Per Niccolò Cusano (1401-1464) la sapienza è connessa all’ineliminabile desiderio dell’uomo di conoscere la verità, anche su sé stesso, e il concetto di “sapienza”, essendo inteso quale sapida scientia, “conoscenza saporosa”, compendia le due dimensioni umane fondamentali, quella conoscitiva e quella affettiva. Seguendo la ricerca della sapienza compiuta da Cusano (foto), Matteo Andolfo, metafisico (neoplatonista e personalista; socio dell’associazione “Persona al Centro”) e membro della Scuola teologica di Anagogia presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna, evidenzia come essa permetta di ritrovare la vera essenza dell’uomo. La riflessione sulla verità conduce ad adottare la “prospettiva anagogica”, dell’Essere assoluto, propria della teologia sia razionale sia rivelata, che permette di elaborare una metafisica della persona aperta all’arricchimento che la riflessione teologica è in grado di offrire alla luce della Rivelazione.
Per approdare a una metafisica della persona intendo partire dal concetto di sapienza del neoplatonico cristiano Niccolò Cusano (1401-1464), secondo cui essa è sia l’oggetto cercato sia l’atto conoscitivo volto a tale oggetto. Rifacendosi alla tradizione patristico-medievale, la definisce sapida scientia, “conoscenza saporosa”, i cui caratteri corrispondono a quelli della cognitio affectiva dell’Aquinate, che è priva del ragionamento, poiché l’appetizione supplisce l’inquisitio razionale, ma resta una conoscenza in quanto l’appetizione muove direttamente il giudizio. L’atto conoscitivo, poi, è compiuto da un soggetto: la persona.
La sapienza come oggetto di conoscenza affettiva
Inizialmente la sapienza concerne la verità sugli enti del mondo di cui abbiamo esperienza, poiché conseguire la conoscenza della verità è un desiderio insito nella nostra natura: ogni ente tende al proprio bene e per l’uomo, che si distingue da tutti gli altri enti per l’intelletto, questo bene è la sapienza quale nutrimento dell’intelletto. La verità è esattezza assoluta; non sarebbe verità se potesse essere meno o più esatta di quello che è; solo dell’infinito non si dà alcunché né di maggiore né di minore e ciò che non è né maggiore né minore lo denominiamo uguale.
L’infinito è l’uguaglianza assoluta e solo in quanto infinito è il fine ultimo del desiderio, il fine che non ha fine (De visione Dei, 16). Perciò, della sapienza si sa solo che è divina, infinita, eterna, incommensurabile a ogni altra realtà, più elevata di ogni scienza, inconoscibile e inesprimibile, ma, risplendendo in tutte le realtà, è come un profumo che permette di gustare a distanza ciò che lo emana. L’inaccessibilità della sapienza coincide con la gioia di chi ne comprende l’incomprensibile amabilità.
Proseguendo la ricerca, nel De venatione sapientiae Cusano definisce la Verità-Sapienza divina come possest, il “poter essere che è”1: Dio è in atto tutto ciò che può essere, tutte le sue possibili partecipazioni similitudinarie creaturali che Egli pensa autocontemplandosi e che sono tutte complicate (coincidenti) nella sua semplicità assoluta quale loro unico Esemplare. Nel De apice theoriae oltrepassa il possest nel posse ipsum, il “potere in sé”, al di sopra della coincidenza di potenza e atto: il potere è il principio perché qualsiasi altra realtà per precederlo deve poterlo precedere, lo presuppone.
Quando la mente umana constata di non essere in grado di comprendere il potere in sé, lo contempla con la visione intuitiva. Questa si ferma alla coincidenza degli opposti, a Dio in quanto Creatore (possest e posse ipsum restano connessi al creare, dato che sono stati conseguiti partendo dal creato), ma l’intelletto umano riesce a “intravvedere” al di là di essa Dio in quanto Dio, l’Assoluto impartecipato, che non è l’origine di nulla, superiore alla coincidenza degli opposti (De visione Dei, 13).
A mio parere, l’intellezione in questione è un atto di conoscenza per connaturalità, un ritorno alla cognitio affectiva iniziale arricchito dal percorso di comprensione chiarificatrice dell’inquisitio filosofica mediana. È la mistica speculativa della dotta ignoranza in cui l’oltrepassamento della ragione avviene in forza di un rigoroso articolarsi argomentativo. Del resto, Tommaso trae la nozione analogica di conoscenza affettiva dall’esame dell’esperienza mistica. La conoscenza mistica è partecipazione di quella divina, intrinsecamente amorosa in quanto la Trinità è perfetta sintesi di conoscenza e amore.
