Perché dare la vita a un mortale
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Sentiamo ripetere: «Siamo in una situazione di crisi» e «La crisi non accenna a finire». Sembra che in crisi sia la struttura stessa della società. Ma forse la crisi esiste fin dall’origine. Già Esiodo rimpiangeva l’età dell’oro, deplorando la stirpe del ferro della sua epoca. Tuttavia, la nostra crisi presenta tratti nuovi ed estremi che la fanno somigliare a uno stadio terminale in cui l’umano è minacciato di sterminio sotto almeno tre aspetti: tecnologico, ecologico e teocratico. È solo quando qualcosa è sul punto di sparire che ci si rivela nei suoi contorni singolari e con la sua presenza insostituibile. E allora, vale ancora la pena di dare la vita a un mortale? Su tali questioni decisive si muove la riflessione inconfondibile e felicemente paradossale di Fabrice Hadjadj: la sua risposta è per un’alleanza di tradizione e modernità, di escatologia e cultura, di lucidità davanti alla morte ed educazione aperta alla vita.
Fabrice Hadjadj
Fabrice Hadjadj (Nanterre, 1971) è uno dei più brillanti saggisti del nostro tempo. Di famiglia ebrea, nel 1998 si è convertito al cattolicesimo di fronte a una statua della Vergine Maria, nella chiesa di Saint-Séverin nel centro di Parigi. Tra le sue opere, La terra strada del cielo (Lindau, 2010), Mistica della carne. La profondità dei sessi (Medusa, 2009), La fede dei demoni, ovvero il superamento dell’ateismo (Marietti, 2010), Che cos’è la verità (con Fabrice Midal) (Lindau, 2011), Il Paradiso alla porta (Lindau, 2013).