Pubblichiamo l’introduzione di padre Antonio Spadaro al libro Creature di caldo sangue & nervi. La scrittura di Raymond Carver (Ares 2020, pp. 192, euro 13,50).

Ho scritto questo libro vent’anni fa. Tra le prime poesie di Carver che ho letto c’era Nel 2020. È dunque proprio l’anno giusto per parlare della sua opera: «Parlare e parlare, come un rubinetto che perde», come aveva scritto in quella poesia. Dopo vent’anni di «corpo a corpo» con uno scrittore è possibile capire se e come la sua opera ci abbia «lavorato dentro». E io non me ne sono mai liberato. Ti spia, sta in agguato con le sue suggestioni e i suoi suggerimenti. Quella di Raymond Carver è una scrittura che si apposta nel tuo quotidiano e lo spacca a metà. Compie un intimo discernimento tra ciò che è autentico e ciò che non lo è.

E che cosa è autentico? È la vita che merita davvero di essere vissuta. Ci sono esperienze di fronte alle quali non ci si può sottrarre se non negando la vita stessa, che è vita umana, veramente umana: calda, innervata, capace di provare piacere e dolore, angoscia e gioia. L’esperienza può essere semplice – ma mai banale! – o complessa, leggera e pesante, ma se è umana allora è «vera», cioè dice una verità sulla vita, su tutta la vita. Ogni singola esperienza: la gioia di una pesca o quella di un amore corrisposto, o viceversa l’angoscia per la malattia o per una separazione. Queste sono tra le esperienze che Carver fotografa con un understatement of emotion che fa brillare il senso e fa capire.

Rileggere dopo vent’anni l’opera di Carver è scioccante, devo essere onesto su questo: capisco che ha «della legna proprio al centro» e dunque bisogna mettersi i guanti «prima / di maneggiarla». A 34 anni – a quell’età ho scritto questo libro – si è adulti ma ancora giovani. A 54 uno è adulto ma già maturo, nel senso, come Ray scrisse, «che conosce il valore delle cose (the worth of things)». Forse. E la prima cosa che risuona in mente di tutta la sua opera è la commozione davanti alla vita, e soprattutto la sua ultima poesia, Ultimo frammento, che è da leggere subito:

«E hai ottenuto quello che

volevi da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos’è che volevi?

Potermi dire amato, sentirmi

amato sulla terra».

Qui c’è il giudizio universale. A 34 anni ci si può ancora chiedere: che cosa voglio dalla vita? A 54 anni ci si comincia a chiedere: che cosa ho ottenuto? Ed ecco la domanda: ti puoi dire amato sulla terra? Da quell’ultima poesia – e da questa domanda – bisogna iniziare per capire Carver e la «commedia umana» che si compone tra poesia e racconti, dove i personaggi sono quelli della vita ordinaria. Ciascuno di noi può riconoscersi in almeno uno di essi. Sfido chiunque a non ritrovarsi comodo nei suoi racconti. Le vicende umane mostrano i nervi della loro sentimentalità che emerge dai singoli gesti, dalle singole storie. Manca del tutto l’ideologia dalle pagine di Carver. I corpi e i loro gesti fanno da argine a ogni astrazione. Carver è molto interessato all’arte che dice qualcosa del mondo e non lo è invece all’astratto. L’arte deve tornare alle cose che contano, «le cose che sono vicine al cuore dello scrittore, le cose che ci muovono interiormente», scrisse una volta. Ed ecco che oggi Carver mi richiama alle cose che contano davvero perché una vita matura non può farne a meno.

A 54 anni non se ne può più di discorsi ideologici sulla vita né di parole formali e vuote sull’esistenza. Bisogna essere onesti. Non ci si può più girare attorno. La vita può promettere ancora tanti anni, ma si ha il bisogno di «stringere». Si vuole toccare l’osso o almeno capire se un osso c’è che regga la carne, i nervi, i vasi sanguigni e il grasso della vita. Carver ti aiuta a fare questo: a non perderti. A riconoscere che cosa ti tiene in piedi. O se invece c’è un fallimento in corso. Ed è il caso di correre ai ripari per dare dignità alla propria vita.

La vulnerabilità è una chiave forte del suo discorso. I suoi personaggi sono eroi, ma brillano per la loro capacità di essere scalfiti dalla vita. E il sentimento è l’eco di questa vulnerabilità, che è anche la base di una vita felice perché premessa della tenerezza, così importante per lo scrittore.