Ciò conduce alla prospettiva epistemologica di Cusano, che denomino anagogica: assumere di riflesso il punto di vista di Dio. Infatti, è attraverso la coincidenza degli opposti, anche contraddittori, la quale eccede la ragione in quanto implica contraddizione, che Dio è colto trascenderla (De beryllo, 3.25). È la regola fondamentale, come Cusano la chiama in De coniecturis, II 16: la mente intende (senza comprendere) l’unità della verità infinita nell’alterità della congettura, che è un giudizio che partecipa della verità, ma è sempre perfettibile. Il nostro sapere più alto non coincide mai con quello di Dio, ma resta legato al mondo creato, nel quale sono colti gli opposti finiti intuiti come coincidenti.
Per la regola fondamentale la dotta ignoranza dell’intelletto quale punto di vista di Dio è colta solo di riflesso come dotta ignoranza della ragione di fronte alla coincidenza degli opposti (al di sopra del principio di non-contraddizione). Cusano formula la regola fondamentale anche così: per comprendere l’effetto (il creato) occorre conoscerne la causa (Dio), assumendo la prospettiva della teologia razionale, da cui esaminare gli altri àmbiti filosofici, dall’ontologia alla cosmologia, all’antropologia.
La sapienza come atto della persona
Il soggetto che ricerca la sapienza è la mente umana, che astraendo le forme dai sensibili attua la sua capacità di produrre le nozioni di tutte le cose (De coniecturis, II 7): l’intelletto in sé è in potenza; discendendo sino (partecipandosi) al senso con la mediazione della ragione e dell’immaginazione coglie in atto i sensibili2; si attua ascendendo dall’alterità delle specie sensibili all’unità delle specie intelligibili3.
Al di sopra dell’intelletto Cusano pone l’intelligenza, che è sempre in atto grazie all’automovimento sostanziale-naturale perpetuo, sicché è vita intellettiva immortale, pensare sempre (semper intelligere), puro pensare come attività (De ludo globi, 24-25; De coniecturis, II 7.16). L’intelletto (possibile) si profila, quindi, essere l’esplicazione dell’intelligenza (in atto). Intelligenza, intelletto, potenza razionale e sensitiva comunicano tra loro nella verità del conoscere poiché la loro gerarchia è una catena di partecipati che procedono l’uno da quello immediatamente superiore e tutti ultimativamente dall’intelligenza quale atto primo essenziale e natura in sé dell’anima umana (ciò conferisce un fondamento metafisico alla continuità delle facoltà, a garanzia della continuità tra le funzioni conoscitive).
L’intelligenza riceve da Dio la potenza conoscitiva, l’intelletto per riflesso dell’intelligenza, l’anima razionale per riflesso dell’intelletto e l’anima sensitiva per riflesso di quella razionale. L’anima sensitiva non riflette ulteriormente tale potenza, perché da essa procede l’anima vegetativa, che è priva di capacità conoscitiva (De beryllo, 20). Allora quella che è mente nella propria natura (creata) è anima (forma sostanziale) nella propria funzione di vivificare il corpo.
La caccia della sapienza si svolge secondo una dinamica tipicamente neoplatonica: la transizione dall’exterius (gli enti esteriori al soggetto) al superius (Dio/Sapienza-in-sé) è mediata dall’interius: l’ascesa interiore dalla ragione all’intelligenza, che guardando dentro sé stessa contempla la Sapienza eterna, che la trascende, riflessa in essa come similitudine intellettiva dell’archetipo di tutte le similitudini4, forma della mente, luce sostanziale (creata) costitutiva dell’intelligenza quale immagine di Dio, nella quale risplende (si riflette) una Luce eterna inaccessibile a ogni visione mentale, che fa cogliere Dio come forma dell’essere di tutte le realtà esistenti (Compendium, 8.10; De non aliud, 11-13; De beryllo, 6; De venatione sapientiae, 17). È l’illuminazione agostiniana, che Cusano concilia con l’astrazione tomista.
