«Quando i giorni si fanno sempre più corti, quando in un normale inverno incominciano a cadere i primi fiocchi di neve, allora, timidi e lievi, fanno capolino anche i primi pensieri di Natale. La sola parola sa di incanto, un incanto a cui, si può dire, nessun cuore può sottrarsi. Anche gli uomini di altra fede e quelli che non ne hanno affatto, per i quali la vecchia storia del Bambino di Betlemme non significa niente, fanno preparativi per la festa e pensano come poter accendere qua e là un raggio di gioia. […] Ecco la stella, alla quale tutti mirano nei primi mesi dell’inverno. Ma per il cristiano, e specialmente per il cristiano cattolico, si tratta anche di ben altro. La stella lo guida al presepe, presso il Bambino che porta la pace sulla terra».
Ho scelto queste parole tratte dal Mistero del Natale (Edb Bologna 2018) di Edith Stein per avvicinarmi alla Notte santa. Il sentiero, però, è impervio. Sembra impossibile vivere l’incanto, come portare “un raggio di gioia”. Le cicatrici del Covid sono sempre in rilievo. La terra ucraina è martoriata. I media annunciano centinaia di migliaia di morti e nuovi conflitti in ogni parte della terra. E anche lontano dalle bombe, il nostro quotidiano è in scala di grigi. Per le difficoltà economiche, ma anche per la sempre più diffusa diffidenza verso gli altri. Come durante il lockdown, quando nelle città desertificate un passante cambiava marciapiede a decine di metri di distanza per evitare l’incontro. È come se fosse rimasto un bavero sull’anima: siamo più scontrosi e suscettibili. Alziamo la voce, non sappiamo più chiedere scusa. I Social diventano megafono dell’aggressività. È difficile ricominciare.
Forse, proprio in questo tempo, una via accessibile a tutti è quella di riscoprire la tenerezza. Mi hanno colpito le parole di un prezioso libretto intitolato Tenerezza (Einaudi 2022) dello psichiatra Eugenio Borgna (ma tutte le sue riflessioni sono suggerenti, da Parlarsi alla Nostalgia ferita):
«La tenerezza anima il nostro modo di vivere, e di curare, ci fa sentire l’altro come persona, e non come cosa, aiuta a immedesimarci nella vita interiore degli altri, e a farne riemergere le attese, e le speranze. La tenerezza si esprime con il linguaggio delle parole, e con quello del corpo vivente: uno sguardo, un sorriso, una lacrima, una stretta di mano, una carezza, un abbraccio ne sigillano i modi di essere. La tenerezza aiuta a conoscere e a lenire le ferite dell’anima, e quanti malesseri, quante incomprensioni e quanti sogni infranti eviteremmo, se la tenerezza non ci fosse sconosciuta, e ci seguisse come una multicolore farfalla nel nostro cammino di vita».
Lenire le ferite dell’anima: alcune volte sono i gesti insignificanti che svoltano una giornata. Un regalo piccolo, ma azzeccato. Un messaggio di auguri che non contenga solo la scritta “auguri”. Le posate allineate sulla tavola. E, ancora: un sorriso insieme all’elemosina per il povero, il lavoro curato fino alla fine, perché c’è tenerezza per le cose. Mi piace ricordare il poeta Charles Peguy di cui a gennaio ricorreranno i 150 della nascita (per riscoprirlo c’è l’intenso Charles Peguy. amico presente di Giorgio Bruno uscito per Ares):
«Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia e i cuori. […] Abbiamo conosciuto questo culto del lavoro ben fatto perseguito e coltivato sino allo scrupolo estremo. Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali» (Il denaro, Castelvecchi 2016).
E il lavoro ben fatto, la cura delle piccole cose, gioca una parte importante nella Casa degli sguardi (Mondadori, 2018), il romanzo di formazione (ma è una storia vera) di Daniele Mencarelli: il protagonista con una vita schiantata dall’alcol inizia a rialzarsi conoscendo le mille ramificazioni del dolore tra i piccoli ricoverati all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Per Natale, proprio i più piccoli possono essere destinatari della nostra “piccola tenerezza”. Possiamo riscoprire la bellezza di leggere o raccontare una favola: è un tempo dorato che darà i suoi frutti alla distanza. Anche gli anziani hanno bisogno della nostra tenerezza (e non solo a Natale), come ha ricordato papa Francesco nella sua splendida catechesi sulla vecchiaia, una messe di spunti per il nostro quotidiano: «Non dimentichiamo che nella cultura sia famigliare sia sociale gli anziani sono come le radici dell’albero: hanno tutta la storia lì, e i giovani sono come i fiori e i frutti. Se non viene il succo, se non viene questa “flebo” – diciamo così – dalle radici, mai potranno fiorire».
In apertura, ricordavamo l’incanto del Natale secondo Edith Stein: lei, sulle orme del Cristo sofferente, visse la tenerezza fino all’ultimo, anche quando fu portata dai nazisti nel campo di Westerbork (lo stesso della dolce Etty Hillesum) prima di essere deportata ad Auschwitz: confortava e accudiva quei bambini – così riportano le testimonianze – le cui madri erano annichilite o impazzite dal dolore. Noi possiamo cercare di seguire il suo esempio, mettendoci in viaggio, seguendo la Stella, anche nel più crudo inverno, come fecero i Magi della celebre poesia di Eliot: «Fu un freddo avvento per noi, / proprio il tempo peggiore dell’anno / per un viaggio, per un lungo viaggio come questo: / le vie fangose e la stagione rigida, nel cuore dell’inverno…».