Un orsetto di peluche e un bambino in pigiama. Tra i corridoi di un ospedale, ma anche in occasione delle tante iniziative volte a far conoscere e a promuovere le loro attività in ambito ospedaliero, potrebbe capitare di incontrare qualcuno che indossi una maglietta bianca su cui queste due immagini convivono, dando vita a qualcosa di inaspettatamente bello in un contesto associato di solito alla paura e al dolore: sono i 4.000 volontari di Fondazione ABIO Italia ETS per il Bambino in Ospedale, una costellazione di 51 associazioni che colora oltre 200 reparti pediatrici in tutta Italia, prendendosi cura dei pazienti, dai neonati agli adolescenti, e delle loro famiglie. Chiara Bianchi ne ha parlato con il dr. Giuseppe Genduso (Castellana Sicula, 1954) medico specialista in Igiene e organizzazione degli ospedali e Presidente di Fondazione ABIO.
La parola chiave di questo quaderno è “cura”. Nel contesto dell’ospedale, la prima accezione che viene in mente è quella della cura medica. ABIO nasce proprio perché a un certo punto qualcuno ha scorto altre sfumature di questo termine e ne ha riconosciuto l’importanza: può raccontarci l’inizio di questa storia e come ABIO ha declinato la parola cura?
ABIO è nata a Milano nel 1978. Erano anni in cui il bambino malato era trattato in modo esclusivo dalla struttura ospedaliera: interazione minima con la famiglia, bambino da solo, nessuna area gioco.
La nascita di ABIO si inserisce in quel flusso culturale di approfondimenti legati al benessere e alle cure in ospedale che si sviluppa nel corso degli anni Settanta in tutta Europa: la presa in carico della famiglia, la parte emozionale, le relazioni, il contesto fisico e sociale in cui la famiglia affronta la malattia di un bambino, tutto questo trova un ruolo, uno spazio, e ABIO nasce e cresce lì.
Il processo all’inizio è stato complesso, le stesse strutture erano impreparate ad affrontare questo tipo di esigenze e di cambiamenti. Si fece strada in persone particolarmente sensibili l’idea di creare una figura nuova nello spazio pediatrico, una terza parte, senza compiti clinico-terapeutici, che si potesse inserire con discrezione e disponibilità tra operatore sanitario e paziente, per favorire un clima più disteso e accogliente, per collaborare con le diverse figure ospedaliere e favorire il passaggio dalla cura al “prendersi cura”.
Questa nuova figura era appunto il “volontario” ABIO, introdotta in ospedale in area pediatrica per iniziativa del professor Zaffaroni (Primario di Chirurgia Pediatrica del Policlinico di Milano) che, con amici e parenti costituì a Milano ABIO, Associazione per il Bambino in Ospedale.
ABIO è nata con l’obiettivo di essere presente per tutti. Ha fatto dell’accoglienza, della qualità del servizio e del “prendersi cura” le sue parole chiave, e anche per questo motivo ha fissato fin dall’inizio altre due caratteristiche: essere apolitica e aconfessionale.
In questi anni abbiamo promosso e rafforzato alleanze con gli operatori della salute, abbiamo lavorato a livello nazionale e locale per raggiungere questo obiettivo, fino alla stipula di vere e proprie convenzioni con la Società Italiana di Pediatria e con la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche per lo studio continuo dell’assistenza pediatrica e la piena integrazione del lavoro del volontariato professionale nei luoghi di cura.
Quando si ha a che fare con la malattia, è naturale che tutte le energie vengano convogliate verso i pazienti. Eppure, c’è anche l’universo dei genitori e dei parenti, i quali devono farsi carico della diagnosi più o meno gravi che spesso, data la tenera età dei pazienti, sono chiamati a custodire dentro di sé, mascherando la preoccupazione. A tutto questo si aggiungono la stanchezza e i problemi logistici dovuti al dover sopperire a tutti i bisogni del bambino, ventiquattr’ore su ventiquattro, talvolta da soli e lontani da casa. Situazioni psicologicamente e organizzativamente molto provanti: ABIO è anche cura nei loro confronti, in che modo?
La formazione iniziale e permanente dei nostri volontari è proprio finalizzata a sviluppare la capacità di ascolto verso i genitori, non solo verso i bambini. Questa vicinanza, il sapersi mettere a disposizione con tatto e delicatezza, anche solo ascoltando l’adulto e restandogli accanto, è una parte importantissima del servizio, espressa al massimo quando i nostri volontari sono presenti nelle terapie intensive neonatali e neonatologie, ove il contatto con i bambini è ovviamente limitato e sono invece i genitori ad aver bisogno di presenze amichevoli capaci di creare spazi di solidarietà e serenità anche in quei contesti.
I volontari ABIO seguono neonati, bambini e adolescenti, nei contesti più diversi, dalle semplici visite di controllo alle patologie più gravi, ma sempre in un luogo, l’ospedale, che può far paura: come e quanto cambia il prendersi cura a seconda che ci si rapporti con le varie età e situazioni?
