(MA) Mediante un approccio davvero originale, Gianfranco Longo, ricercatore di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Innovazione e di Ricerca Umanistica (Dirium) dell’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, in cui insegna Filosofia del diritto e Filosofia della pace e dei diritti individuali, esamina la strumentalizzazione che del bene comune compiono tutte le utopie rivoluzionarie immanentistiche – da quella francese a quella marxista russa del 1917 a quella maoista – secondo un’ineccepibile interpretazione del loro darsi storico; e individua nel genderismo, nella visione pro eutanasica e nel relativismo contemporaneo un modo diverso di darsi, sul piano del mitico e dell’esoterico, della stessa impostazione rivoluzionaria marxista. A entrambe le impostazioni contrappone la concezione cristiana, pervenendo a semantizzare la nozione di “bene comune” in relazione a quelle di “virtù” e “verità”, tutte connesse al sacrificio reale di un Dio reale (vero uomo, non mito) e al perdono. «In che cosa ritroveremo la salvezza se non in una comunione identitaria fondata sul perdono vicendevole, che sappia affermare la salvezza della persona, al di là di ogni appartenenza territoriale, linguistica o di fede, e la garanzia della sua inviolabilità?». Longo ha vinto il Nabokov Library per il miglior libro del 2022 con il poema Srebrenica (Il Poligrafo, Padova 2020) e il Premio Internazionale “Mahsa Amini” per la poesia nel 2023.
Contribuire a una riflessione su un tema complesso, cioè valutare che cosa siano le virtù rispetto al bene comune, ci porta a considerare come alcuni aspetti storico-sociali e divisioni giuridico-politiche siano l’esito, in questi ultimi anni Duemila, dell’utopia marxista, ma anche di una generalizzata tendenza alla mediocrità e all’indifferenza spirituali, condizioni queste che segnano il ritorno di un rinnovarsi del ciclico disfacimento della società civile, dovuto spesso alla rincorsa da parte del politico, insieme a istituzioni culturali ed educative, delle suggestioni derivanti dal variegarsi di un messianismo a carattere ideologico, infatuazioni che, già durante il XX secolo, emersero assumendo una loro specifica rilevanza a carattere filosofico, giuridico e politico-civile. Per concentrare l’attenzione su quelle connotazioni peculiari del post-marxismo, cioè relativismo e attualmente il genderismo, è opportuno ricostruire, da un punto di vista gnoseologico, le fasi che hanno condotto a nuovi sortilegi collettivi, iniziando la riflessione da due domande nevralgiche, indispensabili per un approccio alla tematica, senza che sia mera polarizzazione di concetti in costante conflitto dialettico e politico.
La prima domanda ci chiede: com’è possibile amare i propri nemici, pregare per chi ci maltratta, fare del bene a chi ci odia, benedire chi ci maledice?1 Il secondo interrogativo che si intreccia al primo ci domanda invece: che cos’è la verità?2 Se si volesse evidenziare come le virtù rivelino un bene comune quale aspirazione suprema del politico al fine di rendere comunitaria la rivendicazione di un benessere collettivo quale sintesi storica, non solo di una garanzia giuridica dei diritti individuali e di una tutela politica delle libertà fondamentali, ma anche di una loro effettiva pratica costituzionalmente assicurata e affermata, rischieremmo di rimanere lontani dal cogliere un epicentro d’insieme e di incontro fra virtù e bene comune, man mano dalla Rivoluzione francese del 1789 e poi da quella russa del 1917 destinate a essere utopicamente perseguite sino a vedersi l’intera umanità – gli ultimi eventi in Ucraina lo dimostrano ampiamente – sfuggire il collettivo spazio di inclusione e il luogo di adesione comunitaria, degenerando le virtù in un sintomatico e ossessivo esercizio della rivoluzione e dei suoi precetti persecutivi e rieducativi, giungendo alla normalizzazione politica della società civile con i suoi noti meccanismi di esclusione su base ideologica e di repulsione a causa della professione della propria fede; mentre il bene comune quale ipostatizzato concetto, temporalmente dislocato in un avvenire, ogni volta da un’abile propaganda mostrato a portata di mano, per poi essere nuovamente parcellizzato in aspettative sempre più complesse e vaghe, oltre che lontane nel tempo, risultando infine del tutto irraggiungibile, sarebbe una salvaguardia della stessa rivoluzione materialisticamente in fieri perché espressione analoga all’utopia, cioè raggiungimento di un benessere collettivo che collettivizza forzatamente, senza l’indispensabile esercizio della critica e della valutazione filosofica o pratica.
L’esperienza sovietica
Su questo è opportuno soffermarsi a valutare brevemente quanto accadde di agghiacciante, dopo la Rivoluzione russa del 1917. Già verso il 1924 – quando Stalin alla morte di Lenin appoggiò Bucharin e le sue tesi – ai cosiddetti kulaki e alle loro terre venne imposto di comunizzare le proprietà, con la conseguenza che circa due milioni e mezzo di contadini “proprietari” di un piccolo appezzamento di terra di trenta metri quadri, di un carro, di due galline, di un cane e di due mucche (bastava questo o parte di questo!) finirono nei gulag per essere rieducati, si potrebbe dire, ai valori del “bene comune” e alle pacifiche e buone virtù indotte dalla rivoluzione, riportati nell’alveo rivoluzionario e ideologico, cioè comunista: il bene comune venne eretto con enfasi a nutrimento ideologico per tutti, consolidandosi quale aspirazione forzatamente indotta di un bene indistinto, illusorio, progressivamente ribadito e tenuto quale costante punto di riferimento – sebbene confuso e non determinato nel suo consolidarsi – da un comizio perpetuo patrocinato dal Partito comunista e affidato a esecutori diversi, ma identici nel ripetere stessi meccanismi verbali di ipnotica suggestione delle folle, bene comune infine offerto sull’altare rivoluzionario comunista, che poté così comunizzare il concetto di bene, integrandolo in quello della sopravvivenza del partito e della dittatura del proletariato. Quest’ultimo obiettivo non è stato mai raggiunto, e non ne venne in realtà mai iniziata neppure la fase di preparazione, essendo divenuto il potere stesso una stretta oligarchia gerarchica e gerontocratica, tenuta insieme da un’ipotetica e molto dubbia “virtù”, quella della salvaguardia dello Stato e del partito unico, da cui non poterono che discendere coercitive decisioni e direttive antidemocratiche, di pochi fedeli rivoluzionari su tutti da perseguire.
