Le città sono i punti di caduta di tanti problemi, di tante contraddizioni, di tante domande sociali a cui dobbiamo dare risposta. Partendo da questa considerazione, vorrei condividere con voi una riflessione su quello che determina alcune situazioni nei comuni.
Come si arriva in Italia
Se parliamo di immigrazione, ci sono quattro modi per entrare in Italia, che poi nella pratica diventano tre. Il primo, infatti, è quello che deriva dai flussi legati al lavoro che però, di fatto, non è più un modo per arrivare nel nostro Paese, ma per regolarizzare chi si trova già sul nostro territorio. Difficilmente oggi un imprenditore o una famiglia scelgono all’estero una persona da far venire qua. Generalmente la si sceglie qua e, attraverso il sistema dei flussi, si regolarizza la sua posizione.
Rimangono dunque tre modi: i ricongiungimenti familiari (tantissime persone arrivano in Italia attraverso questo sistema); i visti turistici (succede spesso che dall’America latina arrivino persone con un visto turistico che poi rimangano qui, in maniera irregolare, anche dopo la scadenza del documento); la domanda di protezione umanitaria: una soluzione che dovrebbe essere abbastanza marginale, ma che, in mancanza d’altro, diventa la norma. Nelle grandi città, soprattutto, succede che un gran numero di persone che non avrebbero bisogno o non avrebbero proprio i requisiti per fare domanda di protezione umanitaria, di fatto trovandosi in una situazione di irregolarità, usano questo canale. Questo determina che uno strumento fondamentale, pensato per avere tempi celeri di risposta, viene sovraccaricato e richiede tempi lunghissimi.
Il dramma di via Cagni
Un esempio lampante è quanto successo a Milano, in via Cagni. Ogni notte 300-400 persone fanno per ore la fila davanti alla sede distaccata della questura per poter presentare la domanda di protezione umanitaria. I tempi di attesa per ottenere un colloquio erano in media di 12-15 mesi. Nel frattempo, questi uomini e queste donne, non avendo denunciato la loro presenza sul territorio, non possono lavorare né entrare nel circuito dell’accoglienza. Sono, di fatto, dei fantasmi. E questo succede perché in Italia le norme che regolano l’immigrazione risalgono al 2000, hanno più di vent’anni e ormai sono totalmente inadeguate per dare risposte razionali a un fenomeno strutturale che noi continuiamo ad affrontare in maniera emergenziale. Le città sono l’imbuto in cui tutte queste contraddizioni ricadono e si manifestano. E noi oggi facciamo una grandissima fatica a dare risposte a persone che potrebbero lavorare regolarmente, essere accolte in un centro dedicato, ma non ne hanno la possibilità a causa di norme che non riescono a regolare la gestione di un fenomeno che è cambiato tantissimo.
Il problema dei minori non accompagnati
Un altro esempio concreto che tocca le città da vicino è quello dei minori stranieri non accompagnati. Si tratta dei ragazzi e delle ragazze che arrivano da soli sul nostro territorio, senza nessuno, e hanno diritto a essere accolti. Siccome non c’è un sistema nazionale che gestisce questo flusso e non esiste un meccanismo di redistribuzione che si basi sull’effettiva capacità di accoglienza dei territori, i minori vanno autonomamente dove pensano ci siano maggiori opportunità, cioè nelle grandi città. A Milano, sono oltre 1.500. Ed è un problema perché lo Stato, in verità, avrebbe affidato a Milano il compito di gestirne, attraverso il sistema SAI, un massimo di 400, non certo 1.500. Man mano che li intercettiamo, cerchiamo comunità dove collocarli, ma ormai il sistema è saturo e quindi, in alcuni casi, non possiamo che offrire un’accoglienza emergenziale.
Il fenomeno in sé sarebbe gestibile: in tutta Italia, infatti, sono presenti circa 21.000 minori stranieri non accompagnati. Quello che manca è una regia nazionale che permetta ai singoli territori di gestire flussi sostenibili. E trovarsi a gestire numeri molto alti significa faticare a offrire percorsi di inclusione di qualità, col rischio, poi, di creare allarme sociale, alimentando un clima di poca disponibilità all’accoglienza nell’opinione pubblica rispetto a un fenomeno che, se fosse gestito più razionalmente, non creerebbe questi problemi.
