Nel linguaggio comune diciamo “mi è venuta un’idea”. Da dove è venuta? Come ha fatto ad arrivare? Se uno ha mai scritto una poesia, una canzone, un teorema (più difficile) o ha dipinto qualcosa o ha anche solo trovato un modo brillante per incominciare un tema o un biglietto di auguri, ha provato e vissuto il problema dell’ispirazione, della creatività, dell’emergere dell’idea. Su questo problema, cruciale per ogni estetica, si incentra anche la poetica di Giovanni Pascoli, non a caso di difficile classificazione, divisa come sembra tra religiosità e materialismo, tra spontaneità e precisione, tra infantilismo e sofisticazione.

Da dove vengono le idee? Le ipotesi di allora, di fine Ottocento, erano non molto diverse, anche se meno articolate, di quelle di oggi: le idee vengono dallo Spirito (con la maiuscola – lo spirito della storia o lo Spirito di Dio – o con la minuscola – dalla mente o dall’anima, nel linguaggio cristiano) oppure vengono dall’esperienza della realtà, dall’esperienza delle cose, dalla materia. La prima è un’ipotesi idealista. La seconda positivista. In Italia la prima risposta, quella idealista, era rappresentata soprattutto da Benedetto Croce, che scrisse nel 1905 un duro attacco proprio a Pascoli rimproverato di ridurre a spontaneismo e infantilismo il grande compito conoscitivo della poesia1. Del resto, Pascoli apparteneva alla seconda linea, quella positivista, anche se si trattava di un positivismo un po’ speciale, che chiamerò poi “rovesciato”.

Il positivismo italiano

In che cosa consisteva allora il positivismo italiano? L’Italia era allora più di oggi un Paese marginale, appena approdato a un’unità statale, poco sentita e consapevole. I grandi movimenti culturali di allora erano soprattutto nell’area germanica, in quella francofona e in quella anglosassone. Dalla Francia era venuto il positivismo originario, quello di Auguste Comte, una teoria che ascriveva al metodo scientifico inteso come conoscenza dei fatti, del misurabile, del “come” e non del “perché”, della modalità e non delle origini o delle cause – come si diceva allora2 – ogni possibile certezza.

Si può essere certi solo di ciò che cade sotto il dominio di una metodologia logica e osservazionale e che si può ascrivere con esattezza a una serie di connessioni tra fatti3. Si escludeva così dall’ambito delle conoscenze tutto ciò che è spirituale, a partire dal fenomeno religioso, che poteva essere interessante solo sociologicamente, cioè come elemento misurabile socialmente. La scienza, con articolo determinativo, doveva sostituire il Dio in cui l’umanità tende a credere quando è primitiva o la metafisica, il sostituto moderno di Dio.

Questa visione aveva poi trovato uno sviluppo raffinato nell’evoluzionismo seguito alla pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin nel 1859, uno strumento possente, e anche propagandistico, per dire che in effetti l’essere umano non è nulla di speciale, è animale tra gli animali, non un essere dotato di spirito superiore, come voleva l’idealismo. Salvatore Tommasi, medico positivista napoletano, nella prolusione del 1866 aveva sintetizzato questa posizione in questo modo: «Signori miei, tutto, nel mondo fisico, nel mondo morale, nel mondo sociale, accade per evoluzione; e potrei con un po’ di ardire formulare questo pensiero: o evoluzione o miracolo»4.

Bologna, dove Pascoli insegnava, era una delle capitali di questo tipo di pensiero. Lì si era formata una scuola di pensiero che, seguendo il filosofo della scienza Herbert Spencer, mescolava le istanze scientiste evoluzioniste con quelle morali e politiche, pensando che la stessa evoluzione scientifica avrebbe risolto i problemi morali e politici. In questo senso, in un senso umanitario, la scuola bolognese approvava il socialismo, che lo stesso Pascoli considera ne Il fanciullino, il suo manifesto estetico, come sinonimo di “umano”5.

