grafica il cantico di francesco Alessandro rivali

Per celebrare gli 800 anni dal Cantico di San Francesco, il Dicastero per la cultura ha riunito in Vaticano 18 poeti e poetesse per trascorrere tre giorni  sulle orme di Francesco da Roma ad Assisi e per lasciarsi ispirare dal quel testo fondante della letteratura italiana che può far riscoprire i valori della pace e della fraternità. Tra gli invitati, anche il nostro Direttore editoriale Alessandro Rivali, poeta e scrittore.
Di seguito lasciamo traccia del suo intervento all’incontro esclusivo di lunedì 2 dicembre.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle

 Una persona che ha perso la capacità di sognare manca di poesia, e la vita senza poesia non funziona”, così ha ricordato Papa Francesco nella sua lettera d’apertura alla recente antologia della poesia religiosa Versi a Dio (Crocetti editore) curata da Davide Brullo, Antonio Spadaro e Nicola Crocetti.

Questa considerazione mi ha rimandato agli anni universitari, quando mi affacciavo al mondo della poesia, e in concreto alla prima volta che varcai la soglia del grande Planetario di Milano con i suoi curiosi sgabelli girevoli di legno. Quel giorno il conferenziere mostrò dapprima la rappresentazione del cielo sopra Milano. Era uno scenario triste, in scala di grigi. Dato l’inquinamento luminoso, era impossibile vedere le stelle. Poi, tra lo stupore di tutti, mostrò l’immagine del cielo che dovevano osservare gli antichi Greci. Era un abbagliante formicolio di stelle, tagliato dal bianco fiume della Via Lattea. Tale quieta meraviglia invitava a sognare, a dare nome alle costellazioni, a creare storie e miti contemplando la natura.

Oggi il nostro cielo interiore è inquinato dall’ansia di prestazione, dalle relazioni “ibernate”, secondo l’espressione del sociologo Pierpaolo Donati, dalle intermittenze dello smartphone. In questo senso, la poesia, con i suoi spazi bianchi, i suoi misteri, i suoi cortocircuiti, è un eden di libertà per tornare a sognare. La bellezza della natura ha sempre aperto al sogno.

Ho avuto la fortuna di lavorare per nove estati con Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound. Nel suo castello straripante di libri e cimeli, mi ha raccontato più volte di come suo padre riuscì a sopravvivere all’orrore della gabbia in cui era stato imprigionato grazie alla contemplazione della natura e al suo “sogno” di continuare a scrivere i Cantos, fosse anche utilizzando un mozzicone di matita e della carta igienica. Da quella tragica esperienza, nacquero alcuni dei suoi versi più celebri, come quelli del Canto 81, in cui parla di un uomo in frantumi, di un cane bastonato sotto la grandine:

Ciò che sai amare rimane, il resto è scoria / ciò che sai amare non ti sarà strappato / ciò che sai amare è il tuo vero retaggio / il mondo, quale? Il mio, il loro / o di nessuno? […] La formica è centauro nel suo mondo di draghi. / Deponi la tua vanità, non è l’uomo / che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia, / deponi la tua vanità, dico, deponila! / La natura t’insegni quale posto ti spetta / per gradi d’invenzione o di vera maestria, / deponi la tua vanità.

 

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta

L’esame di coscienza di Pound nella solitudine e di fronte alla natura mi ha anche riportato agli ultimi giorni del poeta Giampiero Neri, che è stato il mio maestro e in fondo la mia vera università. Pochi giorni prima di morire, con ancora la voglia di scrivere e leggere le sue nuove poesie, mi affidò Utopie il suo ultimo libro (Ares 2023): per la quarta di copertina scelsi un testo che è il suo testamento spirituale e che mi sembra abbia molte aderenze con il grande Cantico di Francesco:

Si dice di alcune persone che, quando entrano in una stanza, la occupano tutta. Dovrei immaginare che, quando se ne vanno, lasciano un grande vuoto. Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.