Carver ha certamente dimostrato che non c’è bisogno di allontanarsi molto dalle proprie esperienze, dalle mura di casa propria o del proprio bar o posto di lavoro, per raccontare storie che colpiscano nel profondo. Vivere significa guardarsi attorno, per trovare lì la fonte dell’ispirazione. Questo mi ha insegnato Carver in questi anni: trovare storie dappertutto. E a leggere la mia vita in termini di storie, e non certo di obiettivi e risultati raggiunti. Puoi raggiungere risultati ragguardevoli e vivere una vita che è un totale disastro.

E Carver come lo fa? Da narratore o da poeta? È una questione che ho risolto dando retta a ciò che egli stesso ha detto una volta: «Io ho cominciato come poeta e così suppongo che sulla mia tomba dovrei essere molto contento se ci fosse scritto: “Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista”. In quest’ordine». Quindi prima poeta, anche se certamente è più noto come narratore.

Carver è innanzitutto poeta perché le immagini potenti e quotidiane che emergono dalle sue opere nascono dal saper mettere in fila le parole giuste, ma anche la punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore sia trascinato dentro e coinvolto nella storia. Storie, immagini, parole, punteggiatura: questa la sequenza. Sono le storie che generano le immagini, le sprigionano come istantanee inesauribili. Se non ci sono storie vissute, ma solo immagini o idee, non c’è sostanza.

L’amore, per esempio, tema chiave per Carver, non è un sentimento, ma sempre una storia che va raccontata con le parole giuste. E le più essenziali. Lo sguardo fisso e commosso, capace di cogliere l’essenziale nelle cose, guardate con acutezza e precisione, è la radice dell’ispirazione delle storie di Carver. E si racconta con le parole.

Nell’ultimo discorso pubblico prima della sua morte, Carver prese le mosse da un pensiero «limpido e bellissimo» di santa Teresa d’Avila tratto dal capitolo XXV della Vita scritta da sé stessa: «Le parole muovono ai fatti […] preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza». Teresa per sé si riferiva alla parola di Dio che è sempre accompagnata da effetti: es palabras y obras, scriveva. Questo legame tra parole e opere, fatti, vita è radicale. Il lavoro sulle parole per Carver è sempre un lavoro sulla vita. E viceversa.

Capisco dopo questi vent’anni che davvero, quando si vive un’esperienza forte, si ha bisogno di raccontarla o almeno di raccontarsela come se ci fosse qualcuno ad ascoltarla. Ce la si racconta nella mente tante volte, se ne studiano i dettagli a occhi chiusi. A volte si fa rewind e si guardano i fatti al rallentatore e si cambia versione perché ci si accorge di dettagli ai quali non si era fatto caso. Ed è un lavoro di lima pazzesco perché si comprendono le vicende mentre si raccontano. Se le si racconta in un altro modo, si comprendono in un altro modo. Carver mi ha aiutato a raccontare bene le cose, ad andare avanti e indietro nei ricordi per aggiustare il racconto. E a capire perfino che a un certo punto puoi scoprire che il tuo racconto non regge. La vita sorprende, e allora devi capire le cose in un altro modo o almeno lasciare spazio al mistero della vita che a volte confonde. Io a 34 anni non lo avevo ancora capito. Forse lo capisco proprio adesso.

E allora l’immaginazione assume il suo vero significato. Carver ha dato un metodo per il suo «uso» che io definisco «metodo Cattedrale», dal titolo di uno dei suoi racconti più belli. Un cieco non ha mai visto una cattedrale e Robert, suo amico, cerca di descrivergliela, ma si rende conto di non saper descrivere le cose che conosce. È solamente disegnando con il cieco, mano nella mano, una cattedrale, e a occhi chiusi, che egli riuscirà a vedere una vera cattedrale. L’amico cieco chiede infine a Robert di aprire gli occhi per vedere che cosa avevano disegnato insieme, ma a quel punto Robert non vuole riaprirli e sente dentro di sé un’emozione che lo spinge a commentare: «Grandioso». Si tratta di un’epifania.

Citando Flannery O’Connor, Carver stesso afferma che «lo scrivere è una scoperta. Lei non sapeva che cosa sarebbe accaduto tra una frase e l’altra». In un’intervista Carver conferma: «Tu cominci a scrivere. Qualche volta non trovi ciò che stai provando a dire nella storia fino a che non vai alla riga sotto e allora improvvisamente capisci dove la storia sta andando». Ecco: si va «alla cieca». E allora l’immaginazione funziona.

