Il dott. Stefano Marianeschi è medico responsabile di struttura dipartimentale di Cardiochirurgia Pediatrica dell’Ospedale Niguarda di Milano. Ogni anno rinuncia a un periodo di ferie per operare bambini portatori di gravi cardiopatie o affetti da malformazioni congenite, che vivono in zone del mondo colpite dalla guerra o da gravi emergenze sociali ed economiche. Con una equipe di collaboratori affronta lunghi viaggi non solo per effettuare interventi chirurgici, ma anche per organizzare la formazione del personale locale1. Per queste iniziative ha ricevuto importanti premi e riconoscimentiCome si articola il suo impegno professionale e umanitario che la spinge ogni anno a operare in Africa bambini con gravi patologie cardiache?
Mi sono sempre sentito realizzato umanamente e professionalmente svolgendo missioni all’estero. La prima fu in Africa, alla fine degli anni Ottanta, in Kenya; poi in Albania durante la guerra del Kosovo. In quella occasione fui contattato da un missionario diocesano per dare un supporto medico ai profughi. Da queste esperienze ho capito che potevo realmente aiutare i bambini cardiopatici nei loro Paesi di origine e gradualmente è nata la mia collaborazione con varie associazioni.
In queste attività medico-chirurgiche all’estero avrà bisogno di servirsi di locali infrastrutture e di personale del posto. In proposito, con particolare riferimento ai Paesi africani, quali difficoltà riscontra?
Servono infrastrutture, senza le quali è impossibile operare; per tale ragione facciamo sempre dei sopralluoghi preliminari. È necessario un team locale che sia interessato a crescere e collaborare con noi. È indispensabile, inoltre, un ospedale che abbia almeno una sala operatoria e una terapia intensiva adeguata. In Uganda, Zambia, Zimbabwe, Etiopia, Camerun, Marocco, abbiamo iniziato una cooperazione su queste basi. Dove non ci sono ancora medici o personale idoneo, si inizia con ospitarli in Italia per corsi, master e aggiornamenti in modo da creare poi un hub locale con cui collaborare, che abbia nel tempo sempre meno bisogno di aiuto.
In Africa le carenze strutturali e delle risorse umane sono le medesime nei diversi Paesi, o riscontra un’apprezzabile differenza da Paese a Paese?
C’è molta differenza tra i diversi Paesi per vari motivi, riconducibili all’estrema povertà e alla mancanza di risorse o di impegno sanitario del Paese stesso. In Camerun le lotte interne tra le fazioni anglofone e francofone non hanno permesso uno sviluppo sufficiente del sistema sanitario; ci siamo quindi avvalsi di realtà locali come quella delle suore di Shissong. In Zimbabwe i medici sono in perenne sciopero perché sono sottopagati o addirittura non pagati, pur avendo delle strutture in grado di affrontare interventi cardiochirurgici.
L’Uganda è un’isola felice, senza conflitti e tanta buona volontà di colleghi e collaborazione del governo. Un problema diffuso in questi Paesi è anche quello dell’emigrazione del personale sanitario. Quando si raggiunge un certo grado di competenze e preparazione spesso si cerca un lavoro all’estero dove lo stipendio è maggiore e garantito.
Come considera la Sanità in Africa? Quali sono le maggiori inadeguatezze nell’affrontare le situazioni ordinarie e quelle emergenziali?
In Africa si muore per problemi molto più banali di una cardiopatia congenita. Anche se curare una cardiopatia costa, è doveroso non solo perché ogni vita è preziosa, ma anche perché affrontare cardiopatie permette al sistema sanitario del Paese un salto di qualità che si ripercuote, in istruzione, aumento della capacità di lavoro, incremento del Pil, mentre noi impariamo a lavorare senza fare sprechi e con quello che abbiamo a disposizione. In Africa le emergenze sono tante, per fortuna abbiamo in Italia tante associazioni di volontariato che se ne occupano.
Come si potrebbe favorire il miglioramento infrastrutturale e nella formazione del personale?
Per quanto possibile cerchiamo di coinvolgere il personale sanitario locale; inoltre invitiamo studenti di questi Paesi al master universitario della Scuola Internazionale di Cardiochirurgia: questi ragazzi passano un anno nelle strutture di vari ospedali italiani, tra cui il Niguarda. Tornano nel loro Paese e rimangono in contatto con noi. Questo periodo di formazione è garantito da borse di studio. Chiediamo collaborazioni con i governi tramite le nostre ambasciate. Alcuni ambasciatori sono più sensibili al problema altri meno, ma grazie a loro si possono instaurare rapporti positivi e duraturi.
In conclusione, qual è il suo giudizio sulla Sanità e sulla situazione sanitaria nel continente africano?
Nel mese di agosto 2023 ho partecipato al congresso mondiale di cardiologia e cardiochirurgia pediatrica a Washington; tra le varie iniziative per la prima volta è stato creato un “global village”, dove sono state invitate tutte le realtà vicine al mondo del volontariato e dell’assistenza ai Paesi meno abbienti con stand, sessioni e momenti di confronto. In una di queste sessioni mi ha colpito l’intervento di un medico nigeriano, che sosteneva l’inutilità degli aiuti umanitari per diverse ragioni, tra cui l’atteggiamento di molti medici occidentali che, operando in Africa, escludono le realtà locali.
Un medico ugandese, riferendosi al modello che utilizzo anche io, ovvero di coinvolgimento delle risorse umane locali fornendo anche formazione, ha ringraziato le associazioni di volontariato che permettono al suo Paese di progredire e di esplorare forme di indipendenza. Sono sempre più convinto che molto dipende proprio da come noi interpretiamo il concetto di aiuto in Africa, continente complesso che ha passato nel corso degli anni tante situazioni di sfruttamento, di ingiustizie, di guerre che certamente non lo hanno aiutato2.