ci piaceva tantissimo frugare nei cassetti delle fotografie. I miei nonni avevano un enorme cassetto dove tenevano tutte le fotografie in bianco e nero da quando loro erano piccoli. Mia nonna aveva anche le foto di sua mamma e le sue zie, di suo papà e dei suoi fratelli, che risalivano ai primi del ‘900 e addirittura alla fine dell’800. Sicuramente questa mia esperienza è entrata nel primo romanzo – Niente che ci assomigli – quando Arianna fruga nel granaio e trova le foto dei suoi genitori. Manoscritti non ne ho mai trovati… Esisteva un manoscritto nella famiglia di mia nonna: sua zia aveva scritto un romanzo sulla storia della sua famiglia, però anche quello dev’essere rimasto in qualche angolo remoto del mio cervello perché è venuto fuori solamente dopo. Sembra l’evoluzione naturale della storia di Arianna perché nella masseria dei nonni trova anche i disegni dello zio da cui capisci tutta una serie di cose. Poi dal disegno siamo passati alla parola scritta.
Una cosa che mi ha colpito molto è la tua bravura nel riportare le emozioni e le sensazioni di quell’età, che già io stessa a 25 anni ho paura di dimenticare. Come sei riuscita ad essere così autentica?
In questo mi aiuta molto il mestiere che faccio (docente di Italiano in un liceo milanese, ndr), probabilmente, perché io vivo a contatto con i ragazzi. Ho anche quattro figli ma risulta più complicato, forse perché si aprono meno con me. E io personalmente parlo tanto coi ragazzi e riesco a intercettare come si sentono. Però è vero anche che a volte le percepisco io stessa, soprattutto col personaggio di Arianna. Ormai l’ho interiorizzata talmente tanto che mi sembra di provare le sue stesse emozioni.
Un’autenticità che si percepisce anche dalla scelta di non nascondere gli atteggiamenti negativi, quelli che fan soffrire le persone attorno.
Mi trovo molto bene con i miei studenti e ho sviluppato nel corso degli anni una grande indulgenza nei confronti degli adolescenti. Io accetto con rispetto anche i loro comportamenti “sbagliati”, chiamiamoli così, dal giudizio dell’adulto. Ho imparato sulla mia pelle, anche attraverso le esperienze famigliari, che bisogna avere rispetto anche per l’errore dei ragazzi. La mia indulgenza mi porta ad accettare i loro comportamenti sbagliati e, non dico a giustificarli, ma ad accoglierli sì, per poi provare magari a rilanciare. Credo molto nel “rilancio”, nella possibilità di riprovarci, di aggiustare, che era un tema alquanto presente nel secondo romanzo (Ancora tutto da imparare). Non si butta via qualcosa, si trova una soluzione, si prova a ricostruire. In quest’ultimo libro questo messaggio passa attraverso il tema dell’amicizia tra Arianna e Carolina: anche se hanno fatto cose orribili e non ne vanno fiere, l’amicizia si rilancia.
Come mai hai deciso di raccontare il momento della loro maturità e cosa vuol dire avere diciotto anni?
Si può dire che le ho viste crescere. Ho iniziato nel passaggio tra la scuola media e il liceo e mi sembrava interessante vederle nel momento in cui finivano il liceo e si affacciavano alla vita adulta. Mi sembrava liberatorio e l’ho sentito così con le classi che hanno vissuto il covid in pieno e hanno fatto una maturità diversa dal solito, solo orale, una maturità di liberazione in un certo senso, come se riuscissero a liberarsi di tutto quello che avevano vissuto, dalla scuola alla pandemia. L’ho inteso quindi come un inizio in cui potevano finalmente incominciare a fare progetti per una vita futura. Con circolarità, ho voluto continuare con le soglie dell’università, anche per fare un bilancio: come sono cresciute, come sono cambiate negli anni. La maturità è sempre un rito di passaggio ma in questi anni durante il covid ho percepito che la maturità è proprio un momento di liberazione. Arianna e Carolina vivono la maturità del 2021 che è stata quasi più difficile di quella del 2020 perché la “novità” era già passata: il secondo anno di covid è stato un trascinamento, un anno di straordinaria difficoltà in cui ho visto crollare tante ragazze.
Secondo la tua esperienza il periodo della pandemia ha influito negativamente sui ragazzi? Hai riscontrato anche un aumento di fenomeni di autolesionismo? Ne è un esempio Carolina…
Sono a contatto coi ragazzi da tanti anni. Qualche fragilità c’è sempre stata ma poi, durante il covid, sono proprio esplose. Non credo sia il covid il responsabile ma è come se avesse acuito chi già aveva un disagio. È aumentato l’autolesionismo, sono aumentati tantissimo gli attacchi di panico e di ansia, i disturbi dell’alimentazione. Una fragilità diffusa, un’esplosione totale. In ogni classe abbiamo almeno una, due, tre persone con disturbi vari.
Perché hai scelto di toccare un tema così importante e diffuso?
Perché c’è bisogno di un maggior supporto. Anche noi insegnanti avremmo bisogno di un sostegno proprio per aiutarci ad aiutare a sostenere loro. Non avevo intenzione di parlare solo di questo, è riduttivo il modo in cui io lo affronto, però era necessario dare voce. A me sembra che siano disturbi che poi vengono passati sottotraccia.
Quasi nascosti per vergogna…
Esatto, e infatti è quello che fa Carolina, si nasconde perché è difficile affrontare questo discorso. Io so per certo, perché me ne hanno parlato, che alcuni di questi ragazzi vengono maltrattati negli ospedali. A un certo punto Carolina nel libro lancia questa accusa. I medici qualche volta non sono benevoli nei confronti di chi si è fatto male volontariamente. “Io devo curare chi soffre, non chi lo ha fatto apposta.” Li colpevolizzano.
Però il fatto di “farlo apposta” è una conseguenza di altri malesseri interiori.
Infatti. Io sono rimasta basita quando ho saputo questo e ho voluto proprio dare voce a questa accusa. Carolina lo dice:
«Ma lo sai cosa vuol dire stare così male da preferire il dolore fisico? E lo sai come ci si sente quando il dottore ti guarda con disprezzo? E sai quanto ti consideri uno schifo quando l’infermiere ti dice che non te la fa l’anestesia per i punti, tanto ti piace soffrire?».
Non volevo farne un focus, ma volevo dare voce a questa tematica molto sensibile. Carolina non si riduce a questo, ma è anche questo. L’ha vissuto e mi sembra giusto dare un po’ di spazio.
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Alessia Soldati