Due soluzioni
I Comuni, attraverso Anci e in maniera trasversale rispetto all’appartenenza politica, hanno fatto delle proposte, chiedendo al governo di occuparsi della prima accoglienza e affidando agli enti locali l’accoglienza di secondo livello, con la gestione dei percorsi di integrazione. A oggi le soluzioni che ci sono state proposte riguardano l’accertamento della falsa età del minore. Uno strumento che noi a Milano utilizziamo da cinque anni: nel 2022 su 1.350 ragazzi e ragazze, i falsi minori sono stati 17, mentre è più ampio il fenomeno dei falsi maggiorenni: ragazze, soprattutto, costrette a dichiarare la maggiore età perché magari coinvolte in un giro di prostituzione e sfruttamento.
Una seconda soluzione elaborata dal governo è quella di collocare nei luoghi di accoglienza statali per adulti anche i sedicenni e diciassettenni, esponendoli a una condizione di promiscuità riconosciuta, di rischio, ma soprattutto d’ingresso in giri dannosi e illegali. Quando un sedicenne o un diciassettenne non hanno un accompagnamento educativo che li avvii su un percorso d’integrazione, sono molto più esposti. In verità abbiamo bisogno di nuove norme e regole, che siano rigorose ma anche razionali ed eque, che rispondano a un fenomeno che c’è e che non si può ignorare.
Contrasto alla segregazione
Ovviamente il tema non è solo quello delle modalità di arrivo, ma anche della situazione che si trova una volta arrivati. Rispetto a questo, le città hanno alcune sfide molto importanti da affrontare. La prima è il rischio della segregazione in alcuni quartieri. Vengo da giorni di confronto con altre città, in Francia, dove sono emerse molte difficoltà in questo senso.
Noi oggi, a Milano, vediamo in alcune scuole e in alcuni quartieri – penso per esempio al quartiere di San Siro, a piazza Selinunte – le percentuali di bambini e ragazzi di origine straniera essere davvero molto alte. E se non interveniamo con dispositivi che blocchino questo fenomeno si incorre nel rischio di creare quartieri-ghetto in tanti Comuni.
C’è poi il tema del contrasto alla povertà educativa in alcune zone. Oggi i soggetti più a rischio povertà non sono più gli anziani, come alla fine degli anni Novanta, ma le famiglie con minori, prevalentemente di origine straniera. Cosa può fare la città per supportare le famiglie più povere? Abbiamo sviluppato con fondazione Cariplo, per quattro anni, iniziative diffuse nei quartieri proprio per sostenere le famiglie più povere con percorsi di inclusione coinvolgendo il terzo settore. Con quasi 500 associazioni del terzo settore abbiamo costruito un progetto di contrasto alla povertà minorile che ha ovviamente come interlocutori principali i minori di origine straniera.
Lo sport, elemento chiave
E poi c’è bisogno di sviluppare iniziative sportive anche nei quartieri. Innanzitutto, rendendo più facile per i ragazzini di undici anni che ancora sono stranieri (stranieri per noi, ma non per i loro compagni di classe) l’iscrizione nelle società sportive per partecipare ai campionati. Dobbiamo rendere questi percorsi molto più fluidi, molto più snelli. Serve in definitiva una revisione istituzionale che individui responsabilità e compiti: definire chi deve fare che cosa. Perché nel limbo tutto ricade sui Comuni.
Sui minori stranieri non accompagnati, la legge dice che la prima accoglienza spetta allo Stato e in via eccezionale ai Comuni. Lo Stato in questi cinque anni non è stato in grado di costruire un apparato di accoglienza, l’eccezione è diventata la norma, tutto pesa sui Comuni, senza risorse. L’altro grande tema è rendere più coerente l’allocazione delle risorse in base alle competenze. Se un Comune ha una responsabilità, deve avere anche le risorse per occuparsene.