Questo positivismo italiano aveva avuto i suoi meriti, più nell’ambito delle ricerche scientifiche specifiche che nella filosofia, dove si era diviso in molti rivoli. Nessuno di questi, però, era riuscito a evolvere in una prospettiva compiuta di filosofia della scienza o di epistemologia. In Europa, il positivismo stesso si era presto evoluto in forme molto più sofisticate: Duhem e Poincaré, come Peirce in America, avevano presto capito che LA scienza (con determinativo e maiuscola) non esiste così come non esiste la sua certezza assoluta.

La scienza è in realtà composta da un intreccio denso di metodi logici (induzione, dedizione e abduzione), funziona soprattutto attraverso l’uso di ipotesi astratte, ha bisogno di sensibilità spirituale ed estetica e produce verità sempre approssimative e asintotiche la cui certezza è garantita soprattutto da conferme reciproche e contestuali (Duhem già parlava di olismo come, più tardi, Quine). Gli stessi “dati” sono comunque frutto di una lettura narrativa e raggiungono risultati staticamente stabili ma non assoluti.

Anche adesso spesso la fiducia nella scienza, un po’ di ritorno con la rivoluzione digitale, assume retoricamente l’esistenza di certezze scientifiche solo quando chi parla non è impegnato in essa. In un fortunato convegno del 2008, tenuto a San Marino, i due premi Nobel Charles Townes e John Mather ebbero a dire che la cosa più importante per la scoperta scientifica è l’estetica e subito dopo il dialogo fino al litigio, e solo in terzo luogo vengono le conoscenze matematiche e tecnologiche.

Nella stessa Italia già all’inizio del Novecento il matematico e filosofo Giovanni Vailati aveva introdotto lo studio del pragmatismo americano come contrapposizione matematica e scientifica al positivismo italiano, spesso ignorante degli sviluppi europei dei metodi scientifici che voleva esaltare. Vailati collaborò con il “Leonardo”, la rivista fondata dal ventunenne Giovanni Papini e dal suo amico Giuseppe Prezzolini, di un anno più vecchio. È Prezzolini che già nel 1903 scrive un significativo paragrafo intitolato “Funerali del positivismo”, nel quale afferma che il dualismo tra «quantità e qualità ci rivelerà l’opposizione fondamentale che è fra noi e il Positivismo: questo, con tutte le sue varietà e tutte le sue tendenze vicine che posa sul quanto; noi che ci opponiamo il quale»6.

In un numero successivo del “Leonardo”, in un articolo distruttivo e denigratorio sul filosofo positivista Giuseppe Sergi, Papini scrive: «Il positivismo italiano fu, fra i suoi fratelli europei, il fanciullo tardivo che assomiglia più alla specie anteriore, cioè al materialismo, che a quelle venture, cioè agli idealismi. Fu un arresto di sviluppo filosofico, il cui grande proposito era di giungere alla morale, per una via scientifica invece che per una via metafisica»7. Papini, come spesso gli accadeva, esagerava nei toni ma intuiva correttamente la sostanza, se si pensa che sul “Leonardo”, rivista di ventenni, uscivano gli scritti di Nietzsche, Kierkegaard, Peirce, James, Mach, Dewey, Bergson, Unamuno, Russell, spesso ignoti al mondo positivista che pure occupava buona parte delle cattedre universitarie8.

Più di un secolo dopo, uno dei migliori storici della filosofia italiani, Massimo Ferrari, esperto di positivismo italiano e non ostile a esso, terminava in modo non molto diverso la sua disamina: «il positivismo italiano – nell’epoca di Duhem, Mach, Poincaré, Rey, Stallo e altre figure eminenti della riflessione sulla scienza o sulla crisi del meccanicismo – non seppe mostrare alcuna significativa innovazione, arroccandosi a difesa di una concezione della conoscenza e dei suoi fondamenti psicologici che solo sporadicamente o in maniera del tutto ininfluente cercò di tener conto di quanto avveniva sulla scena europea»9.

