Milledgeville è una piccola città nel cuore del Sud degli Stati Uniti. Capitale della Georgia fino alla Guerra di Secessione (quando gli yankees versarono sciroppo di melassa nelle canne dell’organo della chiesa episcopale), oggi è un paese di ventisettemila anime, famoso per la sua università, il vecchio manicomio e Flannery O’Connor, tutte cose più o meno collegate tra di loro.
Sulla Route 441, venendo da Atlanta, poco prima di giungere in paese sulla destra si trova Andalusia, la fattoria dove O’Connor si trasferì con la madre dopo aver ricevuto la diagnosi di lupus. Era un ambiente più tranquillo rispetto alla casa di famiglia in città, dove ancora oggi vivono alcuni parenti.
La fattoria è dal 2017 sotto la tutela del Georgia College: restaurata, la casa è da sempre luogo di culto per gli appassionati della scrittrice, ed è una vera e propria capsula del tempo. La guida, uno studente di Letteratura al GC, mi spiega che la particolare disposizione dei mobili nella camera di Flannery era dovuta alla sua esigenza di raggiungere la sua postazione di scrittura dal letto; che ogni sei mesi i curatori cambiano i vestiti esposti sui manichini (sono davvero i suoi); che sì, era davvero bassa; ma che no, a differenza delle stampelle (che crearono scompiglio durante il viaggio della scrittrice in Italia: era una delle prime volte che a Roma si vedevano in giro stampelle di metallo), la macchina da scrivere non è quella originale. Quella è sparita, probabilmente nella soffitta di qualche parente.
Un mondo isolato
Andalusia è solo poche miglia a nord della città, ma ai tempi di Flannery doveva essere davvero isolata. La strada non era ancora asfaltata e gli unici edifici raggiungibili a piedi erano quelli della fattoria: il granaio, l’aia, la casa dei dipendenti – occorre camminare qualche minuto per raggiungere la distilleria dove la famiglia Cline, come tutti, produceva moonshine. Io non l’ho vista, me la sono persa, ingannato da un cartello che mi intimava di non procedere oltre.
Quando non c’è asfalto, e quando non è coperta dall’erba leggera che nel tiepido inverno georgiano diventa grigia, la terra del Sud mostra il suo colore: rosso polveroso, come un campo da tennis. I prati sono disseminati di piccoli mucchietti di un rosso più chiaro: sono i formicai delle fire ants, formiche grandi e pericolose. Ovviamente circolano anche animali più grossi: opossum, cervi, coyotes.
È difficile immaginare l’isolamento di Flannery quando si leggono le raccolte delle sue lettere: dai racconti della scrittrice ai suoi amici, il soggiorno di Andalusia sembra ospitare ininterrottamente amici, giornalisti, studiosi, ammiratori. È difficile, soprattutto perché oggi è possibile andare a piedi da Andalusia a un Holiday Inn Hotel e persino a un gigantesco Walmart – possibile, certo, ma non consigliato: non ci sono marciapiedi accanto alla superstrada, e probabilmente va bene così, visto che gli unici a muoversi senza macchina oltre agli studenti europei sono i senzatetto. La città è indubbiamente cambiata molto negli ultimi cinquant’anni: a differenza di altre zone rurali, la popolazione è cresciuta di molto, e quella che ai tempi di O’Connor era una strada sterrata ora è ricca di ristoranti e supermercati.
Tra le aule universitarie
Dopo il primo esperimento, terminato a fatica e pericolosamente, abbandono l’idea di andare a piedi ovunque e approfitto invece del servizio di trasporto pubblico della contea di Baldwin. Un piccolo furgone guidato da un simpatico uomo di colore con solo quattro dita mi porta nel centro vitale della città: un tempo la Georgia State College for Women frequentata dalla giovane Flannery, oggi il Georgia College & State University è uno dei rari esempi americani di scuola pubblica di Liberal Arts e sede della storica rivista accademica dedicata alla scrittrice. All’interno della biblioteca c’è una sala riservata alla consultazione delle carte di O’Connor: bozze di libri, lettere, fogli sparsi e volumi della sua biblioteca personale. Gli studenti non sono moltissimi, ma gli edifici sono imponenti, costruiti con mattoni rossi e sorretti da grandi e bianche colonne – gli stessi colori di Andalusia e delle chiese battiste di tutto il Sud.
L’unica chiesa cattolica della contea è quella fondata dai parenti degli O’Connor, i Treanor. Anche lei è bianca e rossa, ma le mancano le colonne; è piccola e l’interno è tutto di legno, che scricchiola quando ci cammini sopra, proprio come dentro gli edifici più belli del GC. Negli anni di Milledgeville, ogni mattina Flannery e la madre Regina andavano a messa insieme alle sette del mattino (“mi piace andare a messa presto, così non devo vestirmi elegante”). Credo che andassero in macchina, con Regina alla guida – Flannery fu bocciata al primo tentativo dell’esame della patente, come racconta lei stessa in una lettera esilarante. In macchina si può arrivare davvero ovunque: mentre con Google cercavo di localizzare la tomba degli O’Connor, al Memory Hill Cemetery, un pick-up nero mi ha superato, rallentando tra le lapidi.
