A quattro anni dalla morte di don Ferdinando Rancan (10 gennaio 2017), pubblichiamo il testo dell’intervento di mons. Ezio Falavegna, docente di Teologia Pastorale presso la Facoltà Teologica del Triveneto, tenuto nel palazzo episcopale di Verona il 19 gennaio 2019 in occasione della presentazione del libro di don Rancan, Un somarello e la sua storia (2018), alla presenza del vescovo di Verona, mons. Giuseppe Zenti, di don Ermanno Tubini, guida spirituale di don Ferdinando nell’ultimo decennio, nonché curatore del volume, e di più di 250 persone.
Rileggendo l’autobiografia di don Ferdinando Rancan, Un Somarello e la sua storia. La storia della mia vocazione sacerdotale e del mio incontro con l’Opus Dei (a cura di E. Tubini, Verona Fedele Editrice, Verona 2018, pp. 320, euro 14), non è difficile riconoscere come nel «portare la croce» egli colga «il filo conduttore» dell’agire di Dio all’interno della propria esistenza. Infatti, attingendo alla ricca spiritualità di san Josemaría Escrivá, don Ferdinando scrive: «Mi ha fatto sempre profonda impressione quel pensiero di san Josemaría Escrivá: “Incontrare la croce è il segno più certo di aver incontrato Cristo e con Lui la salvezza”. Il disegno di Dio per ciascuno di noi prevede infatti la croce e solo attraverso la croce quel disegno ha il suo pieno compimento nella nostra vita. È stato questo il filo conduttore che mi ha portato a rivisitare gli avvenimenti del mio passato e a leggervi il disegno di Dio e l’azione della sua Provvidenza» (p. 149).
Così, infatti, don Ferdinando rilegge la via della croce innanzitutto come un percorso di vita, più che l’identificazione di un tragitto geografico. Per lui il tema della via al seguito di Gesù qualifica l’esistenza cristiana e la vita di comunità come esperienza che si riconosce viandante, pellegrina nella storia, nel segno della speranza. È il cammino dentro il quale Gesù svela il vero volto di Dio, fuori da ogni fraintendimento e in una novità assoluta: un Dio che mostra la sua onnipotenza nella ostinazione di «amare fino alla fine», abbracciando la totalità dell’esistenza umana, anche nelle pieghe più estreme e sofferte della vita.
Singolare al riguardo è quanto scrive riflettendo sulla figura di un prete incontrato nel periodo di studio presso l’Abbazia di Maguzzano: «Ancora una volta mi trovai di fronte al mistero invincibile della presenza di Dio che dialoga in maniera oscura, ma vincente, con la libertà degli uomini. Il pensiero che Dio porta sempre a compimento i suoi disegni passando attraverso le vicende umane costellate da limiti e da errori, diventava una convinzione sempre più chiara dentro di me» (p. 73).
Di fatto tutta la vita di don Ferdinando è impregnata di questa logica di croce, del desiderio di compiere la volontà di Dio e di una fedeltà che non lo sottrae alle numerose ferite che la vita gli presenterà. Veramente impressiona lo stile con il quale egli rilegge e ci consegna gli eventi e gli snodi più sofferti della sua vita, come quello della sua infanzia, della sua malattia, della morte del papà, e così di seguito.
Don Ferdinando ha chiara la consapevolezza che su questa «via della croce» il discepolo è chiamato a seguire il cammino di Gesù. Sappiamo tutta la fatica dei discepoli storici, come quella dei discepoli di oggi, ma non c’è una via alternativa.
Essa, la via della croce, rimane il tracciato in cui esprimere la vita nella sua riuscita, il tracciato in cui vivere la libertà dalle paure che bloccano nell’autoconservazione ossessiva, il tracciato della disponibilità a esprimersi nella forma della gratuità più piena.
È una «via», quella della croce, che come ogni strada mette in conto delle tappe («stazioni»), piccoli o grandi spazi di vita in cui riconoscere e assumere il cammino percorso, ma anche la meta che sta davanti e che motiva l’andare.
Questo itinerario sembra potersi sintetizzare in quattro momenti, quasi quattro stazioni atte a sottolineare le tappe salienti di un cammino.