Questa enfasi rivoluzionaria, in realtà ritorsione nei confronti di popolazioni difficilmente disposte a piegarsi a utopie politiche, abiurando fede e risorse di vita, comportò la morte di oltre la metà dei kulaki deportati nei campi di prigionia denominati gulag, dove era comune sostenersi anche con atti di cannibalismo3, ma soprattutto causò una grave crisi agraria che impose al regime sovietico ulteriori violenze: requisire ampie scorte di cereali in una fase di paradossale economia di guerra, pur non essendoci ancora una guerra europea come avvenne in realtà quindici anni più tardi. Lo stesso Stalin, nelle sue notorie sinossi del marxismo, grottesche, nel definire i kulaki una classe, li accerchiò ideologicamente, esaltando il bene comune della società dei soviet e l’indispensabile ascesa rivoluzionaria e della sua virtù, alla cui difesa nulla poteva resistere e contro cui nulla doveva opporsi, ricorrendo addirittura in maniera esplicita al provvedimento estremo: quello di eliminare gli stessi kulaki4.
Per il bene comune, i contadini ucraini – evidente il parallelismo con l’attuale situazione, essendo sempre stata l’Ucraina un’antica spina nel fianco dell’impero sovietico e attualmente di quello russo –, cioè uomini, donne e bambini, vennero de-personalizzati sacrificandoli e le loro proprietà vennero de-territorializzate in un’incomprensibile “collettivizzazione del bene comune”, che non produsse nulla di buono e nulla di comune, se non la prigionia nei gulag e la scomparsa dello stesso concetto di bene con la sconfitta della promesse di garanzia dei diritti individuali, ridotte a puro slogan propagandistico, esercizio di culto e rituale indispensabile per rendere la stessa rivoluzione, a sua volta mito ideologico e rito politico, in nulla differente da quanto annunciato negli anni Trenta da Joseph Goebbels5 all’ignaro popolo tedesco: si distingue in ciò un’istrionica esaltazione dell’esistenza umana, ripartita fra cittadini tedeschi ed ebrei (che furono in gran parte cittadini tedeschi); oppure, nel caso dell’Unione Sovietica, divisa fra i rivoluzionari e i proni servitori delle virtù rivoluzionarie e poi “tutti gli altri”, che per tale ragione andavano rimessi alle volontà dello Stato e ai destini intransigenti della storia politico-rivoluzionaria marxista.
Peraltro, esattamente nei confronti di un’idea di trasformazione giuridica e politica, vista e finalizzata a rifondare l’assetto costituzionale dello Stato, Karl Marx riteneva, nella sua critica a Hegel, che precisamente il potere legislativo, cioè la geseztgebende Gewalt hegeliana, avesse compiuto l’ordine del processo rivoluzionario francese, perché in effetti quel potere era stato il rappresentante del popolo, o meglio era stato la volontà generale. Diversamente, invece, il potere governativo, la Regierungsgewalt hegeliana, avrebbe operato secondo Marx unicamente piccole rivoluzioni, per l’esatta ragione di non aver voluto fare la rivoluzione «per una nuova Costituzione contro una invecchiata, ma contro la Costituzione in quanto tale»6.
Volendo soffermarsi su una paradossale interpretazione di bene comune e della virtù rivoluzionaria, il programma rivoluzionario francese del 1789 era apparso a Marx come un evento che aveva in sé celebrato l’illusione massima della politica: da non sottovalutare, in tale àmbito, la differenza descritta da Lenin nel fondare invece un programma politico-rivoluzionario quale “organizzazione attiva” che avrebbe dovuto rivelare i suoi contenuti più pregnanti nel ridefinire l’assetto giuridico-costituzionale7.
La virtù rivoluzionaria: dal 1789 al 1917
Il problema maggiore che si pose, e si pone, con l’ascesa del marxismo è la sua influente disgregazione dell’apparato civile e sociale, poiché il bene comune diviene una posta in palio da raggiungere mediante un’etica del lavoro asservita a uno Stato personalizzato in rivoluzionari, i quali ritenevano essere il lavoro un modo di gestione collettivizzata del salario, con un impegno minimo. Il vulnus marxista nella storia del XX secolo si rivela, pertanto, nella riunione degli apparati statali rimessi a istanze ogni volta superiori, infine invisibili, addirittura surreali se non proprio oniriche, lasciando quasi nell’ignaro cittadino un alone di fascino e di kafkiano mistero. Tale ferita e tale lacerazione prodotte dall’ideologia marxista, a danno di numerose società civili e comunità statali, emergono chiaramente nella dissipazione della coscienza individuale del lavoro come atto creativo e personale, erede del veterotestamentario ut operaretur8, in grado di rendere l’uomo libero perché proprio compiendo il suo lavoro l’uomo ritrova la sua filiazione divina, il suo cammino di operare ontologicamente in prospettiva salvifica dell’altro, restituendo perciò allo stesso lavoro un itinerario redentivo per chi lo compie, e per chi lo riceve, all’interno del contesto civile e sociale di appartenenza, sino a riconsegnare e infine a tributare allo stesso lavoro il costituirsi di un’esperienza comunitaria di palingenesi collettiva e una qualità umana, indispensabile, nel riunire i popoli fra loro e all’esterno dei singoli contesti nazionali, così da caratterizzarsi il lavoro stesso quale divenire del bene comune, espressione cioè di sin-odale e di catechetico patto sociale, di virtù esistenziale e di aggregazione delle comunità.