Il positivismo rovesciato

Tutto questo Pascoli non lo sapeva e non lo poteva sapere. La sua adesione al positivismo era infatti particolare e fatta in funzione della preservazione di uno spazio creativo, sebbene rientrasse nel canone positivista e come tale venisse criticato proprio nello stesso “Leonardo” dei pragmatisti dal poeta Borgese10. Infatti, se per il positivismo l’estetica del poeta poteva essere sì quella del fanciullo non ancora evoluto, era chiaro però che si trattava di uno stadio da superare, con i suoi retaggi mitici e mistici, per arrivare alla scienza. James Sully e altri avevano proprio introdotto una teoria della ricapitolazione per la quale l’infante (e così, nella cultura dell’epoca anche i selvaggi, i popoli primitivi, e le donne) sta all’adulto come civiltà ed espressioni culturali primitive stanno alla manifestazione della scienza11.

Pascoli di fatto recupera questa teoria e sposa dunque la teoria positivista ma lo fa per il motivo contrario a quello dello scientismo. Essa infatti, paradossalmente, gli garantisce di poter conservare lo spazio della creatività pura che altre estetiche più complesse avrebbero compromesso. Sintetizzando, anche nel Pascoli come nel resto della cultura settecentesco-ottocentesca il fanciullo è l’inizio della conoscenza ed è poeta, ma in Pascoli esso permane poi nell’uomo adulto.

Non scompare come non scompaiono dalla poesia e dalla vita la meraviglia, la paura e il sogno, la religione. Il fanciullino, proprio in virtù del suo positivismo, vuole raccontare tutto ciò che vede e che lo colpisce. Solo che Pascoli non ha timore a dire che questa realtà che il fanciullino vive è anche mito, sentimento, emozione, ritmo. La realtà del fanciullino, a cui egli si applica strenuamente, diventa una realtà infinitamente più grande di quella iniziale del positivismo: il positivismo si rovescia così in una serie di connessioni spirituali e simboliche12, che teoricamente, secondo la visione positivista scientista, avrebbero dovuto rimanere escluse.

Chi aveva ragione? Croce o Pascoli?

È inevitabile qui tornare sul dibattito con Croce e con la sua estetica idealista13. Per Croce l’estetica in generale e la poesia in specie sono momenti di conoscenza del particolare, conoscenza che avviene attraverso la forma espressiva. Nell’espressione poetica si conosce il particolare. La bellezza poetica non è quella logica, che conosce l’universale, ma è sempre conoscenza. Quindi si tratta di una complessa sintesi di derivazione kantiana, in cui l’essere umano elabora un’espressione compiuta e perfetta.

L’estetica di Pascoli è il contrario: non è conoscenza perché viene prima di essa, funziona per sottrazione, per imitazione ritmica dell’esperienza, per rima e stordimento musicale. La poesia pascoliana aprirà al futuro del verso libero, della poesia ermetica, dell’ibridazione delle forme. Eppure, Croce non aveva torto. Il poeta non è uno qualunque. O meglio, è uno qualunque che però cesella la parola, il verso e l’espressione. Altrimenti tutto è poesia e quindi nulla lo è.

Né l’uno né l’altro avevano gli strumenti logici e matematici che abbiamo noi oggi. Né l’uno né l’altro potevano prevedere lo sviluppo di quelle filosofie che in Italia a stento trovavano spazio e sempre fuori dall’accademia, come il già nominato pragmatismo americano.

Uno sviluppo recente del pragmatismo americano, che chiamo filosofia del gesto, forse ci aiuta a capire la questione Croce idealista-Pascoli positivista in termini logici contemporanei per scoprire che avevano ragione entrambi perché si riferivano a momenti diversi della creazione14.

