L’idea di Una vita al kebab è nata nell’estate del 2016, davanti alla stazione San Giovanni di Como: centinaia di migranti si erano accampati in attesa di proseguire il loro viaggio verso il Nord Europa. La polizia di confine svizzera continuava a respingerli e i comaschi li hanno aiutati fornendo tende, vestiti e generi alimentari. La mia scuola (Collegio Gallio di Como, ndr) mise a disposizione gli spogliatoi e le docce della palestra.
Scoprii che quella Como così provinciale, che di chiuso ha persino gli accenti, nascondeva un’anima solidale che meritava di essere raccontata. Così iniziai a fare domande ad assistenti sociali, volontari, preti, ai migranti stessi… finché finalmente permisero loro di ripartire. Continuai la mia ricerca con gli immigrati che conoscevo meglio: i kebabbari.
Ricordo ancora quando incontrai il primo: Murat. Non potevo immaginare che anni dopo avrebbe ispirato il personaggio di Azim, il protagonista del mio primo libro… allora ero solo un quattordicenne con il cuore ferito dalla prima delusione di cuore quando un amico per tirarmi su mi portò nel suo Döner per farmi assaggiare il kebab. Altro che chiodo schiaccia chiodo: fu vero amore al primo morso.
Murat è turco come la maggior parte degli immigrati di Como, tanto che la via della città in cui vivono viene chiamata con malcelata diffidenza “ghetto dei turchi”. Alcuni fortunatamente preferiscono chiamarla “via dell’integrazione“: la comunità turca a Como è simbolo positivo di immigrazione e non è un caso che quella via porti a Piazza San Rocco e Via Napoleona, sedi di mensa dei poveri e dormitori di prima accoglienza in cui ha lavorato uno dei protagonisti dell’integrazione a Como e quindi del mio libro: Don Roberto Malgesini.
Volevo che la sua vicenda e quell’anima solidale nascosta nella mia città venissero raccontate con la stessa emozione che ho provato io nel scoprirle. Per questo Una vita al kebab è scritto in forma di diario: il resoconto quotidiano di un immigrato turco che, mese per mese, anno per anno, cresce insieme al suo Donër Kebab e alla sua famiglia.
Da romanziere esordiente, credevo che il più fosse fatto dopo aver consegnato l’ultima revisione del libro in casa editrice. Pensavo di aver finalmente tagliato il traguardo dopo anni di scrittura, pitch e attese. Invece, con la pubblicazione di Una vita al kebab ho scoperto che la vita di un libro inizia solo quando lo sfogli per la prima volta, con quell’odore di carta e toner che, come la bellezza secondo Stendhal, sa tanto di promessa di felicità. Ma la bellezza, come la felicità, rimane effimera se non viene coltivata: la promozione del libro mi ha richiesto la fatica e la cura che richiede un seme appena sbocciato, o un figlio appena nato. Un neonato di carta che ha portato nuove sfide: i complimenti, le critiche, i viaggi, le presentazioni con le sedie vuote, quelle piene che ti mettono ancora più ansia…
Ma la sfida più grande per me è stata consegnare il libro a Murat. Lui non sapeva che tutte le risposte alle domande che avevo fatto a lui come a tanti suoi colleghi avrebbero realizzato quel puzzle di storie e sogni che hanno dato vita ai personaggi di Una vita al kebab. Murat avrebbe potuto tirarmi il libro dietro, accusandomi di aver preso spunto dal suo viaggio e dalle sue fatiche per raccontare la mia storia, per di più in forma di diario, io che turco non sono e ho potuto risalire la china solo ascoltando le storie di chi si integra e di chi aiuta a farlo.
E invece Murat mi ha sorriso e ha sponsorizzato il mio libro con colleghi, amici e persino su Facebook su tutte le pagine di turchi e kebabbari in Italia. Il suo orgoglio mi ha dato il coraggio per affrontare la prima presentazione nella mia Alma Mater, il Collegio Gallio di Como, e tutte quelle che sono venute dopo, da Milano a Roma, arrivando fino all’onore di presenziare al Book Pride 2024.
Tra tutte, la più sorprendente è stata quella a Varese alla Cooperativa di Biumo e Belforte, che un tempo ospitava gli “spettacoli zero” di Franca Rame come prova generale davanti ai suoi amici di quartiere. Qui ho conosciuto tra i presenti una coppia che sembrava la controfigura dei protagonisti del mio libro: Cem e sua moglie Kagliangi, titolari di un modernissimo e scintillante Döner, dove tra un kebab e un baklava mi hanno raccontato la loro storia, così simile a quella di Azim e Tülay. Che poi è sempre la stessa: un ragazzo incontra una ragazza, come cantavano i The Kolors a Sanremo, ma anche un turco incontra un italiano, o un kebabbaro incontra un prete. Non è una barzelletta, è l’elettricità curiosa dell’incontro di due mondi: e non credo sia un caso che il nome Cem in turco significhi proprio “incontro”.
Claudio F. Benedetti