Il marxismo, al contrario, ha perseguitato la finalità redentiva dell’uomo, distruggendo nell’uomo, ontologicamente ed esistenzialmente, il suo ricomporsi creativo e salvifico mediante il lavoro, il suo divenire espressione del volto di Dio Creatore attraverso il lavoro quotidiano, lavoro che caratterizza nella persona una dimensione espiativa storica, civile e comunitaria. In tali aspetti il marxismo ha rivelato, altresì, un’ineludibile e incontrovertibile componente eretica, fattore in grado di assalire il bene comune, disgregandolo in un’ideologica utopia: ideologica perché strenuamente diffusa in modi ossessivi da una propaganda analoga a quella dei nazisti rispetto al culto razziale.
Nel caso del marxismo l’ideologica utopia si caratterizzò distruttiva dell’uomo e della sua finalità nel mondo come collaboratore del progetto creativo di Dio, per scatenare nell’uomo una sindrome da evitamento della sua stessa identità – umana e nel genderismo anche sessuale – e della sua filiazione divina, radicandolo nei rituali politici e nelle mitologie antropologiche tipiche di eroiche ed epiche gesta dei rivoluzionari, scomponendo nella dialettica amico/nemico, nonché nell’opposizione di una realtà governata dalla resistenza ai nemici della rivoluzione, il vivere della persona, anche questo scisso tra un passato da cui fuggire e un presente repleto di aspettative in fieri, da realizzarsi e da compiersi nel materialismo storico e dialettico: il “bene comune”, in sostanza, viene ridotto dal marxismo a un surrogato di bene, cioè a rivoluzione in-sé e per-sé, a virtù rivoluzionaria proprio nella socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio che non appartengono più a chi li produce, ma a un indistinto tutti, recidendo la stessa fruizione creativa e divina che l’uomo possiede nel suo lavoro.
L’illuminismo, d’altro canto, da cui il marxismo prende le sue opportune mosse, aveva introdotto l’ineluttabile svolta autoritaria nell’essere già modello storico e nel concettualizzare il suo manifesto politico-demagogico: l’Encyclopédie fu solo un prototipo, un archetipico punto di riferimento, di ciò che sarebbe stato il Manifesto del partito comunista, scritto da Karl Marx in collaborazione con Friedrich Engels e pubblicato nel 1848.
In quel preciso istante il bene comune passa da essere traguardo politico di benessere sociale e civile a divenire una collettivizzazione forzata di un’idea, che appunto trasforma la realtà da comune a comunista, cioè categorizza ideologicamente la realtà stessa, la materializza in un esasperato senso di propaganda nel considerare ottenuto il bene solo perché ideologicamente mediato: su tale versante la cosiddetta “dittatura del proletario” de-individualizza anche la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, spostandole a essere necessariamente gestite e “salvaguardate” da chi quella dittatura ha reso possibile, ma soprattutto ne ha preso in mano direzione politica e suoi apparati, per amministrarne il controllo sociale resistendo a ogni eventuale trasformazione civile, giuridica e soprattutto storica: la storia si materializza perché viene negata ogni sua possibile evoluzione esterna. La storia dei Paesi comunisti fu e rimane tuttora una storia di controllo e di ordine tenuto dall’esercizio del potere militare e dalla conseguente repressione di ogni istanza di novità e di modernizzazione sociale e civile, in cui ogni male è tutto ciò che viene dall’esterno e che non si confà ai princìpi rivoluzionari.
D’altronde, diversamente dal Medioevo, l’età classica aveva già rappresentato astrattamente il male, senza volti simbolici; è un male privo di gotico, pervaso dalla classificazione della conoscenza e delle discipline9. La tolleranza della diversità si traduce direttamente in ricerca di sapere, in classificazione di modelli, in teorizzazione di prospettive, in ripartizioni sociali.
Su tale sviluppo semantico-storico ed ermeneutico, possiamo comprendere come la Rivoluzione francese, per realizzarsi, dovette utilizzare gli odi per mascherare quell’identità che prendeva possesso di un nuovo apparato di potere, in cui la Costituzione funse proprio da maschera attraverso cui ristabilire un ordine, celando per sempre la reale e vera contraddittorietà politica e giuridica, contraddittorietà emersa durante la stessa rivoluzione, quella non più di liberare e assicurare la garanzia dei diritti, ma di sospenderli nella loro validità e nella loro efficacia, rinviandoli a un sovrano: il modello rivoluzionario compì, così, il suo circolo autoreferenziale, sostituendosi al sovrano che aveva ghigliottinato, sovrano che a sua volta opprimeva il popolo, nei confronti del quale la Rivoluzione si era prodigata per “esorcizzarlo dal sovrano” e contro il quale adesso, in questo meccanismo di sostituzione e di crisi sacrificale girardiana, dovette agire sacrificandolo, dopo averlo caratterizzato quale nuova vittima, per salvare la rivoluzione, cioè il nuovo sovrano, esorcizzando appunto il pericolo che avrebbe messo in crisi la rivoluzione, pericolo che era ri-diventato il popolo stesso. È per questa stessa causa che la cosiddetta dittatura del proletariato divenne un’acquisizione costantemente rinviata e labile, infine fittizia e confusa in un tempo indistinguibile.