Gli orrori dell’ospedale
A sud della città, in una posizione quasi speculare rispetto ad Andalusia, c’è forse il posto più affascinante di tutta Milledgeville: si tratta del Central State Hospital, forse il manicomio più grande di tutti i tempi. I palazzi, in mattoni rossi e colonne bianche, diffusi su duemila acri di terreno, hanno iniziato ad andare in rovina quando negli anni Sessanta si cominciò a smantellare i grandi istituti di igiene mentale – con l’esito, peraltro, di portare alla luce gravissime situazioni di abusi e incompetenze. Dalla sua fondazione (1842) quello che in origine era chiamato “Lunatic, Idiot, and Epileptic Asylum” ha ospitato decine di migliaia di pazienti, spesso letteralmente abbandonati a sé stessi da medici e famiglie.
Nel cimitero del manicomio, la cui cura è stata affidata agli ospiti delle vicine prigioni, sono sepolti in fosse comuni tra le 25.000 e 30.000 persone; le piccole placche di ferro piantate nel terreno che servivano come segnali identificativi delle tombe venivano abitualmente disperse dai detenuti che si occupavano di pulire i vasti prati della proprietà. “Milledgeville, city of the crazies”, era l’adagio che circolava fino agli anni Sessanta: le “patologie” diagnosticate andavano dalla sifilide alla vecchiaia, dall’isteria all’abitudine di mangiare i noccioli delle pesche.
Con Flannery, l’immaginazione vola
Sotto l’etichetta di “religious excitement” è facile immaginare rinchiusi i personaggi delle storie di O’Connor, come il vecchio backwood prophet Tarwater de Il cielo è dei violenti o Hazel Motes de La saggezza nel sangue. E il racconto La festa delle azalee (una storia che curiosamente ricorda quella di Toby e dello strangolatore di Scranton in The Office – ennesima traccia della presenza di O’Connor nella pop culture) è parzialmente ambientato in un manicomio. I resti del Central State Hospital, come è facile immaginare, sono piuttosto lugubri (sono anche stati il set per una popolare serie tv a tema vampiri). Non me la sono sentita di entrare, e forse è un’altra cosa che mi sono perso.
Da quando mi trovo al Sud, più volte amici di qui mi hanno chiesto: “allora, hai già incontrato il tuo primo redneck?” Dopo quasi quattro mesi, durante i quali a questa domanda ho ripetutamente risposto mentendo per darmi arie di esperienza, devo dire che no, ancora non ho incontrato il tipo americano dello hillibilly razzista, misogino, attrezzato di pick-up, fucile e teorie del complotto (anche se per ora ho incontrato tutte queste cose, meno il razzismo, ma in persone diverse).
Oggi il Sud è molto diverso
Così come non ho incontrato predicatori sui tetti delle auto come Hazel Motes, uomini di colore sottopagati nelle piantagioni al lavoro insieme a mezzadri invidiosi delle ladies aristocratiche che ne dirigono le fattorie – chissà, forse a spingere un po’ avrei potuto incontrare Louise Florencourt, la discussa novantasettenne erede del patrimonio culturale oconnoriano, scomparsa lo scorso luglio: lei sì che doveva essere una vera lady, stando a quello che mi hanno raccontato, anche se non ha mai amministrato la coltivazione del cotone. Ma non ho incontrato nemmeno assassini-filosofi a piede libero come il Balordo, forse il massimo personaggio di O’Connor, né frotte di pellegrini pronti a farsi battezzare nel fiume Oconee, né profeti dei boschi come i due Francis Marion Tarwater. Probabilmente non frequento i giri giusti. O forse aveva ragione O’Connor: i suoi libri non parlano del Sud.
Flannery O’Connor è riuscita a creare l’immagine del Sud come una terra magica, al tempo stesso fuori e dentro il mondo reale; dominata dal grottesco, che lei definiva come una forma di rappresentazione che prende le mosse dal contatto – scioccante, sconvolgente, pressoché impossibile da rappresentare senza deformare i personaggi e mettere in crisi il senso comune del lettore – dell’uomo con il suo destino.
Percepire il Mistero
Ci sono momenti veramente strani, nelle storie di O’Connor: visioni, epifanie, al limite tra il verosimile e l’inverosimile, portano il personaggio che le vive su un altro piano di realtà.
Sono attimi indubbiamente difficili da interpretare, ma che alla fine illuminano la storia. Quando un misfit come Parker vede la luce che trasforma il quadro astratto della sua vita in significato, in La schiena di Parker; quando la nonna riconosce il Balordo come uno dei suoi figli, in Un brav’uomo è difficile da trovare; quando la signora Turpin vede le anime salire in cielo, sopra il recinto dei maiali, in Rivelazione: ebbene, i momenti meno verisimili dei racconti di Flannery O’Connor, e paradossalmente i più significativi – la reale presenza, dispiegata ma non spiegata, del Mistero – possono essere accaduti solo qui, sulla terra bianca e rossa intorno alla contea di Baldwin, tra pesche e piantagioni. Se me li sono persi, se l’unica frutta che ho visto era a Walmart, se gli unici predicatori che ho incontrato parlavano di Geova, poco male: le storie di O’Connor non hanno mai riguardato la Georgia.