Sul muro dell’antica locanda dell’Unione, nella piazzetta Gregorio da Rimini detta “delle poveracce” – le vongole qui vendute a due passi dai banchi della Pescheria del Buonamici che si affaccia sulla piazza dell’Arengo della Rimini medievale – una lapide del 1962 ricorda che vi abitò studente Pascoli dal 1871 al 1872. In realtà Giovanni vi aveva passato una sola notte nel settembre 1877, così povero da lasciare in pegno un po’ di biancheria, sicché l’albergatore si rivolse a Domenico Francolini, amico di Pascoli, già mazziniano e ora mite anarchico, perché pagasse il conto (che non fu saldato).
In realtà, a quattro anni dall’assassinio del padre Ruggero, perpetrato la sera del 10 agosto 1867, la brigata degli orfani capeggiata dal diciannovenne Giacomo era sbarcata in via San Simone, ora Serpieri, sotto la protezione dello zio Alessandro Morri, segretario comunale di Rimini, che aveva sposato Luigia Vincenzi, sorella di Caterina, la madre di Zvanî, scomparsa un anno dopo il marito.
Come altre città della Romagna soggetta allo Stato pontificio, che nutrivano un rapporto di odio-amore per la Chiesa, Rimini era un covo di mazziniani, socialisti, anarchici. Alcuni di essi erano alunni del liceo frequentato da Pascoli nel palazzo della Biblioteca Gambalunga, retto dall’antichista Luigi Tonini, autore della Storia di Rimini, e dopo di lui dal figlio Carlo, che insegnava greco e latino a Pascoli.
Gli storici riminesi hanno ricostruito le vicende dopo il passaggio napoleonico: la profonda crisi – scomparsa delle antiche famiglie, miseria – la nascita dell’industria dei Bagni di mare, le violenze settarie che accompagnarono l’unità italiana, e tra 1847 e 1864 videro ben dodici accoltellamenti coperti da omertà, delitti “politici” dove tutto si mescolava, e spesso erano anche vendette private: la loro ombra coprì l’assassinio del padre di Pascoli.
Giovane inquieto
Giovanni, iscritto a lettere nel 1873, perde nel 1875 il sussidio universitario per avere protestato contro il ministro Bonghi; sospeso dall’università continua a frequentare i “rivoluzionari” vicini ad Andrea Costa. Nel 1876 Giacomo muore. Nel 1877 anche il sussidio dei beni materni amministrato dai Torlonia è revocato. Così Pascoli si reca a Rimini da Ercole Ruffi, succeduto a Pietro Cacciaguerra – peraltro ritenuto il presunto mandante dell’omicidio del padre di Pascoli – nella guida della Torre di San Mauro, la tenuta Torlonia già diretta da Ruggero. Sono anni più che burrascosi: il 2 agosto 1874 nella villa di Ruffi a Covignano erano stati arrestati 28 dirigenti repubblicani. Ruffi licenzia Pascoli nel dialetto che traduco da quello riportato dalla sorella Mariù: «Tornate a Bologna, mettetevi a dozzina da una vecchia ricca e fatevi mantenere».
Giovanni continua a sprofondare nella “selva oscura” che avrebbe rielaborato nelle genialissime letture di Dante. Eppure, nonostante l’ira, lo smacco, mai avrebbe interrotto i rapporti con i Torlonia, né con Ruffi, né con il genero Leopoldo Tosi, che ne aveva sposato la figlia Adele nel 1872, e che nel 1876 fu associato dal suocero nella gestione della tenuta, con grande successo agricolo. Sarebbe rimasto legato per sempre da profonda nostalgia a quell’origine dove aveva sperimentato l’Eden, e da cui era stato cacciato. Il glutine del nido era un tutto, una mescolanza di amore-odio, rimpianto, desolazione, invidia, attaccamento, che avrebbe proiettato su ogni aspetto della propria vita, perfino il più intimo: nella regressione erotica pre-edipica del ventre materno.
La Romagna e la natura
Per chi come me è nata a due passi da San Mauro, da genitori del 1920, la generazione del primo dopoguerra del secolo, la stessa di Fellini, con lo stesso liceo, lo stesso impianto classico condiviso tra Romagna e Marche, Pascoli era il paesaggio, così come lo era Leopardi. Sotto l’«azzurra visïon» di San Marino, Carducci aveva pronunciato nel 1894 il Discorso sulla libertà perpetua di San Marino di cui Augusto Campana bambino – altro legame di una Romagna internazionale – assorbì la tenacia repubblicana attraverso il padre mazziniano.
Tra i libri scolastici di mio padre, il cui professore d’italiano era il figlio di Carlo Tonini, infervorato di retorica fascista, c’era la triade protetta dall’editore Zanichelli sotto le copertine simboliche di Adolfo de Carolis: Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Lì imparai a leggere, i ritmi mi s’impressero, con lo sperimentalismo di classici resi barbari e reinventati, sui quali scrisse il mio professore Anceschi, tra poetica degli oggetti e previsioni d’avanguardie.
Sulla riva del mare solitario una magia albale si diffondeva dalle dune alla collina vicina: un mondo non dissimile da quello evangelico e pascoliano. Il suono visione del “bove” di Carducci era reale. L’animale pacifico dalle corna lunate da cui ha il nome “Italia” – terra dei vituli dell’Eneide – spaventava nella nebbia il bambino in Amarcord. Alla tenuta Torlonia Tosi aveva selezionato la loro bianca razza pluripremiata. Ma tra poco Tonino Guerra avrebbe dato loro l’addio ne I bu, dalla vallata della Marecchia e Santarcangelo. Sulla collina volta all’alba sul mare, dove apprendevo la prima percezione del sacro, le storie delle genti sembravano tolte dalla bocca di Pascoli, con quelle schiere di fratelli e di sorelle orfani, poverissimi, che continuavano a rimpiangere un nido distrutto.
Troppa natura?
Rimproverarono a Pascoli di avere una passione eccessiva per il mondo degli uccelli, di riandare ossessivamente alle loro nidificazioni, come al mondo variopinto dei fiori. Si sbagliavano. Nessuno come Pascoli conosceva tanto perfettamente la nostra storia vera, e il Vangelo.
Così come erano stati gli antichi simboli delle anime, gli uccelli non solo «sono per natura le più liete creature del mondo»: esse più di tutte le altre sono il simbolo della provvidenza affidata solo al cielo, come i fiori dei campi: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né raccolgono in granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre! Non valete, voi, più di essi? […] E per il vestito, di che vi affannate? Osservate i gigli del campo, come crescono: non lavorano né filano, ma vi dico che neppure Salomone, in tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi» (Matteo 6, 26–30). Le anime trapassavano come uccelli, leggermente, senza peso, su quella terra che pareva non possedere storia, non avere peso.