Nell’interiorità dell’uomo la “forma dell’essere” è la similitudine conoscitiva dell’entità come atto partecipato alle creature dall’Entità-in-sé (Dio). Infatti, per Cusano il possest esprime Dio come Essere assoluto (ipsum Esse), quale si rivela in Es 3, 14:
La versione greca del versetto è: Io sono l’entità (ego sum entitas) [così Cusano traduce il participio presente greco maschile on, l’Essente] […]. Infatti, Egli è la forma dell’essere o la forma di ogni forma formabile (De possest, 14).
Ogni ente esiste in atto nella misura in cui partecipa dell’essere attuale di Dio. Siccome è la forma a conferire l’essenza e l’essere agli enti5, nella sua entità assoluta Dio non solo è la forma infinita (Esemplare) di tutte le forme finite (suoi partecipati), ma è anche l’atto di tutti gli atti d’essere partecipati. A mio parere, è una ripresa della concezione neoplatonica porfiriana dell’Essere divino quale puro agire infinito-indeterminato coincidente con l’Idea dell’ente (chiamata da Porfirio ontótes, “entità”), mentre l’entità divina partecipata è l’ente finito, determinato, creato, composto di forma e atto d’essere (id quod est)6.
Porfirio accanto all’entità ammetteva l’intellettività (noótes) quale pre-forma dell’intelletto; siccome per gli enti viventi razionali essere è vivere e vivere è pensare, si può asserire che l’intellettività è la modalità specifica dell’entità quale atto d’essere costitutivo della persona, che si sostanzializza come intelligenza agente. Non sfugge la convergenza con la concezione tomista della persona, secondo cui «l’anima umana possiede il proprio atto d’essere e lo concede al corpo, del quale è la forma […]. L’uomo quale persona è uno grazie all’unità dell’atto esistenziale dell’essere (esse personale), per cui la persona è un’unità esistenziale piuttosto che un’unità ilemorfica»7. Allora, ritengo di poter affermare che in Cusano è individuabile una metafisica anagogica della persona.
Il “complemento teologico”
Prendo a prestito il titolo di un altro trattato di Cusano, il Complemento teologico, per designare l’arricchimento che la riflessione teologica, grazie alla Rivelazione accolta per fede, può apportare, sempre in prospettiva anagogica, a tale metafisica della persona. Considero la teologia e la filosofia come “scienze sorelle”, poiché la prima quale opus fidei et rationis senza la filosofia non sussiste e la seconda senza la teologia è limitata: l’intero come unitotalità relazionale tra le parti, che costituisce l’orizzonte della metafisica, è un concetto formale, poiché da esso non posso dedurre i singoli esistenti, che mi sono dati dall’esperienza; è la teologia a offrire il contenuto materiale dell’intelaiatura formale: il Disegno divino incentrato nella Croce di Gloria, coincidente con il Pleroma, l’Unitotalità del creato trasfigurato escatologicamente e incorporato a Cristo, per il cui tramite inabita nella Trinità.
La metafisica come teologia razionale perviene all’Originario, che coincide con l’atto creatore, il punto di unità tra Creatore e creatura, pur nella loro distinzione, e con l’Esemplare, in cui Dio si contempla come oggetto di contemplazione di un intelletto non divino causato da Lui stesso: il mondo in quanto è nello sguardo (scientia visionis o visio absoluta) di Dio creatore. L’Originario è l’intero, poiché tutto è nell’atto creatore, al di fuori del quale non ha esistenza né sussistenza.
Se il Disegno divino è eterno e immutabile, in quanto ogni atto di Dio è eterno e coincidente con gli altri, è già sempre definitivo, è l’éschaton, e allora la teologia anagogica è escatologia, che concerne il definitivo (la ricapitolazione in Cristo di tutte le realtà che fa sì che Dio sia tutto in tutte), che già è (nell’eterno sguardo divino), ma che sul piano temporale non è ancora realizzato pienamente in quanto il creato è in un “esodo” purificatore verso la propria trasfigurazione pleromatica. Del resto, nell’Inesteso (Dio), come sottolinea Gregorio di Nissa, principio (originario) e fine (escatologia) coincidono. L’originario e l’escatologico coincidono con il Cristo teandrico eterno, «l’Alfa e l’Omega» (Ap 1, 8), immolato sin dalla fondazione del mondo (Ap 13, 8), eternamente incarnato, ossia presso la sofferenza di ogni creatura, ed Esemplare dell’uomo e del cosmo8.