Le nostre Associazioni e la Fondazione si occupano anche di arredare sale giochi e spazi adatti alle varie età e curare, ove possibile, le decorazioni murali di questi reparti, avvalendosi di donatori generosi e di artisti che da decenni studiano il rapporto tra arte e stimolo al benessere e alla guarigione.
A seconda del contesto (pronto soccorso, degenza, neuropsichiatria…) i nostri volontari vengono costantemente aiutati a sviluppare specifiche sensibilità e strumenti adeguati.
La creatività che mettono in campo per entrare in sintonia con i bambini e gli adolescenti ricoverati spesso supera la fantasia e non cessa di sorprenderci.
La presenza dei nostri volontari, ad esempio, si è rivelata importantissima nei centri vaccinali, durante la pandemia, per rendere l’ambiente sereno e gestire le attese e i tempi di osservazione in modo divertente e rilassato.
ABIO significa anche cura nei confronti dei volontari stessi. Essere volontario è qualcosa di grande, nel senso di bello, ma anche di impegnativo. Tanti desiderano diventarlo, ma alcuni potrebbero interrogarsi sul proprio essere adatti o pronti a compiere questo passo: in che modo ABIO accompagna gli aspiranti volontari e si prende cura dei volontari stessi? Come si può diventare “portatori sani” di cura?
La formazione è un momento essenziale nel percorso del volontario ABIO: dal 1999 ABIO ritiene indispensabile preparare e orientare gli aspiranti volontari prima di inserirli nel contesto ospedaliero, ritenendo che possano svolgere efficacemente il loro compito solo se dotati di adeguate conoscenze e pienamente consapevoli del loro ruolo.
I corsi di formazione hanno l’obiettivo di trasmettere a ogni aspirante e a ogni volontario in servizio informazioni, competenze, norme di comportamento, riflessioni, che illustrino il ruolo specifico del volontario ABIO, chiariscano le scelte e le specificità del metodo e garantiscano nel tempo a livello nazionale qualità e omogeneità del servizio.
Il percorso di avvicinamento e preparazione iniziale prevede inoltre momenti dedicati alla valutazione e autovalutazione, per verificare reciprocamente la piena compatibilità tra caratteristiche e intenti di chi desidera svolgere questa attività e i tratti distintivi della figura e dei compiti del volontario ABIO. Gli incontri facilitano inoltre un processo progressivo di appartenenza al gruppo, informano su condizioni e norme igienico-sanitarie del contesto ospedaliero di riferimento e indicano condotte e precauzioni da adottare per la sicurezza propria e degli utenti.
Con la parte pratica del corso, il tirocinio in reparto, il nuovo volontario si sente parte attiva del gruppo e dell’Associazione, impara a promuovere la mission ABIO, conferma e consolida la sua scelta e la sua adesione a questo servizio e può testimoniare e contribuire in modo concreto al processo con cui il contesto ospedaliero pediatrico si prende cura dei pazienti e delle loro famiglie.
È bene sottolineare un aspetto cruciale: ogni singolo gesto generoso e solidale è bellissimo. La volontà e la capacità di impegnarsi per anni a una presenza costante e regolare accanto ai bambini in ospedale aggiunge qualcosa di prezioso e unico alla vita dei nostri volontari e delle nostre comunità.
Una casa editrice è una culla di storie. E, da editori, non possiamo non chiederLe quanta cura ci sia nelle storie. Il gioco, che è così proprio dei bambini e che i volontari incoraggiano e condividono con loro, già di per sé spesso racchiude storie, e ogni volontario è poi libero di esprimersi donando qualcosa che senta suo e possa far nascere un sorriso, come la passione per le fiabe o per il teatro. Negli anni, ABIO ha anche dato vita a progetti editoriali insieme a Carthusia, Giunti Editore e Librì Progetti Educativi. Quanto e in che modo le storie possono essere fonte di cura?
In ospedale si vive immersi in un flusso di sentimenti ed emozioni reali. Spesso un libro può essere àncora e guida per aiutare i bambini, gli adolescenti e le famiglie ad affrontare le paure, le fragilità e gli imprevisti che anche un evento come il ricovero può portare con sé. Può essere uno straordinario strumento per condividerle e trovare energie e risorse per superarle.
Il percorso di crescita di fronte alle difficoltà di salute è possibile: ognuno a suo modo può riconoscerlo e sperimentarlo attraverso il gioco e le sue evoluzioni – come la narrazione condivisa e la rappresentazione – che i volontari ABIO organizzano e propongono.
Un’ultima domanda per Lei: alla luce del Suo percorso in ABIO, come definirebbe la parola “cura”? Porta nel cuore un episodio in particolare che associa a questa Sua definizione?
Credo che la testimonianza più efficace di questo lavoro silenzioso, difficile e continuo dei nostri volontari sia la frase che spessissimo i bambini dicono ai loro genitori quando vengono dimessi da un reparto dove c’è attenzione a come si accolgono e si curano loro e le loro famiglie (meglio se con la presenza dei nostri volontari!): «Non voglio andare a casa, qui mi diverto troppo!!!»; il ricovero, la paura, il dolore sono quasi dimenticati: resta il bel ricordo di incontri sereni e divertenti.