Il dolore è sempre uno scandalo per ognuno di noi. Mi hanno lasciato sempre perplesso quegli uomini, o quei teologi, con la risposta pronta di fronte al mistero del male. Invece, mi è stato sempre arricchente leggere l’esordio del libro di Giobbe. Gli amici che vogliono consolarlo, prima di iniziare a parlare con lui, si siedono al suo fianco e aspettano sette giorni e sette notti: “Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore”. Nessuno di noi vorrebbe incontrare il dolore, eppure quando lo incontriamo diventiamo nostro malgrado più sensibili nei confronti degli altri. Più attenti alle piccole cose. Chi ha avuto lunghe consuetudini con le corsie degli ospedali credo possa comprendere bene di cosa parlo. Un grande poeta del nostro tempo come Adam Zagajewski ha scritto di questa esperienza in modo mirabile:

Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure. / I rondoni danzano nell’aria… (Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005, Adelphi, 2012).

Personalmente, mi ha molto toccato Dilexit nos, la nuova enciclica di Papa Francesco, soprattutto quando ricorda Francesco di Sales che vedeva negli eventi “insignificanti” della giornata dei momenti per alzare il cuore a Dio:

Sarà contento di noi solo se avremo cura di servirlo bene nelle cose importanti e di rilievo come nelle piccole e insignificanti; sia con le une che con le altre, possiamo rapirgli il cuore […]. I piccoli gesti quotidiani di carità, un mal di testa, un mal di denti, un lieve malessere, una stranezza del marito o della moglie, un vaso rotto, un dispetto, una smorfia, la perdita di un guanto, di un anello, di un fazzoletto….

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Seamus Heaney è uno dei poeti che hanno intessuto un lungo dialogo con la natura: nel bellissimo volume La riparazione della poesia si è messo in ricerca dei variati significati del verbo To redress: riparare, appunto, ma anche raddrizzare una persona, riportare alla posizione eretta, ristabilire, restaurare, ricondurre i segugi al sentiero ristabilito. È una traccia luminosa da seguire. Tutta la sua ricerca è all’insegna dello scavo interiore, della verità:

La poesia fornisce un sorso di acqua sorgiva di conoscenza trasformata, e colma il lettore con un senso momentaneo di libertà e integrità. (Heaney, La riparazione della poesia, p. 10).

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Ricordo il fuoco nelle notti in montagna al tempo degli scout. Quella fiamma nel buio scaldava il corpo, ma anche i cuori. Spingeva gli amici alle confidenze. Credo che la poesia abbia molto a spartire con la tenerezza. È uno zoom ad altissima definizione sul cuore umano, che vede gli occhi opachi di un’amica che ha perso l’amore; quelli di un figlio che stringe la mano bluastra di un padre in agonia; quello di un nonno che insegna al nipotino i nomi degli alberi. Da quando l’ho scoperta, mi è sempre stata di conforto questa poesia di Milosz, un poeta che forse andrebbe ricordato più spesso. Racchiude i sogni di un poeta innamorato della vita e sgomento di fronte al mistero:

Vieni, Spirito Santo,
piegando (oppure no) l’erba,
mostrandoti (oppure no) con una lingua di fiamma sul capo,
al tempo delle fienagioni, o quando il trattore esce per la prima aratura
nella valle dei boschetti di noci, o quando la neve
seppellisce gli abeti storpi nella Sierra Nevada.

Sono solo un uomo, ho quindi bisogno di segni visibili,
il costruire scale di astrazioni mi stanca presto.
Ho chiesto più volte, lo sai, che la figura in chiesa
levasse per me la mano, una volta, un’unica volta.
Capisco però che i segni possono essere soltanto umani.
Desta dunque un uomo, in un posto qualsiasi della terra
(non me, perché ho comunque il senso della decenza)
e permetti che guardandolo io possa ammirare Te.