Il senso generale delle storie – che vivano in un racconto o in una poesia – sono le «grandi questioni, questioni di vita e di morte, sì, e la questione di come stare al mondo», scrive Carver. Ecco il punto. Carver è morto a 50 anni. Io ho superato quell’età. E posso dire con Carver: «Sono un uomo fatto, ormai. Pure troppo. / Perciò, quant’altro tempo m’è rimasto?». Adesso sono assolutamente dentro le grandi questioni che animano l’ispirazione carveriana. La sua opera è maestosa in questo senso.

Il punto è che Carver ha vissuto una vita «dannata» dall’alcol e da un disordine che è stato di fatto redento dall’amore di una donna, Tess Gallagher. Una redenzione radicale, ma semplice, vera, perché, si direbbe, «non è niente di che». Carver la esprime spesso in quadri che dipingono una nudità serena e pacificata con Tess. La nudità fisica è espressione dell’accettazione di essere senza maschere, senza reti di protezione. Come quando si alza dal letto e si mette a danzare nudo con lei. O quando racconta, in poesia:

«Ma poi siamo

usciti sul balcone che dominava

il fiume e la città vecchia.

E siamo rimasti lì senza parlare.

Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.

Così felici ed emozionati. Come se

fossimo stati messi lì

proprio in quel momento».

Ma questa redenzione si avvera anche nei gesti semplici della vita con uno stupore che rende il dettaglio grandioso: come «avrebbe mai potuto immaginare che la vita / gli avrebbe un giorno concesso il privilegio di / una bellissima donna con cui viaggiare, / dormire e fare colazione insieme»?

Ecco, la «redenzione» consiste in questo: dormire e fare colazione insieme. In fondo, le parole di Carver sono – come avrebbe detto T.S. Eliot – parole private dette in pubblico.

I personaggi delle sue storie vivono momenti, quando meno se lo aspettano, in cui una nuova speranza li illumina e una nuova forza li sorregge. Carver sa di che cosa sta parlando perché ha vissuto una forza redentiva che lo ha salvato da una vita persa e inconsistente. Lo ha salvato dal fallimento perché gli ha dato una speranza concreta. Da qui un’altra riflessione personale a vent’anni dal mio studio sulla sua opera, che allora fu praticamente il primo: che cosa e chi mi salva? Chi e che cosa ha la forza di farmi trasalire da un orizzonte piatto o astratto? Chi e che cosa redime una vita che fa della pura decenza e di una vaga sufficienza la cifra del proprio valore?

Devo qui ringraziare due amici. Il primo è Francesco Sechi, che mi ha svegliato imponendo quelle domande alla mia vita un po’ intorpidita. E indicando una risposta. Aggiungo una cosa: ho capito pure – col tempo – che essa dev’essere capace di contenere sia il frinire delle cicale sulla terra sia il movimento delle stelle nel cielo, che brillano o cadono nel buio davanti ai nostri desideri, come nella notte di San Lorenzo. Altrimenti la risposta sarebbe fake. Dopo aver amato sua moglie sotto le stelle, Carver scrive:

«Tutti noi, tutti, tutti,

cerchiamo di salvare

le nostre anime immortali, certi modi

a quanto pare sono più

complicati e misteriosi

di altri. Ci stiamo

divertendo qui. Ma speriamo

che ci sarà rivelato tutto, presto».

E ringrazio anche Alessandro Rivali delle Edizioni Ares, che ha sentito l’urgenza di ripubblicare adesso queste mie pagine piene delle domande di un trentaquattrenne, e obbligandomi a riprendere scomodamente i fili del discorso dopo ben vent’anni. Mi ha convito a dargli retta l’Ars Poetica di Miłosz, autore amato da Carver e da lui citato con questi versi:

«Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa d’indecente:

si tira fuori una cosa che neanche sapevamo di aver dentro,

e allora strabuzziamo gli occhi, come se fosse saltata fuori una tigre

che rimane ferma al sole, sferzando la coda».

Si avverte una fiducia spiazzante nella poesia di Carver, dalla quale salta fuori una tigre che balza. Solamente il balzo di questa tigre ci dà la forza di trasalire da una vita piatta, ideologica o indaffarata. La tigre c’è o non c’è. Arriva o non arriva. Se arriva, la poesia è il sismografo del balzo e la fa uscire allo scoperto.

Ed ecco la domanda che Carver mi pone dopo vent’anni: è arrivata per te la tigre? La mia risposta è sì.