Dalla legge mosaica alla grazia cristiana
Pertanto quelle due domande, che ci siamo posti all’inizio, si intrecciano perché si rispondono alternativamente e ci inquietano nella loro denudata rivelazione: l’esistenza emerge nella sua qualità solo perché perdono del nemico, del persecutore, del rivoluzionario, a sua volta offeso dal tradimento di un progetto utopistico e utopico; in questo caso la persona, intersecandosi da un lato con il perdono e dall’altro lato imbattendosi nella verità, può comprendere che cosa siano virtù e bene comune, passando dalla porta stretta della sua esistenza eretta a croce, la Croce di Cristo da cui lo stesso Gesù risponde alla domanda di Pilato su che cosa sia la verità: rinuncia al potere del mondo, perdono di ogni singolo persecutore in un amore passato dalla legge alla grazia, dalla giustizia umana alla grazia cristiana, dove si comprende un’ulteriore e apparente inesplicabile realtà: perché Dio non ha salvato gli innocenti?
Rispondere non sarebbe possibile, poiché alternativamente la domanda si ripresenta a ogni circostanza storica, vicenda che il marxismo ridimensiona nel materialismo dialettico, cioè ne fa una constatazione priva di efficacia ontologica, rimessa unicamente al dover-essere degli eventi umani che non possono divenire altro-da-sé10, proprio perché non vi si denota in esse la testimonianza che pure gli uomini manifestano – anche al di là della fede, riconoscendosi vicendevolmente in un unico progetto creativo, cioè la vita in comune –, di un amore che travalica l’esperienza del dolore avendo vissuto ogni dolore possibile: Cristo sulla Croce si rende peccato al mondo11 per la salvezza della genesi del mondo e del creato, per la redenzione dell’uomo che in Cristo riconosce la verità quale crocifissione dell’innocenza, ma non risolutiva hic et nunc, piuttosto rigenerativa della stessa creazione mediante l’esercizio del perdono. Gesù è crocifisso perché innocente, è sacrificato per subdoli fini di mantenimento del potere12, ma il suo consummatum est estende la vita oltre la morte, cosa che avverrà materialmente tre giorni dopo la sua morte13, abbraccia tutti, e non soltanto una parte di umanità per il fatto di essere credente, componendo la storia in una palingenesi redentiva che risolve la condizione del dolore nella dimensione del passaggio alla verità del perdono e delle beatitudini14.
Il perdono, pertanto, non è una mera dimensione antropologica politicamente etica e neppure linguisticamente estetica, ma è una condizione che delinea un passaggio sinodale alla riscoperta di una trasformazione comunitaria, possibile perché speranza storica e catarsi mediante il sacrificio ontologico di sé.
Da un punto di vista storico (dalla Shoah sino alle guerre balcaniche, volendo restare nel continente europeo, per non parlare della guerra in Ucraina) il perdono si svela essere latente di un recupero che sollevi l’oblio dalla menzogna del passato per testimoniare alle generazioni successive lo svolgimento reale di ogni evento – cosa che il marxismo rifiuta drasticamente di operare annullando progressivamente il passato e programmando il futuro quasi in forza di virtù e arti divinatorie –, restituendo il passato al presente quale momento espiativo in grado di integrare nuovamente l’uomo alla sua comunità di appartenenza, la sua fede alla stabilità politica perché la stessa fede sia salva da strumentalizzazioni, scongiurando che le età vengano nuovamente a conflittualizzarsi, smagliandosi nella ricerca della vendetta, o sfinendo nell’oblio, rendendo i contorni degli eventi opachi e caliginosi, effetto di una vista politica miope o addirittura accecata dall’indifferenza di fronte alla salvezza del destino umano, con il rischio che conflitti antichi si ripropongano quali pericoli imminenti per le nuove generazioni che hanno conosciuto delle guerre, anteriori alle loro età, solo un racconto spesso manipolato di immaginifiche vittorie; e invece, più realisticamente, quel racconto omette diserzioni e sconfitte, tribolazioni, minacce e crimini spietati, prigionie, tumulti e fughe; si tratta di un racconto tramandato senza però recuperarne la portata di un riscatto che da perdono storico possa rivelarsi espiazione comunitaria, antropologica e ontologica prima ancora che essere legata all’impegno che ogni fede richiede nei confronti del prossimo per una redenzione collettiva, tutelando dall’oblio il passato e salvaguardandolo da reciproche falsificazioni: quelle che di solito giungono a sopraffare vincitori e vinti, caso attuale è quello dell’Ucraina, lasciandoli ripiombare negli stessi meccanismi che avevano mosso le generazioni, a loro precedenti, rincorrendo all’illusione di riacquistare un nesso fra pace politica e riscatto collettivo in virtù e grazie esclusivamente a minacciare, o muovere, ulteriori ostilità, in realtà ennesimo tentativo per riacquistare, mediante la vendetta storica, la risurrezione sociale e spirituale, lasciando però sprofondare Stati e popoli in un sortilegio continuo che vince tutti mistificando essere e dover-essere, e non permette la salvezza di nessuno.
La portata della Verità di Gesù, d’altronde, nel momento stesso del suo consummatum est, che espia noi tutti, perdona perché la redenzione sia effettiva uscita dal ripetersi ciclico di vendette e immaginifiche eroicità civili o vittorie belliche.