 (Milosz, Poesie, Adelphi, traduzione di Pietro Marchesani)

 

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare:

Dicono che Francesco abbia completato il Cantico trafitto dalle sofferenze. E lo accosto anche alla figura di Giovanni della Croce, altro grande poeta che meditò e compose le sue strofe nel momento più buio della sua esistenza. Potenza della libertà del cuore assediato dal male. Tra i miei libri totem, c’è Uno psicologo nei lager (Ares, 2004) di Viktor Frankl, che riuscì a trovare una speranza ad Auschwitz, dopo aver perso i genitori, la giovane moglie e l’unico manoscritto del suo primo libro: sosteneva che se un uomo ha un perché nella vita riesce a sopportare quasi ogni come. In concreto, mise al servizio dei moribondi la sua esperienza di medico e rimase stupefatto di fronte a una ragazza nel campo che riusciva a morire con il sorriso perché vedeva un melo in fiore che per lei era segno della vita eterna.

Il dolore come il deserto sono sempre state sfide aperte per la poesia. Penso a Giobbe, ma anche all’oscuro libro del Qoelet, il “grande intruso” della Sacra Scrittura. Eppure, mi è di conforto sapere che nella Bibbia c’è un testo nero e lucente come l’ossidiana. Perché la nostra vita è in chiaroscuro. È bellissima la rilettura del card. Ravasi di fronte agli ingenui tentativi di “addomesticare” il Qoelet:

Qoelet ci insegna che anche nella crisi, nel silenzio stesso di Dio, si può nascondere paradossalmente una sua presenza, una sua epifania segreta, una sua parola rivelatrice. Il terreno umano dell’interrogativo amaro, come quello della sofferenza di Giobbe, in cui sembra più facile parlare di vuoto o di assenza di Dio, può in realtà essere misteriosamente fecondato da Dio. (Ravasi, 15-16)

E un testo che mi piace accostare a una riflessione sulla speranza di Havel, politico e drammaturgo che a lungo dovette lottare contro il male:

La speranza è un orientamento dello spirito, un orientamento del cuore; trascende il mondo immediatamente vissuto, ed è ancorato in qualche luogo oltre l’orizzonte. Non credo di possa spiegare semplicemente come una pura deprivazione di qualcosa di presente, un movimento, un segno favorevole nel mondo. Sento che le sue radici sono più profonde sono nel trascendente, come sono le radici della responsabilità umana. Non è la convinzione che qualcosa finirà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come finirà. (Heaney, 18, che cita Havel, Disturbing the Peace, London, Faber 1990).

Laudate et benedicete mi’ Signore et ringratiate et serviateli cum grande humilitate

Il congedo al mondo di Francesco all’insegna del servizio mi ha portato a un altro grande testamento, che considero uno dei momenti più alti della letteratura del Novecento, anche se non sarà mai riportato da nessuna antologia scolastica. Sono le parole di Paolo VI, il pontefice che negli ultimi mesi della sua vita ebbe il cuore spezzato per le tante defezioni nella Chiesa e per la tragica morte dell’amico statista Aldo Moro.

Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce. Di solito la fine della vita temporale, se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza: quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche, e così chiare ormai per denunciare il loro passato irricuperabile e per irridere al loro disperato richiamo. Vi è la luce che svela la delusione d’una vita fondata su beni effimeri e su speranze fallaci. Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi. Vi e quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita: «vanitas vanitatum». Vanità della vanità. Quanto a me vorrei avere finalmente una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita: penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito. Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! (“Osservatore romano” del 9 agosto 1979)

Nella sua Lettera ai poeti, Papa Francesco ha lanciato il suo invito:

È quello che vorrei chiedere oggi anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità.

Per fare questo c’è bisogno di poeti che riscoprano la tersa bellezza del Cantico del poverello d’Assisi. Abbiamo bisogno di parole forti e chiare, assetate di verità e di tenerezza. Come quelle di Omero, Dante o Ungaretti.

Alessandro Rivali