Torna in libreria, per Giunti Editore, La bambola dagli occhi di cristallo (pp. 246, € 16), il primo noir di Barbara Baraldi. Il libro, rispetto alla prima versione pubblicata per Mondadori nel 2008, ha subito una profonda revisione, ma resta sempre una pietra miliare della letteratura noir italiana. Ne parliamo con l’autrice.
Giallo e noir: se dovessi spiegare in poche parole la differenza fra questi due generi, che cosa ci diresti? E perché tu scegli il noir?
Il giallo si concentra sul “whodunit” (contrazione per “Who has done it?”, “Chi l’ha fatto?”), sulla scoperta del movente e del colpevole; il noir, invece, predilige il lato oscuro, e si concentra su quello che accade dentro i personaggi, nella loro interiorità e nella loro anima. Si può dire che il noir indaghi il lato segreto, tormentato, della realtà e delle figure che popolano il racconto.
Il giallo, per molti versi, soprattutto il giallo classico, a enigma, è consolatorio, perché il colpevole viene regolarmente scoperto e condannato; cosa che, nella realtà, non sempre accade. Il noir mi piace perché fa riflettere: e, come ripeto sempre, fintanto che riflettiamo, restiamo liberi.
Un famoso giallista disse che il giallo è un genere non allineato, un genere “contro”; tu, a proposito della Bambola dagli occhi di cristallo, riedizione – con molte modifiche – del tuo romanzo di quasi vent’anni fa, dici, nella Postfazione, che questo libro è stato scritto «con sdegno e furore», di fronte all’impennata di crimini e di violenze contro le donne nella Bologna dei primi anni dopo il Duemila. Questo sdegno e furore restano, ancora oggi, nella Barbara Baraldi autrice di noir?
Assolutamente sì. Direi anzi che questo genere (in senso lato, noir, thriller, e anche giallo) è, di questi tempi, il nuovo romanzo sociale, che pone l’attenzione su quello che non funziona e sui problemi della nostra società e del nostro mondo. In questo senso mi piace molto la definizione di noir come “genere non allineato”.
Per quanto riguarda lo sdegno e il furore di cui parlo nell’ultima pagina del libro, in cui mi rivolgo al lettore, purtroppo restano gli stessi di quasi vent’anni fa, perché la violenza è sempre dilagante anzi, a questo si aggiunge il fatto che i social amplificano e danno rilievo a tutti gli avvenimenti e comportamenti negativi, posto che facciano scalpore: per cui allo sdegno si somma una grande amarezza nel vedere che sono passati decenni, ma nulla è cambiato.
Tu sei anche la curatrice editoriale di una testata mitica, “Dylan Dog”: di che cosa si occupa un curatore editoriale? In che cosa consiste il tuo ruolo?
Come curatrice editoriale mi piace dire che mi dedico alla “cura”, in tutte le sue forme, dei vari albi della testata, dall’ideazione alla pubblicazione. Quindi, entro in azione fin dall’arrivo dei soggetti, ovvero delle proposte delle storie da parte degli autori: ne valuto i punti di forza e le debolezze, discutendone con loro e suggerendo come irrobustire e rendere più affascinante la trama, eliminando i punti problematici.
Una volta che il soggetto è promosso, l’autore può iniziare con la sceneggiatura e io comincio a valutare, a seconda delle caratteristiche della storia, quale possa essere il disegnatore più adatto cui affidarla per metterne in rilievo gli aspetti salienti, sulla base per esempio dell’uso delle ombre più o meno marcato, dell’attenzione all’ambientazione o alla “recitazione” dei personaggi, ma soprattutto delle emozioni che si vogliono trasmettere.
Il curatore, inoltre, segue tutte le fasi dell’editing e gli aspetti redazionali, scrive l’editoriale, si occupa delle sinossi per presentare l’albo ogni mese, propone il titolo, e si occupa di fornire ai copertinisti gli spunti per creare l’immagine che possa sintetizzare, in un unico colpo d’occhio, la storia e la sua atmosfera ai lettori.
C’è una storia di “Dylan Dog” cui sei particolarmente legata?
Io mi sono innamorata pazzamente di Memorie dall’invisibile (numero 19 della serie regolare, ndi), e ancora oggi questa storia, ogni volta che la rileggo, mi fa commuovere e mi parla: mi parla del sentirsi non visti, del senso di esclusione, di quando ci sembra quasi di non esistere, rispetto a un mondo che a volte appare così distante da noi. La amo molto non solo per il tono struggente della storia, ma anche per l’orrore che la permea, creando un’atmosfera da cui non riesci a riemergere (neanche quando chiudi l’ultima pagina) e per l’uso sapiente delle didascalie, molto letterario, quasi filosofico, direi, che sconvolge il lettore e lo spinge a guardare dentro sé stesso, e dentro l’orrore della solitudine.
Che tipo di bambina sei stata e su quali letture ti sei formata?
Sono stata una bambina molto introversa. Soffrivo di timidezza cronica e non riuscivo a esprimermi: era come se avessi un mondo che mi esplodeva dentro, senza però riuscire a condividerlo. Quindi, i miei amici erano all’interno delle storie che leggevo, e in cui mi immergevo totalmente. Fin da piccola avevo l’abitudine di andare in biblioteca e ricordo che, anche se di solito il numero di libri che si potevano prendere in prestito era tre, me ne prestavano quattro, perché le bibliotecarie sapevano che leggevo velocemente e li avrei terminati tutti e quattro in una settimana.
Quando ero ancora molto giovane ho letto Edgar Allan Poe; poi è arrivato anche Stephen King, ma grazie a mia madre, che leggeva E. Lee Masters, avevo già scoperto l’Antologia di Spoon River. Ho sempre letto molti saggi e biografie, perché volevo approfondire e conoscere le vite delle persone che stimavo. Posso dire di aver letto di tutto, senza distinzioni di genere, il che per me è molto importante; per cui consiglio a mia volta di leggere tanto, toccando tanti generi diversi perché ogni scrittore, prima, è stato un grande lettore, un lettore onnivoro e curioso.
Ringraziamo Barbara Baraldi e aspettiamo di leggerla presto, con un nuovo episodio della serie della profiler Aurora, o con altre avventure, che ci facciano rabbrividire, e anche riflettere.