Il 19 febbraio scorso è morto uno degli egittologi più rinomati a livello internazionale, Jan Assmann, nato in Germania nel 1938. È stato docente di Egittologia all’Università di Heidelberg dal 1976 al 2003 e poi di Scienze culturali generali all’Università di Costanza. Ha insegnato anche a Parigi, Gerusalemme e alla Yale University. Ha diretto un’importante campagna di scavi a Luxor. Con la moglie Aleida, antropologa culturale, ha condotto numerose ricerche sulla memoria culturale collettiva, per le quali entrambi hanno ricevuto nel 2017 il Premio Balzan e nel 2018 il Premio per la Pace del Deutscher Buchhandel, l’editoria tedesca.
Come egittologo, ha indagato molteplici aspetti della civiltà egizia, soprattutto la religione, la società, l’Aldilà1. Tra i tanti, vorrei ricordare, in particolare: i suoi studi sul concetto di maat, la misura, l’equilibrio tra gli estremi, il diritto, l’ordine, la giustizia e la verità, ciò che dev’essere fatto perché il mondo funzioni armoniosamente e continui a esistere2; il suo intervento, l’anno scorso, in occasione del bicentenario della decifrazione dei geroglifici, edito su un Quaderno dell’Accademia delle Scienze di Torino3, di cui Assmann era socio straniero dal 2012.
In esso ripercorre le principali interpretazioni che della scrittura geroglifica e del suo significato “simbolico” sono state elaborate a partire da quelle filosofiche neoplatoniche e dagli Hieroglyphika di Horapollo a quella magica e connessa alla mnemotecnica di Giordano Bruno, a quelle esoteriche del XVIII secolo, sino alla svolta della decifrazione di Champollion, la cui opera, proseguita da Erman e dalla sua “scuola di Berlino”, ha reso l’egittologia una disciplina accademica.
Le altre civiltà del Vicino Oriente antico
Nelle sue ricerche Assmann ha sempre dimostrato un interesse che spaziava ben oltre i confini geografici e temporali della civiltà faraonica, estendendosi alle altre principali civiltà del Vicino Oriente antico e alla Grecia. La direttrice di queste sue ricerche scientifiche su così vasta scala è stata il concetto di memoria culturale, ossia dei modi in cui le diverse civiltà hanno custodito e tramandato di generazione in generazione la propria identità culturale, intesa quale struttura connettiva di un sapere e di un’immagine di sé comuni ai membri di una società, che tematizza la coscienza dell’appartenenza sociale riflettendo sulla propria partecipazione a una cultura.
Tali identità sono perpetuate mediante la cultura del ricordo, che si serve di tecniche di memorizzazione sia sul piano dell’oralità (miti, riti, forma poetica, feste) sia della scrittura e opera una continua “riorganizzazione” del passato con l’evolversi dei quadri di riferimento del presente.
La memoria e la difesa dell’identità
In un saggio dedicato a questo tema4 Assmann mostra, per esempio, come la Grecia abbia elaborato l’identità culturale propria e dell’Occidente in due fasi: 1) fondando la continuità culturale sull’oralità rapsodica, la comunicazione diretta di un testo al pubblico da parte dell’autore o più spesso di un rapsodo; 2) inaugurando nell’età ellenistica (fine IV sec. a.C.) una nuova forma di continuità culturale basata esclusivamente sui testi e sulla loro esegesi.
Nello stesso saggio Assmann esamina le somiglianze e le differenze delle modalità con cui sia l’Egitto sia Israele hanno difeso la propria identità che avvertivano minacciata, il primo, dall’occupazione persiana e poi greco-macedone; il secondo, durante l’esilio babilonese. Il tempio e le sue regole di purità per gli egizi, le norme della Torah per gli ebrei5 sono state le due istituzioni scelte come baluardo della propria identità etnico-culturale, sulla cui base i due popoli hanno assunto un modello di vita che li separava da tutte le altre comunità con cui erano costretti a convivere.
Il concetto di mnemostoria
In un altro studio6, Assmann introduce la nozione di “mnemostoria”, la storia del passato non in quanto tale, ma come lo si ricorda, e la ritrova operante sia nell’ebraismo sia in Occidente riguardo a Mosè, che è una figura della memoria più che della storia, dato che di lui storicamente non sappiamo pressoché nulla: nell’ebraismo, l’Egitto perde la propria realtà storica e diventa la “controimmagine” di Israele, la menzogna contrapposta alla verità, e il monoteismo giudaico sorge dalla “distinzione mosaica”, l’inversione normativa del cosmoteismo (panteismo) della religione egizia della seconda metà del II mill. a.C., che in questa, a sua volta, si è originato dal rifiuto della riforma religiosa “monoteistica” del faraone Akhenaten (1352-1338 a.C. ca.).