Il riconoscimento storico ed esistenziale del perdono
Il momento del perdono, che non costituisce una rimozione, e neppure un sofisticato e congegnato oblio strumentalizzato dalla politica e da ipocrite riappacificazioni, è innanzitutto esistenziale, ontologico, e possibilmente storico-antropologico della stessa vittima, che non cercherà a sua volta vendetta trasformandosi in carnefice nei confronti di quelli che erano stati i suoi carnefici. Pertanto il perdono può affrontare una fase rappresentativa di riconoscimento delle vicende e quindi definirsi, nella verità, quale storico e politico, anche oltrepassando il mero legame di fede che un credente possa avere con la sua personale catechesi. Ne emerge così una genesi del processo espiativo della collettività e del luogo di appartenenza comunitario, proprio perché il perdono non può che rivelarsi nel suo essere archetipicamente redentivo, per divenire successivamente fase di richiamo per ognuno a un’identità comune di appartenenza al luogo, al territorio e alla terra, alla città, allo Stato, affidando a quel documento giuridico per eccellenza, la Costituzione, la sovranità di tutelare e garantire diritti individuali e libertà fondamentali, protette nel loro esercizio e non sospese in prospettiva di ulteriori pericoli e minacce alla democrazia, ai quali il potere politico si appella frequentemente per reggere sé stesso, per rincorrere quanto teme di perdere, cioè l’esercizio del dominio sulla collettività, negando ogni verità, verità che invece la riunione comunitaria iconicamente e in misura redentiva rievoca: la quotidiana speranza e l’indubitabile certezza di approdo al perdono si determinano per l’uomo già nella sua esistenza, quali completamento e compimento della stessa esistenza, suo riconoscibile accadimento, consentendo una ricerca della verità storica, meditata e offerta, affinché l’anelito umano di riscoperta del tempo storico e dello spazio territoriale, così come dell’origine dell’uomo e del suo luogo verso cui è in cammino, diventino condizione di rinascita della vita, ontologicamente riscoperta e, si potrebbe dire, antropologicamente annunciata.
Per sfuggire a una crisi rinnovativa di potenziali ed ennesimi conflitti, il perdono, quale intervento a un richiamo collettivo di risurrezione comunitaria, sinodale, deve emergere come ineluttabile testimonianza già sul presente, invitando allo sviluppo di un riconoscimento espiativo che affermi il passato senza lasciarlo sfilacciare nell’oblio, confondendone le tracce e i segni di verità, o relegandolo a opportune strumentalizzazioni ed edulcorazioni politiche che il potere tenta sempre di mettere in atto proprio per sovvertire ogni forma di incontro tra il presente e il passato, tra i cosiddetti vincitori e vinti, sospendendo la ricerca della verità, manipolandola in una minaccia che dal passato raggiungerebbe il presente, riproponendo quel sortilegio collettivo che aveva portato alla Shoah o negli anni Novanta alle guerre balcaniche.
Nel male, in effetti, la morte ha trovato compimento a-sé, ha individuato la circolarità della vita umana, distruggendo ciò che permetteva all’uomo stesso di incontrare la coscienza della sua redenzione: se la parola rischia di trasfigurarsi in ripetizione politica di un’idea, cioè in propaganda, in che cosa ritroveremo la salvezza se non in una comunione identitaria fondata sul perdono vicendevole, che sappia affermare la salvezza della persona, al di là di ogni appartenenza territoriale, linguistica o di fede, e la garanzia della sua inviolabilità?
Comprendere, perciò, determinate realtà nel mondo, che sono contrastanti, assolutamente inaccettabili, dal punto di vista umano inconcepibili e incomprensibili per la sofferenza che producono e per i lunghi strascichi storici di guerre e di mali per il mondo e per le comunità, che ci inquietano sulla presenza effettiva di Dio, non può essere accolto da un punto di vista propriamente ontologico con un semplice sforzo etico, con un atto di ferrea volontà e di impegno psicologico, normativo-coercitivo “rivoluzionario”, o anche ricorrendo all’imperativo categorico kantiano, insomma giungendo a predisporre per l’umanità una dimensione di etica assoluta, che produrrebbe ulteriori generi di assolutismi politici con il reiterarsi di demagogie di tipo messianico-storico come il marxismo stesso, tutte condizioni che rivelerebbero quella caratteristica ipocrisia del politico nello strumentalizzare il bene comune a fini di propaganda interna, esaltando la virtù di un patto sociale in realtà solo disatteso e rinviato a un divenire indeterminato della società in cui trionferebbe la giustizia per tutti nella dittatura del proletariato su tutti, o addirittura erigendo a virtù il perseguitare milioni di ebrei come durante la Shoah, cosa poi nel tempo accaduta anche nei confronti di cristiani e di musulmani.
Gli innocenti sono stati già tutti accolti; da un punto di vista redentivo inclusi nel Verbo del dolore e nel Verbo della crocifissione e morte di Gesù, che segnano la rivelazione personale del Vangelo: crocifissione e morte a cui segue la conversione all’amore, cioè la Risurrezione di Gesù. Nel cristianesimo, infatti, che non è una coercizione etica, in fondo difficile da spiegare e difficile anche da giustificare, il perdono rivela la semantica della porta stretta, quella dell’uccisione, morte e risurrezione di Cristo, e quindi di ognuno di noi spiritualmente: se non sottomette la legge alla grazia, se non rivela una gratuita misericordia, il perdono a nulla vale, e la verità rimane sospesa in una ricerca di potere e di poteri sempre più affamata e raffinata, sempre più ossessiva, proprio perché non troverà mai un limite: la sete di amore può essere saziata solo dal perdono che ha oltrepassato la legge divenendo cuore umile (cioè misericordia).
In tale prospettiva, la virtù e le virtù coincidono nel bene comune, e la verità è la fede che vive perché coniugata all’amore nella sofferenza prodotta da ingiustizia, intolleranza, guerre e abomini, o da quelle manifestazioni fenomenologiche del male delineate da san Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi15.