Passione di Dio per l’uomo
Per don Ferdinando è chiara la consapevolezza che il Dio che si manifesta nel Figlio suo crocifisso è un Dio che nella logica umana si consegna come impotente e debole. Eppure è proprio in questa fragilità e debolezza che si manifesta il volto di Dio. Quando pensiamo all’onnipotenza di Dio, spesso noi immaginiamo la sua possibilità di agire senza limiti, mentre la sua potenza e il suo splendore si rivelano nella disponibilità a donarsi completamente, nella capacità di «amare fino alla fine» (cfr Gv 13, 1). L’onnipotenza di Dio è veramente l’onnipotenza dell’amore. Ed è un’onnipotenza che si comprende dentro la trama del vissuto di Gesù, nella sua disponibilità ostinata a ricollocare ogni incontro e ogni situazione nello sguardo con il quale Dio guarda la vita: essa contiene la parola di promessa e di pienezza che da sempre, fin dall’inizio, Egli ha posto nelle sue creature («E vide che era cosa buona», Gn 1, 12-18). A dispetto di tutte le situazioni avverse, le lontananze e le prove che inevitabilmente la vita consegna, c’è in essa una pienezza che scaturisce dalla parola di Dio.
Questa passione per la vita, per qualunque vita, è ben espressa da don Ferdinando quando, ancora giovanissimo, al ritorno dal convento dei Padri Cappuccini di Lonigo, facendo eco alle parole del padre guardiano – «Faremo quello che Dio vorrà» –, scrive: «Senza rendermene conto, io non pensai più a me stesso, non mi preoccupai più del mio avvenire, né pensai a qualche prospettiva futura. Mi affidai completamente alla vita; sarebbe stata lei a condurmi. Era un modo inconscio, ma percepito con certezza per dire: farò quello che Dio vorrà, sarà Lui a provvedere per me» (p. 160).
Una scelta di campo
Per don Ferdinando la croce non è intesa come un incidente di percorso, ma un modo preciso di stare nella vita, di abitarla. Così come Gesù non la cerca, ma nel momento in cui essa si presenta, «la sceglie», con piena fedeltà all’amore che è capace di ridare spessore e fiato anche alle situazioni più assurde e drammatiche. Don Ferdinando sa bene che in questo cammino c’è la rivelazione del volto di Dio, ma nel contempo anche di una vita pienamente riuscita. E questo non è solo per i discepoli, ma è per tutti (Cfr Lc 9, 23). A tutti è dato di sperimentare che dove le situazioni ferite della vita vengono incontrate, accolte e vissute nell’amore è possibile dare a esse un senso di riuscita, anche se i fatti sembrerebbero smentirla.
Più volte lo stesso don Ferdinando sembra interrogarsi sul senso di una vita segnata dalla sofferenza, sul come Dio possa rivelarsi in una vita schiacciata dal peso del dolore. Egli stesso comprende che proprio attraverso la via della croce c’è un appello a non fare della fede una professione confezionata, ma piuttosto un’esperienza di intimità personale con Gesù.
C’è un imperativo che accompagna tutta la vita di don Ferdinando, ed è quello di assumere la rischiosa e responsabile scelta di fare insieme con Gesù Cristo l’esperienza del cammino da Lui percorso.
Potremmo quasi dire che molte pagine della sua autobiografia si rivelano come una «lotta», un «corpo a corpo con il Signore», un nascondersi e un affacciarsi reciproco.
Si può leggere questa convinzione nel passaggio in cui scrive: «I momenti di buio e di dolente aridità non riguardavano la mia vocazione né rubavano la pace intima alla mia anima; riguardavano invece il mio rapporto con Dio. Si faceva buio quando dentro di me si spegneva il senso vivo della presenza di Dio. Il Signore si nascondeva, e scendeva il silenzio nella mia anima» (p. 224).
La croce, dunque, è la legge permanente della vita cristiana e non una soluzione di emergenza. Nella via della croce c’è un appello a far sì che la fede scaturisca dalla rischiosa e responsabile scelta di fare insieme con Gesù l’esperienza del cammino di fedeltà da Lui percorso. La vita cristiana è un’esperienza vissuta, arrischiata con le scelte personali, assunta con la propria responsabilità sulle orme del Maestro.
C’è una pagina del libro che contiene in modo significativo l’intensità della sua adesione al cammino vissuto da Gesù.
Presenta la scena in cui, passando dallo studio alla cappella, vide «l’immagine di Gesù che teneva in mano, nell’atteggiamento di offrirlo, il suo cuore ferito e sanguinante, circondato da spine, avvolto dalle fiamme e sormontato da una croce. Il suo sguardo intenso e dolcissimo si incontrò con il mio e subito mi ricordai delle sue parole: “Ecco il cuore che ha tanto amato gli uomini e da essi non riceve che ingiurie e indifferenza”. Quel tenue chiarore sul volto luminoso di Gesù che accennava a un sorriso delicato e insieme severo mi lasciò profondamente turbato e mi parve di intuire che senza dolore è difficile capire l’amore. Così mi sentii spinto a chiedere con insistenza al Signore di soffrire molto per poter vivere più profondamente l’intimità con Lui. Forse fu presunzione, forse superficialità o incoscienza, ma credo che il Signore abbia accolto, almeno in parte, la mia preghiera, perché nella mia vita non ho mai saputo cosa fosse il benessere fisico» (pp. 226-227).