Un ottimo punto di avvio dell’apporto teologico al concetto di persona sono le seguenti parole del teologo greco ortodosso Christos Yannaras:
Il neonato che non “capisce”, l’uomo maturo all’apice delle sue facoltà psichiche e fisiche, e quello che sprofonda nell’impotenza della vecchiaia o “perde la testa”, sono la medesima persona davanti a Dio. Perché ciò che costituisce l’uomo in quanto ipostasi, ciò che gli dà un io e un’identità, non sono le facoltà psicosomatiche, bensì la sua relazione con Dio, il fatto che Dio lo ama di un amore unico che chiama il non essere a essere (Rm 4, 17), che fonda e sostiene l’alterità personale dell’uomo. L’uomo è persona […] perché esiste come possibilità di risposta alla vocazione d’amore di Dio9. Grazie alle sue funzioni psicosomatiche, l’uomo “gestisce” questa possibilità, risponde positivamente o negativamente all’appello di Dio. […] La fede nell’eternità è la certezza che questo amore [di Dio] non cesserà, ma costituirà sempre la mia vita […], che la mia relazione [con Dio] sarà sempre personale, che di fronte a Lui io sarò, proprio io, così come Dio mi conosce e mi ama10.
Yannaras è un teologo neopalamita, in quanto rielabora la concezione del teologo bizantino Gregorio Palamas (XIV sec.), secondo cui l’essenza di Dio è impartecipabile, mentre le perfezioni partecipate al creato sono in sé stesse atti divini anoúsioi kaì anypóstatoi, distinti dall’essenza e dalle Ipostasi trinitarie, ed enipostatici, ossia sussistenti solo nei partecipanti creati, i quali sono i loro compimenti (apotelésmata). Per il nostro discorso non è rilevante la concezione palamita degli atti divini increati realmente distinti dall’essenza di Dio, dottrina, peraltro, corretta dal neopalamismo in un’ottica che l’approssima alla concezione occidentale dell’identità di essenza e atto in Dio per la sua assoluta semplicità, quanto i seguenti due aspetti:
1) Palamas riprende il termine porfiriano ontótes, “entità”, per designare l’essere come atto partecipato da Dio nel creare;
2) Yannaras applica all’uomo la distinzione tra ipostasi, essenza, atti, rifacendosi all’antropologia di san Paolo, che distingue nell’uomo spirito, anima e corpo (pneûma, psyché, sôma). La persona-ipostasi è lo spirito, rispetto al quale anima e corpo sono atti: il corpo, l’anima e le loro facoltà sono proprietà comuni della natura-essenza umana che attuano e partecipano il carattere unico e irripetibile dell’ipostasi-persona, la quale è costituita dalla relazione con Dio. Per questo l’ipostasi non si identifica né con l’anima né con il corpo.
In 1 Cor 2, 15-16 san Paolo precisa che l’uomo spirituale possiede la mente (noûs) di Cristo, avendo permesso allo Spirito (pneûma) di Dio di rinnovare e trasformare per grazia il proprio intelletto (noûs). Lo spirito è differente dall’intelletto, ma lo rinnova conformandolo a Cristo, così da potersi situare dal punto di vista di Dio e giudicare con autentico discernimento il creato, ossia secondo un criterio assoluto, eterno e infinito. Il carisma più importante dello Spirito è la carità teologale, che è la stessa vita intratrinitaria. In realtà, la nostra conoscenza di Dio significa principalmente essere conosciuti da Lui (1 Cor 8, 3; 13, 12), ossia beneficiare del suo amore intrattenendo una relazione privilegiata con Lui. È la totalità dell’essere umano, anima e corpo compresi, a spiritualizzarsi con il rinnovamento dell’intelletto11.
Ora, in Cusano la mente umana nella propria sostanza immortale è intelligenza-intelletto, che, pertanto, è il centro dell’uomo, il massimo grado di conoscenza umana, in quanto perviene a intuire l’infinito divino, e il “luogo mistico”, ciò che per grazia partecipa alla vita di Dio. Ecco perché ritengo che sia una concezione molto fedele a quella paolina dello spirito12. Se lo spirito corrisponde alla mens di Cusano, allora la sua entitas può corrispondere all’ontótes palamita e l’intellettualità può essere intesa come l’atto che si sostanzializza nell’intelligenza agente enipostatizzandosi in essa, centro dell’uomo che lo rende persona, dato che l’intellettualità-entità è l’atto che lo relaziona a Dio Creatore13.