Queste sono quelle condizioni che vissute all’interno di una reciprocità fra bene comune, cioè salvezza dell’altro, e virtù, che si rivelano ontologicamente nel compiere l’esistenza di Cristo nella nostra vita e nell’amare la sua Croce nel presente, crocifissi noi in Lui, senza discendervi, ci ottengono il riscatto della speranza in una sin-odale e comunitaria palingenesi, cioè catechetico cammino verso il perdono reciproco e unilaterale con il conseguente strappo del contratto tra l’io e il mondo, tra il bene individualistico del patto sociale di matrice hobbesiana o schmittiana, patto sovranamente eretto per decisione politica su uno stato d’eccezione quale modello giuridico-costituzionale, con la virtù rivoluzionaria che permane salariata dal peccato, cioè dalla morte16.
L’illusione e altri aspetti mitologici della diversità
Simili sfaccettature e analoghi punti di riscontro si ritrovano attualmente nel genderismo, che tenta di camuffarsi in una cultura, ma dovremmo più precisamente parlare di una rappresentazione di ordine cultuale, uno sviluppo ultimo del relativismo, e in ciò una tenace propaganda di un culto antiumano, un medium simbolicamente generalizzato per abiurare la natura in cui si nasce e favorire la mitologia della diversità quale esigenza addirittura sociale o civile, sino a simbologie tipicamente settarie o a eroicità epiche illusorie, seguendone i criteri particolari di appartenenza: fanatico asservimento, irrazionale, a opinioni che si accrescono nella loro ripetizione, portata avanti e gestita da élite politiche, in grado di influenzare la percezione naturale che ognuno ha di sé; crisi identitaria e misconoscimento di sé stessi, se non rassicurati dalle guide che in ciò assumono tratti e aspetti tipicamente sciamanici in grado di mediare tra il meccanismo di irrealtà e l’inconscio depersonalizzato del seguace; radicalizzazione delle scelte personali che sono indotte dal meccanismo di appartenenza al gruppo e sono perciò analoghe e omologanti; la salvezza da un pericolo ipostatizzato e invisibile o, addirittura, percepibile da qualsiasi parte al di fuori del gruppo, per la cui sopravvivenza si adottano scelte radicali, anche mettendo a rischio sé stessi in un cortocircuito fra tutela e autodistruzione di sé, paradosso caro alla cultura eutanasica che darebbe dignità alla vita consegnando la vita alla morte, che vorrebbe salvare la vita dalla sofferenza, portandola all’estrema sofferenza, cioè perdere la stessa vita.
Si realizza in ciò mediante un processo di rappresentazione – in cui l’appartenenza (del tutto adesiva, cioè significante del processo di affatturazione e sortilegio del seguace che si appiccica nuove e variegate ricerche di identità per dare risposta al suo vivere ontologicamente e antropologicamente muto) è divenuta simbolica e poi mitica – quella stessa promessa del marxismo volta e diretta ad assicurare una sostanziale eguaglianza, scardinando dalla vita l’impegno e sostituendolo con l’illusione, il potere, il successo momentaneo, quali reali caparre della morte.
La rivoluzione del cristianesimo non è, peraltro, un mandato messianico di un bene comune politico legato a virtù di provvidenze e alla virtù della tolleranza così come intesa dalla Encyclopédie, tempio semantico rivoluzionario e sillabario politico della normalizzazione della società civile, neppure però è un mito, e non lo è proprio nella misura in cui la vittima, cioè Gesù, non è archetipicamente immortale, ma nasce dal grembo di una madre, sebbene incarnatosi in un preciso momento storico come volontà del Padre e opera dello Spirito Santo; vive e soffre come una normale creatura; viene colpito e condannato; è ucciso infine, ma risuscita in un epicentro di amore che è il perdono di coloro che lo hanno condannato a morte, facendosi successivamente in noi trascendenza e condizione sovrannaturale, dimensioni queste sempre scelte liberamente dalla persona, sfuggendo così a ogni mito che invece si impone sulla realtà antropologica e politica, mito che si esplica solo mediante determinati culti esoterici, utili a imbastire presente ciò che non è presente, cioè l’utopia rivoluzionaria, marxista, che da un passato storico si trasmette a un avvenire incerto, rassicurato dal culto rivoluzionario mantenuto mediante il regime del terrore perpetuo e dei sacrifici rituali delle persone17.
L’utopia rivoluzionaria in sostanza “inventa”, e deve farlo, la rivoluzione come presenza di un paradossale materialismo messianico in grado di surrogare il carattere sovrannaturale dell’esperienza umana in mero politico tout-court, che agisce prediligendo solo l’uso diffuso del controllo capillare della popolazione mediante l’esercizio della forza fisica o con gli strumenti dell’esclusione dei credenti in Dio: la presenza sovrannaturale che ogni credente constata, senza inventarla, in ogni rivoluzione, specie quella francese del 1789 e quella russa del 1917, o quella “culturale” cinese del 1949, viene letteralmente soppiantata dalle virtù rivoluzionarie e dal perseguimento del bene comune, edulcorato in un patto sociale invisibile che si traduce unicamente in ideologie materialisticamente storiche e in rieducazione nei gulag sovietici di un tempo, o attualmente nei cosiddetti laogai cinesi. Le vittime sacrificate sugli altari rivoluzionari marxisti sono state numerose perché il destino stesso della rivoluzione era stato identificato con l’immortalità, e coloro che non rientravano nella normalizzazione della società, in un bene comune comunque inviolabile e al tempo stesso non-tracciabile ed esoterico, riservato, causava una crisi identitaria, come descritta da René Girard: da un lato nel rapporto tra culto e mito rivoluzionari con il bene comune; e, dall’altro lato, nel rapporto fra patto sociale con le virtù dalla stessa rivoluzione, dando luogo a uno sclerotico insieme di fattori volti solo a giustificare il messianismo politico, per una parte, quale utilità marginale in grado di tenere in un sortilegio perpetuo le masse; ma anche diretto a dissuadere, dall’altra parte, ogni senso di ribellione nella società civile mediante la costante minaccia dell’uso della forza fisica o della rieducazione nei campi di internamento o mediante i lavori forzati.