I tipi di ragionamento analitico sono tre e solo tre: abduzione, induzione e deduzione (il positivismo come ogni scientismo lavora con due). Ma sono tre anche i modi di ragionamento. Di solito ci fermiamo a quello analitico. Ma è ragionamento anche quello che avviene nei riti, negli esperimenti scientifici, e ovviamente nelle performance artistiche, inclusa la poesia. È un ragionamento che avviene mentre facciamo qualcosa, un gesto, che viene definito come “ogni azione, con un inizio e una fine, che porta (gero) un significato”15. E poi c’è un modo di ragionare che non è né sintetico né analitico, e dal quale probabilmente gli altri due nascono: è il ragionamento vago.

Il gesto poetico

Se mettiamo quanto abbiamo detto a proposito delle estetiche del primo Novecento dentro questo modello, vediamo che Croce e Pascoli sottolineavano due momenti diversi. Il momento dell’espressione è un gesto poetico, che ha effettivamente valore conoscitivo. Spesso i poeti riescono a conoscere e farci conoscere ciò che la concettualità analitica non coglie attraverso il loro gesto poetico, che agisce e patisce la realtà che si trova di fronte. Ma c’è anche un momento più segreto, che il positivismo rovesciato di Pascoli fa emergere: il momento vago della creatività che è connesso al sentire, senza riconoscerla, la voce dell’essere, del mistero. Ecco i termini che si estraggono infatti da Il fanciullino: domanda, canto, dio, dea, musica, anima, paura, sogno, stupore, curiosità, meraviglia, ritmo, danza, novità, mistero, sorriso, lacrima, povertà, inconsapevolezza, splendore, ardore, luce, fuoco, oblio, innocenza, ingenuità, rinuncia, assenso, commozione, amore.

La poesia nasce vaga e poi diventa gesto. Si tratta innanzitutto di essere stupiti, di essere attratti, essere trascinati. È una passività più che un’attività. E così è anche per la scienza vera, quando è scoperta, per l’amore vero quando è amicizia. Pascoli, beninteso, lo dice ne Il fanciullino, ha bisogno poi anche dell’elaborazione della poesia come gesto, ha bisogno di uno sviluppo più maturo di quel “mettere il nome alle cose”16 come il primo Adamo, che è proprio della poesia già del fanciullino, ma è lui stesso a dire che non è quello il punto che gli interessa. Anzi, lo sviluppo più maturo e lo studio servono solo a ritrovare l’innocenza:

Sì: la poesia, detta e scritta, è rara. Proprio rara la poesia pura. Ma c’è la poesia “applicata”. La poesia “applicata” è dei grandi poemi, dei grandi drammi, dei grandi romanzi. Ora molto ci corre che questi siano tutta poesia. Immaginate che siano un gran mare, ognuno. Nel mare sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno. Occorre anche dire che in essi poemi, drammi, romanzi, la poesia pura di rado si trova pura. Faccio un esempio. Una di queste perle, nel grande oceano perlifero che è la divina Comedia, diremo la campana della sera:

Era già l’ora che volge il disio

ai naviganti, e intenerisce il core

lo dì ch’han detto ai dolci amici addio;

e che lo nuovo peregrin d’amore

punge, se ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si muore.

In questa rappresentazione, che di più poetiche non se ne può trovare (Dante ci rappresenta l’ora in cui ridiveniamo per un momento fanciulli!), il tocco più poetico è l’ultimo. È l’ultimo; sebbene la squilla lontana che piange il giorno che muore, sia di quei tocchi che noi verseggiatori abbiamo fatti tornare a noia, a forza di ripeterli. E così quel suono di squilla può essere stinto e fioco per alcuno, assordato da tanti doppi. Ma tant’è. Orbene: il poeta ha dovuto mettere, per la necessità dell’arte, un pochino di lega nel suo oro puro. Quale? Quel “paia”.