Possiamo affermare che don Ferdinando non ha cercato la croce, ma l’ha accolta nel momento in cui gli si è presentata come il prezzo della fedeltà all’amore verso Dio e i fratelli. Se anche noi ci comportiamo così e restiamo sempre disponibili al dono, anche se in un primo tempo rifiutato, la croce diventa salvezza.
Fedeltà all’amore di Dio
Fare dono di sé stessi, rimanendo liberi da sé stessi, è la vera maturità della persona. Accettando di prendere la nostra croce, di vivere cioè l’amore costante e talvolta difficile che Gesù attesta, abbiamo la coscienza che la vita cresce e si esprime nella misura in cui essa si consegna come dono di noi stessi.
In quel cammino di fedeltà alla logica dell’amore incondizionato e gratuito la vita si manifesta non come un bene da conservare morbosamente per sé, ma come un dono da spendere.
Impressiona il racconto che don Ferdinando ci consegna riguardo alla sua infanzia, dove non mancano pagine dal tono veramente drammatico.
In un piccolo quadro di vita nascosta, narra che la suora nell’ospedale di Tregnago gli strappò dalle mani le figurine dei ciclisti perché sconvenienti.
Riportando alla memoria l’amarezza vissuta in quel momento scrive: «Il Signore intende prepararci alla croce anche attraverso i piccoli dispiaceri dell’età infantile» (p. 186).
Un atto di abbandono
Una piccola e sfuggevole annotazione che gli permette di percepire che nella croce il Signore è capace di donare speranza a tutti coloro che sono i crocifissi della storia umana.
Un’ulteriore annotazione che impreziosisce la lettura che don Ferdinando fa dell’esperienza della croce di Gesù è che egli trova in essa la certezza che in quella morte si apre per tutti i credenti una nuova possibilità di vivere e di morire. Gesù ha vissuto la sua morte lontano e abbandonato da tutti, apparentemente anche dal suo Dio, senza venir meno alla fiducia e alla fedeltà al Padre e mantenendosi aperto verso tutta l’umanità e tutta la realtà.
In un momento di particolare «umiliazione e di intima sofferenza» legata al rinvio di una tappa verso il ministero ordinato per la precarietà della sua salute, ebbe a scrivere: «Mi salivano allora spontanee le invocazioni del Salmo 53 […] “Svegliati, perché dormi, Signore?” […]. Sorgi, vieni in mio aiuto! Erano invocazioni che, se non toglievano la solitudine interiore, contribuivano però a mantenere il fondo dell’anima in uno stato di fiduciosa serenità» (p. 225).
Facendo eco a questi testi della Sacra Scrittura, don Ferdinando, imitando Gesù Cristo, ha offerto anche a noi la strada e il dono di poter vivere, soffrire, morire in modo nuovo, cioè come figli e fratelli.
Nella fede in Cristo ci è possibile vivere e morire con questa estrema fiducia e apertura di amore, e portiamo così a compimento, nella morte, la nostra vita come realtà di risurrezione.
È nel testimoniare una piena fedeltà alla vita, restando aperti alla speranza anche nelle situazioni difficili, riconoscendo e confessando il Figlio di Dio crocifisso, che noi ci qualifichiamo come veri discepoli di Gesù, come figli di un Dio che è l’Abbà.
Nascondimento del Signore
La via della croce ha permesso a don Ferdinando di raccontarci tutto questo, perché ci immergiamo nella possibilità di assumerlo e di farlo proprio: «Il buio affliggeva la mia intelligenza che perdeva i riferimenti, la comprensione dei significati, il contatto con le certezze garantite dalla luminosità della fede! Non perdeva invece la luce il cuore che, pur nel silenzio di Dio, non cessava di invocarlo. Non riuscivo a tacere perché pur nascondendosi, Dio restava presente, e il cuore gridava come un bambino al buio che va cercando le mani paterne, le mani di Dio. Furono quelli i momenti che mi aprirono a una comprensione nuova e più chiara della sofferenza e del dolore. Il mio rapporto con Gesù divenne più completo e profondo: dalla devozione all’amore che si dona nell’Eucaristia, imparai a vedere l’amore che si immola sul Calvario per me» (pp. 225-226).