Lettera di un palliativista

È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema delfine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Lettera numero 1

Caro Collega,

grazie per la tua mail di auguri; per rispondere al tuo primo quesito: sì, sto bene. Sono in pensione da poco e mi riposo.

Adesso vengo al cuore della tua lettera, nella quale mi chiedi un parere circa l’epidemia di morte, di richiesta di morte, di elogio della morte, che pare trasudare ogni giorno dai giornali del mainstream. Vuoi sapere da me, felicemente fuori dal giro, cosa succede. E io provo a risponderti, innanzitutto dicendoti ciò che vedo.

In primo luogo, parlare male del SSN è diventato uno sport: tutti si lamentano (almeno sui media), pochi lodano, ancor meno descrivono. Tu e io sappiamo ciò che sta succedendo: noi siamo pochi, i malati sempre di più. Ci sono sempre più anziani, sempre più soli, sempre più senza soldi. Cosa pensi che vogliano fare, se non vivere un po’ meglio, un po’ meno soli?

E, se non riescono, vogliono morire.

E veniamo al dunque: mi chiedi quanti malati mi abbiano davvero chiesto di morire: pochi, in effetti. A volte, pensa un po’, ho ricevuto richieste di eutanasia dai parenti, con i pazienti che volevano, invece, vivere! A volte, erano i malati a volere la morte, mentre i familiari, la vita. Altre ancora, tutti chiedevano la morte. Vuoi sapere quanti hanno mantenuto fino alla fine la richiesta di morte? NESSUNO! Certo, ho lavorato con Colleghi in gamba, Infermiere competenti, OSS davvero bravi.

E ti interessa sapere quanti mi hanno chiesto di vivere senza soffrire, sino all’ultimo, godendosi la famiglia?
Quasi tutti.

Scusa lo sfogo.

Affronto adesso la tua altra domanda, quella che mi hai fatto tante altre volte: perché non parli? Perché non scrivi? Perché non dici quello che, decine di migliaia di volte, ogni giorno, i malati chiedono a ognuno di voi, in Cure Palliative? Un po’ perché sono stanco. Un po’, perché ho perso la speranza. Un po’, perché non ho nessuna voglia di finire al centro del mirino da parte dei giornali e della politica.

Adesso però, forse, è ora di parlare. Ti racconterò i miei malati; cambierò i loro nomi, la loro età; la loro storia, invece, sarà vera. Sai, vorrei dire tutta la verità, chiamarli per nome, far vedere le loro foto. Nel mondo di Instagram e Onlyfans, o come si chiama, perché non dovrei? Mi trattiene il pudore (parola desueta), il senso del rispetto per i miei malati (da sempre parte della nostra deontologia), e il timore degli attacchi della stampa: adesso, se cerchi di uccidere un paziente, ti propongono una carriera politica; invece, se ti trovano con tre fiale di morfina nella borsa, finisci davanti al giudice. E a nessuno importa della proverbiale “sciura Maria”, che magari è a letto con un tumore molto doloroso, come il mieloma multiplo, e grida per il dolore: se vuole, può avere il suicidio assistito, ma tu, se vuoi darle la morfina in urgenza, devi firmare più carte di quelle richieste per aprire un conto corrente in Svizzera. Pazzo mondo.

Adesso comincio a raccontare, mi fermerò quando finirà la memoria. Un racconto per volta, un malato per volta. Come ti ho scritto poco fa, li renderò irriconoscibili – ma sono esistiti, e io ricordo i loro occhi.

Ero all’inizio della carriera, e pensavo di cambiare il mondo: volevo aiutare i malati, tutti, a morire con il sorriso sulle labbra. Arrivai a casa di un paziente, chiamato dal medico della mutua. La casa era in una cittadina di periferia: pulita, con un giardinetto e la staccionata in legno che dava sulla strada. Mi condussero su per la grossa scala in massello, a gradini alti, verso il piano di sopra. A destra, si apriva l’ala luminosa della casa, con un grosso soggiorno e, ancora a destra, il divano dov’era il paziente. Di fronte, un tavolo per pranzare. Poco più in là, il bagno. Mi guardavo attorno, per capire la mentalità del malato e dei familiari, in base agli arredi, e nel frattempo pensavo ai possibili problemi: primo fra tutti, il medico di famiglia era lontano parente del malato: come sai, i pasticci peggiori arrivano dai parenti dei medici. In questo caso, però, non fu così.