L’ha dovuto mettere, perché egli racconta un sentimento poetico altrui, sebbene anche di sé. E allora ha detto che la squilla pare piangere, non piange veramente. A un tratto il fanciullo (qui un poco, e molto altrove, molto presso altri), il fanciullo a mezza via si riscuote, e par che si vergogni d’essere fanciullo e di parlar fanciullesco, e si corregge. “Pare, non è, intendiamoci”. Ma caro bimbo, lo sapevamo da noi, che la campana non piange, ma par che pianga: anche però il giorno par che muoia, e non muore17.

La poesia ha dunque due livelli: quello in cui nasce vaga e quello in cui si articola come gesto. Ma è nel primo livello che le cose nascono. È questo livello che la poesia contemporanea ha spesso cercato. Ed è per questo che Pascoli è naturalmente religioso, diremmo noi, è vagamente religioso. La religione sta infatti in quel mondo reale anche se non sensibile che si incontra quando si vuole rimanere fedeli all’osservazione della realtà, persino nella versione positivista. Osservando fino in fondo ciò che si vede, si accede a una realtà più profonda, meno evidente ma non meno effettiva, produttrice di cambiamenti. Riprendendo la frase del positivista Tommasi – o evoluzione o miracolo – si può dire che alla fine Pascoli risponda volendo entrambe: evoluzione e miracolo.

Note

1 B. Croce, Giovanni Pascoli. Uno studio critico, Laterza, Bari 1907.

2 C.S. Peirce, A Neglected Argument for the Reality of God. Tr. it. di G. Maddalena, Un argomento trascurato per la realtà di Dio, inScritti”, Utet, Torino 2005.

3 V. Guillin, Aspects of scientific explanation in Auguste Comte, “Riviste européenne de sciences sociales”, 54-2, 2016, 17-41.

4 M. Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento. Le lettere, Firenze 2006, p. 43.

5 G. Pascoli, Il fanciullino, Fondazione Giovanni Pascoli, Castelvecchio, p. 13.

6 “Leonardo”, 19/4/1903. Ristampa anastatica, Vallecchi, Firenze 2003.

7 “Leonardo”, marzo 1904. Ristampa anastatica, Vallecchi, Firenze 2003.

8 G. Maddalena-G. Tuzet, I pragmatisti italiani. Tra alleati e nemici, Alboversorio, Milano 2006.

9 M. Ferrari, Non solo idealismo, op. cit., 57.

10 “Leonardo”, 10/5/1903. Ristampa anastatica, Vallecchi, Firenze 2003.

11 M. Perugi, Il fanciullo e il selvaggio nella riflessione scientifica del secolo XIX e in Pascoli, in M. Castoldi-G. Lavezzi, in “Giovanni Pascoli professore”, Società editrice fiorentina, Firenze 2023.

12 C. Chiummo, Nella penombra dell’anima: il chiaroscuro della creazione poetica in Pascoli, “Rivista Pascoliana”, 31/2019.

13 B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 1907.

14 G. Maddalena, Filosofia del gesto. Un nuovo uso per pratiche antiche, Carocci, Roma 2021.

15 Ibid., 35.

16 G. Pascoli, Il fanciullino, Fondazione Giovanni Pascoli, Castelvecchio, p. 6.

17 Ivi, p. 16.

Giovanni Maddalena, professore di Filosofia teoretica presso l’Università del Molise e direttore del Vasily Grossman Study Center, analizza il concetto della nascita ed evoluzione dell’ispirazione creativa – per una poesia, una canzone, un teorema o un dipinto, dell’emergere dell’idea, snodo cruciale per ogni estetica e su cui si incentra anche la poetica di Giovanni Pascoli, non a caso di difficile classificazione, divisa come sembra tra religiosità e materialismo, tra spontaneità e precisione, tra infantilismo e sofisticazione. Pubblichiamo il seguente contributo per gentile concessione della Rassegna dei Colloqui Fiorentini diretta da Pietro Baroni.