Quelli, dunque, che sarebbero dovuti diventare epopea e avvento di un nuovo mondo e di un nuovo-luogo – promessi ma infine elargiti a pochissimi, e alle masse riproposti costantemente soltanto quali ipotesi future che la storia, ulteriore meccanismo simbolico, avrebbe potuto realizzare se però iscritti in un destino dialettico di opposizione e quindi forieri di successivi conflitti rivoluzionari – vennero irrimediabilmente a profilarsi fittizi e indistinti nei loro contorni: il meccanismo violento e in questo caso mimetico di sovrapporre alla norma l’anormalità, di identificare lo straniero con l’apolide, o di ridurre il cittadino a un controrivoluzionario, e a un surrogato di valori la differenza quale male comune e pericolo per gli ideali rivoluzionari, la virtù del sistema politico messa in crisi dalla virtù della tolleranza cristiana, in realtà compromisero e compromettono il rapporto simbolico e consentono che ogni gruppo minacciato dalla crisi identitaria del suo sistema, che è poi crisi dell’utopia rivoluzionaria e del materialismo storico quale dialettica che vive solo se si sente costantemente minacciata e accerchiata da nemici, debba perseguitare a sua volta altri gruppi immaginari o concreti, sino a profilarsi quale ineludibile necessità in grado di consentire all’utopia rivoluzionaria di continuare a essere un mito costellato dal rito escatologico del materialismo storico e dal culto di poter essere vittima, dovendo così creare un contorno di nemici da sacrificare, che sono poi gli stessi cittadini definiti “contro-rivoluzionari”18.
In questa identità perduta, però, tra illusione di novità e avvento storico di un regno del benessere collettivo, il sistema rivoluzionario, autoreferenziale nel gestire il bene comune e il patto sociale, rischia costantemente di disgregarsi e per scongiurare questa ineluttabile autoreferenzialità deve durevolmente sentirsi odiato, cioè giustificare la sua azione repressiva nei confronti dei “nemici del popolo”, trasferendo in un processo mimetico e simbolico la minaccia dello sfaldamento degli ideali rivoluzionari su invisibili nemici di colui che il sistema protegge, cioè il popolo, ma che in realtà rappresenta il potere nascosto dall’identità popolo, da cui il potere rivoluzionario si sente regolarmente circondato e aggredito: è nel popolo che il sistema rivoluzionario trova il suo smacco e per non autodistruggersi opprime il popolo stesso che diviene nuovamente vittima, dopo essere stato causa e fine della salvezza rivoluzionaria. Quindi il circondarsi progressivamente di nemici da sacrificare rinnova nel sistema rivoluzionario l’assalto al genere umano: si vede quanto accaduto nella crisi Ucraina/Russia, crisi di identità politiche perdute e ripristino di esse mediante l’uso della violenza, rendendo sacro il bene comune che rischia di andare smarrito a meno di non sacrificare il nemico, cioè il popolo stesso nel quale vive un’ambivalenza mimetica: è da un lato lo scopo della salvezza, e la rivoluzione nasce per salvare il popolo vittima di ingiustizie, popolo innalzato a bene comune; ma diventa subito dopo, dall’altro lato, origine di ogni possibile pericolo, minaccia per un’altra salvezza, semantica della rivoluzione, che si trasforma non in bene comune, ma in qualcos’altro: in un sistema ambivalentemente mimetico come quello della rivoluzione, è consentito l’uso della violenza quale virtù rivoluzionaria, se davvero non si vuole sacrificare il suo apparato, ma per far ciò è necessario trovare un’altra vittima, cioè il popolo, che subirà la violenza inflitta dalla rivoluzione come una virtù espiativa e purificatrice, tempo redentivo nel quale la violenza, elevata a virtù dello Stato, è la sola in grado di stanare il nemico e salvare il possesso del bene comune, che da essere identificato nel popolo, passa a essere una esoterica custodia dei princìpi della rivoluzione e quindi della rivoluzione stessa, fino a costituirsi, quale bene comune, supremo e inviolabile, il potere stesso dell’apparato rivoluzionario: la nuova oligarchia.
L’odiare senza causa, allora, di cui parla Girard (cfr qui nota 18) è proprio dei rivoluzionari; appartiene a coloro che hanno fondato un sistema di pensiero in cui è immortale l’utopia, che però non aderisce al luogo, è un non-luogo, disseminato di significati simbolici e allegorici, di metafore ed enigmi, di culti e riti, che non raggiunge mai l’uomo perché non esprime una verità, piuttosto in un meccanismo identitario e simbiotico si accaparra della verità, stravolgendo però la verità in menzogna e rendendo la menzogna storica una verità politica inoppugnabile. Ma per questo sistema mitico e cultuale non si può prescindere dall’esigenza di quel costante rituale dei nemici da sacrificare, e il nesso che permette di divergere dalla verità cristiana sta proprio in questo: sfuggire a un epicentro d’amore, quell’amore in cui Cristo si dona come vittima per la salvezza redentiva del genere umano, non crea e non inventa l’immortalità di un’ideologia, di un’utopia, di un sistema cioè di bene comune assolutamente legato alle virtù cultuali della rivoluzione, un artificio materialistico in fondo che in un sistema identitario andato in crisi, in un’identità perduta, non può che trasformarsi in un persecutore, rinnegando proprio quel bene comune e quel patto sociale addirittura esibiti dalla rivoluzione a garanzia e a tutela dei diritti individuali e a custodia delle libertà fondamentali. Il potere, peraltro reciprocamente protestato come unico e da una sola parte custodito “legittimamente”, mai dal popolo come sarebbe in un regime democratico, ma solo da determinate élite rivoluzionarie che si alternano al comando, rivela nel suo complesso un chiaro esempio di crisi sacrificale girardiana19.