Mi avvicinai al paziente: era di mezz’età, aveva un cancro al colon-retto, sanguinante. Il dolore non era controllato. Le due figlie, minorenni, erano presenti e con gli occhi sbarrati. Cominciai a visitare il malato, impostai la terapia antidolorifica più semplice (basse dosi di morfina per bocca, per iniziare a trovare la posologia corretta), e chiacchierai un po’. Tornai la settimana successiva, e il dolore era scomparso, ma non il sanguinamento; il paziente stava trasfondendo, ed era sangue prezioso, zero negativo; mi guardò negli occhi, e – da uomo intelligente e colto, che conosceva i problemi della disponibilità del sangue – mi chiese: “Perché? Perché mi trasfondete? Il mio gruppo sanguigno è raro, e io sto morendo. Che valore ha la mia vita? Perché non mi lasciate andare?”. I motivi che giustificavano la trasfusione erano molti, mentre alcune altre considerazioni avrebbero potuto suggerirci di non trasfondere: non potevo scaricare sul malato tutte le discussioni precedenti all’interno dell’equipe, i dubbi, la decisione presa. Optai, come normale, per sostenere le conclusioni dell’equipe, ma non potevo eludere la domanda relativa al senso. Guardai a mia volta quel signore e gli risposi: “Ha ragione, sta morendo. Lei non può più produrre denaro, però Lei è molto utile. Le Sue figlie, e anche noi, stiamo imparando da Lei. Siamo costretti ad assistere una persona improduttiva: non ci guadagniamo, però stiamo imparando, proprio per questo, la generosità. Lei ci sta insegnando ad essere generosi. Lei ci sta insegnando ad essere davvero umani”. Non mi rispose più, ma mi sorrise: era la risposta che aspettava. Andai a visitarlo altre volte, nelle settimane successive: la malattia aveva progredito, e si trovava a letto. Mi guardò e mi prese in giro, perché, a differenza del suo parente medico, io ero troppo per bene, non usavo il turpiloquio: gli sorrisi, chiusi la porta e gli raccontai una barzelletta da caserma. Scoppiò a ridere e mi disse: “Allora, anche Lei è umano!”. Parlammo di altro, della sua vita, delle figlie, della morte. E del significato di tutto ciò: sai amico mio, non è facile che i malati si lascino vedere per quel che sono, che si confidino; però, se li tratti con grande rispetto e professionalità, se ti fai loro vicino, cercano in te l’uomo, non solo la macchina per scrivere le ricette. Ed è la parte più bella del nostro lavoro: uomo tra gli uomini – essere umano che guarda la vita e la morte –, non ti senti più solo.

Quel paziente morì, settimane dopo, sereno e senza dolore, a casa, circondato dai familiari. Non ho dimenticato, ma non ho rinvangato. Passarono gli anni, tanti. E in un momento difficile per me, quando vedevo solo ostacoli nel lavoro, quando alcuni mi negavano riconoscimenti e cercavano di rovinarmi la carriera, tornai a telefonare a quel medico di famiglia, per assistere un altro suo malato. Il Collega si mise a piangere per telefono: erano passati più di dieci anni, ma nemmeno lui aveva dimenticato. Mi disse che le figlie del paziente, ormai mamme, continuavano a ricordare quei momenti, e a parlare di me con riconoscenza. Rimasi senza parole, ma era quello che mi serviva, in quel momento: una volta avevo aiutato, adesso venivo aiutato.

Vedi, Collega, i malati vogliono questo: vogliono vivere senza soffrire, vogliono morire senza soffrire, e vogliono un senso alla sofferenza, mentre combattono. Invece, adesso, si offre solo la morte.

Tu continua a combattere, visto che hai preso il mio posto come palliativista, io continuo a scrivere. Tanto, I benpensanti non mi possono più privare di pubblici emolumenti!

Concludo dicendoti che, per me, aveva ragione Dame Cicely: “We do best in life if we look at it with clear eyes, and I think that applies to coming up to death as well”.

Ci sentiamo a breve, con un altro racconto.

Tuo,

Pietro Angelo Rossi