La prospettiva anagogico-escatologica
La metafisica della persona di Cusano può, così, essere considerata nella prospettiva di una teologia anagogico-escatologica14, ossia dal punto di vista dei Misteri gloriosi, nei quali, afferma il teologo domenicano Barzaghi15, si trova la sapienza divina. Allora la sua partecipazione all’uomo, essendo la sapienza sapida scientia, consta, come conoscenza, nella dotta ignoranza sovraintellettiva della theosis. Nel De filiatione Dei Cusano identifica la filiazione divina per grazia con la deificazione, traduzione del greco theosis, che si realizza pienamente nell’escatologia16.
Analizzando il nesso intercorrente in san Paolo tra antropologia, cristologia ed escatologia17, Serrano18 evidenzia che l’uomo pienamente deificato (in dimensione escatologica) è reso tale dallo spirito che permea di vita divina l’anima e il corpo del Risorto e che Egli dona al composto psicosomatico umano. Questo “uomo perfetto” esiste già (1 Cor 2, 6) perché nel creare l’uomo Dio gli ha donato lo spirito come “capacità di ricevere la grazia”, attuata già nella vita terrena dallo spirito donato da Cristo nel Battesimo, ma in questa vita l’uomo è “in esodo” verso il Pleroma escatologico, sicché ha solo la “caparra” o “primizia” della vita eterna, che sarà compiuta solo con la risurrezione finale dei corpi, se l’uomo avrà corrisposto con i suoi atti volontari a tale dono.
Questo conduce all’aspetto affettivo della sapienza in prospettiva escatologica, che consiste:
- a) nell’obbedienza quale sentimento fondamentale: lasciarsi guidare da Cristo, che è morto e risorto per me, perciò deve valere per me più di ogni altra cosa, sofferenza compresa;
- b) nella misericordia: la Gloria del Paradiso, la Gioia filtrata dal Dolore, è per il peccatore convertito, che riconosce di essere stato “tratto fuori” gratuitamente dall’abisso del peccato in cui si trovava. L’amore di misericordia fa sì che si “con-patisce” con l’altro perché lo si ama e si manifesta come la consolazione divina che filtra in noi verso gli altri.
A mio parere, la misericordia è l’espressione dell’amore incondizionato di Dio, per cui valgo tutto, sicché gli devo gratitudine e obbedienza nel senso suddetto. Questo mi porta all’arricchimento che alla dimensione affettiva della sapienza può venire dalla spiritualità esicasta di Isacco di Ninive, il quale afferma che, accogliendo nella pace (hesychia) tutte le debolezze e i cedimenti inaspettati che ci umiliano e le umiliazioni ingiuste da parte degli altri, si perviene alla beatitudine (gioia filtrata dalla contrizione) di chi, riconoscendosi peccatore, si rifugia in Dio e si lascia “abbracciare” dalla sua misericordia (Discorso 1). La misericordia deve comunicarsi come compassione incondizionata partecipe della fatica e del dolore di chiunque, compresi gli esseri irrazionali, e del bisogno di redenzione di tutti (Discorso 62)19.
Gli sviluppi tecnologici dell’ormai ventennale “rivoluzione digitale”, come l’AI, e la loro crescente pervasività nella sfera antropologica condizionano l’autocomprensione dell’uomo. Per affrontare la sfida che questo comporta occorre sempre partire da ciò che è ontologicamente fondante, l’essere reale della persona: se si dimentica chi siamo strutturalmente, prima e indipendentemente da ogni condizionamento sociale, politico, economico, scientifico-tecnologico, non si ha quel minimo di sicura consapevolezza di sé per poter gestire detta sfida senza esserne travolti. La verità sull’uomo è cogliere come stanno realmente le cose sulla condizione ontologica umana, che ci è data, non creata da noi.
La metafisica mira a vedere come stiano strutturalmente le cose di cui abbiamo esperienza, cercando le evidenze incontrovertibili, sempre valide, che le fondano. Pertanto, non è qualcosa di valido solo in un determinato momento storico. Si può mistificare con manipolazioni la verità sull’uomo, ma la realtà che ne è il correlato oggettivo si riaffermerà sempre, inevitabilmente, contro ogni sua interpretazione soggettivistica.