L’estensione sacrale della violenza, quindi, la sua funzione sacrificale che ripristina uno status quo ante, che risolve politicamente lo stato d’eccezione o che dà ragione storicamente al rivoluzionario nel difendere il popolo contro cui infine lo stesso rivoluzionario si scaglierà per distruggere il suo popolo, oggetto amato e inconfessabilmente odiato da un punto di vista antropologico, ci porta a considerare invece possibile il bene comune come quella virtù che passa dalla porta stretta del diritto naturale, e che, per essere transito ontologico dalla legge alla grazia, trasforma la vita nell’incessante beatitudine del perdono20, cioè in misericordia comunitaria e in ricerca di un senso sinodale dell’archetipico riconoscimento di amore, da cui in ogni uomo sgorga quella verità ricercata affannosamente dallo stesso Pilato, e che Pilato invece aveva dinanzi: Gesù.
1 Lc 6, 27-38.
2 Gv 18, 37-38.
3 Si vedano su questo le ampie analisi letterariamente rivissute ne Il cavallo rosso di Eugenio Corti (Ares, Milano 202135).
4 «Per eliminare i kulaki come classe non è sufficiente la politica di limitazione e di eliminazione di singoli gruppi di kulaki […] è necessario spezzare con una lotta aperta la resistenza di questa classe e privarla delle fonti economiche della sua esistenza e del suo sviluppo» (Iosif Stalin, Questioni di leninismo, Società Editrice l’Unità, Roma 1945, p. 187).
5 Così risuona nel 1936 la propaganda nazista: «Wir sollen die Einheit eines neuen politischen Zeitereignises leisten, um das Ergebnis von der Judenentsorgung und von der allen möglichen Staatsbürger unter Verdacht zu erreichen», in tedesco: dobbiamo agevolare l’unità di un nuovo avvenimento politico del tempo e così raggiungere l’obiettivo dello smaltimento di ogni ebreo e di ogni cittadino sospetto. Si rinvia qui all’insieme di quanto sostenuto dal ministro della Propaganda del regime hitleriano, Joseph Goebbels, in Joseph Goebbels, Tegebücher 1924-1945, Fünf Bände, hrsg. von Ralph G. Reuth, Piper, München-Zürich 1992-1999, pp. 984 ss.; pp. 1242-1249; pp. 1342 e 1626.
6 Cfr Karl Marx (1843), Kritik des Hegelschen Staatsrechts, in Historisch-kritische Gesamtausgabe, serie I, vol. I, t. I, Marx-Engels-Archiv Verlagsgesellschaft, Berlin 1927; trad. it. in Karl Marx e Friedrich Engels, Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 64-65.
7 Complessivamente, si rinvia a Vladimir I. Lenin, Che fare? (1902), Einaudi, Torino 1972, specie nella parte in cui Lenin sostiene che il primo e più urgente compito pratico sia «creare un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica energia, stabilità e continuità» (ivi, p. 125).
8 Gn 2, 15: «Il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».
9 «Il male non vi assume più il suo corpo fantastico; in esso si afferra solo la forma estrema, la verità senza contenuto della bestia. Esso è liberato da tutto ciò che poteva arricchirlo di fauna immaginaria, per conservare un potere generale di minaccia: il sordo pericolo di un’animalità che veglia e che, d’un tratto, scioglie la ragione nella violenza e la verità nel furore dell’insensato» (Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976, p. 211).
10 Cfr Jean-Paul Sarte, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), il Saggiatore, Milano 1965-1984, pp. 294-297.
11 Cfr 2 Cor 5, 21; si veda anche Rm 6, 2-13, ma anche 1 Cor 6, 19-20.
12 Gv 11, 49; Is 5, 20-23.
13 Gv 19, 1-16.
14 Mt 28, 1-10; At 2, 22-32.
15 «In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, con sapienza, con pazienza, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero, con parole di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; come sconosciuti, eppure siamo notissimi; come moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6, 4-10; ho evidenziato in corsivo quelle nove fenomenologie del male che attanagliano l’individuo).
16 Rm 6, 23. San Paolo dice: «il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore».
17 Scrive René Girard: «La causalità del capro espiatorio s’impone con tale forza che neanche la morte è in grado di fermarla. Per non rinunciare alla vittima in quanto causa, essa la risuscita se occorre, la rende immortale, almeno per un certo periodo, inventa tutto ciò che noi chiamiamo trascendente e sovrannaturale» (R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987, p. 77; si veda, sempre dello stesso autore, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, pp. 118-122).
18 «I persecutori credono sempre nell’eccellenza della loro causa, ma in realtà odiano senza causa. E questa assenza di causa nell’accusa (ad causam) i persecutori non la vedono mai. Bisogna dunque prendersela con questa illusione, se vogliamo liberare tutti questi poveretti dalla loro prigione dell’invisibile, dall’oscuro dei sotterranei dove marciscono, e che sembra loro il più splendido dei palazzi» (R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 168).
19 «Il fatto che, nella crisi sacrificale, il desiderio non abbia più altro oggetto all’infuori della violenza, e che, in un modo o nell’altro, la violenza sia sempre mescolata al desiderio, questo fatto enigmatico e opprimente non riceve nessuna luce supplementare, se affermiamo che l’uomo è preda di un “istinto di violenza”» (R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 203).
20 Mt 18, 35.