Quest’ultimo è una figura della storia, ma non della memoria, perché le numerose prove filologico-archeologiche che ne attestano l’esistenza sono state sottoposte dai suoi successori a una ben riuscita damnatio memoriae e sono state riportate alla luce solo dall’egittologia moderna.
Tuttavia, per Assmann il cosmoteismo egizio influisce sulla filosofia greca, recepita dal pensiero occidentale successivo, e contribuisce a causare una progressiva “egittizzazione” della figura di Mosè – da Cudworth a Schiller, passando per Toland, Warburton, Reinhold e Spencer – tesa ad assimilare il monoteismo mosaico al cosmoteismo egizio, che si conclude con L’uomo Mosè e la religione monoteistica di Freud, il quale disponeva, a differenza dei predecessori, della conoscenza della riscoperta storico-archeologica del monoteismo di Akhenaten.
La teologia politica
Un altro concetto che Assmann vede accomunare Egitto ed ebraismo è la “teologia politica”, che egli intende, però, in senso “capovolto” rispetto a quello di Carl Schmitt, secondo cui le regole e leggi della convivenza sociale discendono dalla religione; al contrario, Assmann7 sostiene che la “teologizzazione” del concetto di giustizia connettiva della letteratura sapienziale egizia (a un’azione buona o cattiva segue una conseguenza corrispondente) e del “patto di solidarietà verticale” vigente nella società egizia (il superiore deve proteggere l’inferiore, che dev’essergli leale) in Egitto porta al Dio giudice del “tribunale dei morti”, nel quale le norme della convivenza sono rese metro di misurazione d’una condotta di vita di cui ogni singolo, dopo la morte, deve rispondere, mentre in Israele origina l’idea del Dio legislatore, alla cui volontà sovrana si sottomette con l’Alleanza l’intero popolo.
Nel contempo, Assmann non manca di evidenziare la mediazione svolta in questo processo dalla Mesopotamia, che per prima ha connesso la giustizia connettiva alla volontà divina (interpretata attraverso la divinazione, assente in Egitto sino alla seconda metà del II mill.), e dagli ittiti, che interpretavano gli eventi della propria storia come ricompensa divina delle azioni buone, se positivi, e come punizione divina delle colpe commesse, se negativi; un’idea che il giudaismo applicherà alla propria storia sin in età medievale e oltre.
L’approccio multidisciplinare
Sebbene sia criticabile l’accezione non sempre teoreticamente adeguata che in Assmann assumono concetti filosofico-teologici come quelli di “cosmoteismo-panteismo” e di “creazione”, gli va dato atto di aver avuto il pregio di adottare verso le civiltà antico-orientali una prospettiva interdisciplinare, che include l’egittologia, la sociologia, la filosofia e la teologia, tentando di superare sia l’approccio meramente filologico-letterario e storico-archeologico prevalente verso il Vicino Oriente antico (Egitto, Anatolia, Siria, Mesopotamia e Iran mazdaico), sia la tendenza accademica all’eccesso di “zonalizzazione” del sapere, che induce a trattare ogni cultura come se fosse irrelata alle altre geograficamente e cronologicamente circostanti.
L’“età assiale”
Un altro suo pregio sono le sue tesi, sempre nette, mai confuse, e per questo capaci di suscitare una discussione scientifica feconda. Ne è un esempio una delle sue ultime monografie8, in cui tratta dell’“età assiale”, concetto reso celebre da Jaspers, che la intende come un momento storico cruciale, situabile intorno al 500 a.C., che ha generato la più netta linea di demarcazione della storia.
È il periodo che ha visto in più civiltà la comparsa quasi contemporanea di figure – Confucio e Lao-tse in Cina, le Upanishad e Buddha in India, Zarathustra in Iran, i profeti ebrei in Palestina, i filosofi in Grecia – che hanno introdotto concetti innovativi, come la razionalità (contro il mito), la spiritualità, l’interiorità, l’etica, la trascendenza e il monoteismo (contro il politeismo e l’immanentismo). Jaspers ritiene l’età assiale più fondamentale della venuta di Cristo, perché quest’ultimo è stato centrale solo per l’Occidente. E le civiltà che non riuscirono a compiere quella “svolta spirituale” vennero annientate, comprese l’egizia e la mesopotamica.
Assmann qualifica l’età assiale come un “mito scientifico”, incredibilmente suggestivo, ma i cui presupposti di base non vengono messi in discussione e perciò non da rifiutare, ma da demistificare. In primo luogo, perché proprio la pretesa di globalizzare l’idea cristiana di una svolta fondamentale mostra quanto profondamente la tesi di Jaspers dipenda dalla tradizione cristiana occidentale. In secondo luogo, perché l’egittizzazione occidentale di Mosè sopra considerata rivela che il passaggio dal politeismo al monoteismo caratteristico dell’età assiale non è stata una rottura così radicale da imporsi definitivamente.