Luca Saltini (Milano, 1974) si è laureato in filosofia all’Università Cattolica di Milano e ha conseguito un dottorato di ricerca in storia all’Università di Ginevra. Dopo alcuni anni di ricerca a livello universitario, è diventato responsabile delle attività culturali e dei fondi antichi della Biblioteca Cantonale di Lugano. Ha scritto molti racconti per i bambini, pubblicati in riviste e volumi, alcuni dei quali sono diventati progetti scolastici. È anche autore di romanzi, tra cui: Tattoo (Fernandel, 2012), Il demolitore di camper (Fernandel, 2013) – da cui è stato tratto l’omino film con Milena Vucotic – Periferie (Adv, 2015) e Una piccola fedeltà (Giunti, 2018).
- Leggendo la sua biografia, si delinea un percorso dalla ricerca universitaria alla narrativa. Cosa l’ha spinta a orientarsi sempre più verso questo aspetto? In effetti mi rendo conto che guardando la mia biografia la sensazione che si ha è che io sia arrivato alla narrativa tardi. In realtà, la sola scrittura che ho sempre voluto praticare e su cui ho lavorato è stata invece proprio la narrativa, peraltro, nella misura del romanzo. Non saprei dire perché, ma sin da piccolo sentivo il desiderio di scrivere romanzi e pensavo che avrei voluto fare quello nella vita. Il primo che ho provato a scrivere era un fantasy e facevo, credo, la seconda media. Non sono riuscito ad andare oltre il primo capitolo, anche se l’idea di scrivere mi emozionava molto. Nonostante questa passione, mi dicevo però che non avrei mai potuto vivere di libri. Forse sono stato troppo rinunciatario, ma volevo raggiungere una sicurezza economica, anche perché desideravo una famiglia. Per questo ho cercato di fare un percorso che mi aprisse delle possibilità lavorative. Ho cominciato a fare ricerca storica perché mi piaceva, ma anche perché era un modo di scrivere a pagamento. Non era quello che volevo fare davvero, ma mi permetteva di avvicinarmi all’obiettivo. La scrittura per bambini è arrivata poco dopo, per caso. Nell’ambito di alcuni progetti che avevo avviato con le scuole, ho provato a scrivere racconti e romanzi per ragazzi che poi servivano da base per il lavoro in classe. È stato un altro passo avanti. Nella ricerca conta il lavoro d’archivio, di documentazione e la scrittura è funzionale a spiegare quanto si è scoperto, mentre nella narrativa la scrittura è l’aspetto più importante e diventa essa stessa oggetto di ricerca. Quindi posso dire che la sola scrittura che mi ha sempre abitato e che ho sempre praticato era la narrativa, mentre le altre sono servite a crearmi lo spazio per praticarla.
- In che senso la scrittura è essa stessa oggetto di ricerca? Nella narrativa, la scrittura è la storia. È la scrittura che crea il mondo del romanzo, dà il ritmo, l’immaginario, il punto di vista. Se la scrittura è banale, il libro è banale, anche se racconta una storia potenzialmente interessante e potente. La scrittura poi è l’elemento che dà all’autore il modo di guardare la vicenda di cui parla, che gli consente di stare davanti alle situazioni che racconta e di entrare dentro sé stesso per pescare significati e visioni che altrimenti non riuscirebbe a cavare fuori. Tutto questo accende un processo per cui l’autore in qualche modo partecipa delle vicende che racconta, le vive su sé stesso e ne fa esperienza. Se la scrittura è abbastanza forte, quell’emozione resta nella pagina e passa poi al lettore, il quale, a sua volta, fa esperienza di vita. Quando terminiamo un libro e ci sentiamo vuoti, vuol dire che non abbiamo letto un buon libro. Se invece ci restano addosso immagini o sensazioni abbiamo guadagnato qualcosa. Per raggiungere questo obiettivo conta solo la scrittura. Però, bisogna cercare di cambiarla ogni volta, perché se non si cambia modo di scrivere, si racconta sempre la stessa storia, anche se la vicenda cambia. È necessario cercare sempre di trovare in noi una voce nuova. Quando la trovo, anche se non so ancora quale storia racconterò e non ho scritto ancora una riga, sono già molto avanti col libro che scriverò.
- Il suo ultimo romanzo è Scrivimi dal confine (Piemme, Milano 2023). È una vicenda appassionante, che racconta la vita di una donna, Aimée. La protagonista da bambina deve lasciare Parigi, la città dove è nata, per seguire il padre in Valsolda, una valle isolata e selvaggia, che si affaccia sul lago di Lugano. L’uomo è originario di questi luoghi e la conduce qui perché deve partire per la guerra. La vicenda infatti comincia nel 1915. Il libro però si sviluppa su un secondo piano temporale, il 1960, dove troviamo Aimée, oramai donna di cinquant’anni, madre di famiglia, che affronta un viaggio incomprensibile all’apparenza e molto pericoloso nella Germania Est. Le due linee narrative si intrecciano per tutto il romanzo, dipanando via via la vicenda che si chiarisce soltanto negli ultimi capitoli e si chiude con una rivelazione finale che dà senso a tutto il racconto. È una storia vera? No, si tratta di una storia di fantasia. Ci sono degli echi di vicende che ho sentito raccontare da persone incontrate negli anni, ma non sono nemmeno frammenti che poi sono entrati nella storia. Si tratta più che altro di suggestioni che mi hanno aiutato a costruire un immaginario intorno a questa vicenda che in qualche modo intuivo, ma non conoscevo. Io non sono capace di fare uno schema di quello che intendo scrivere, di pensare prima la trama. Parto da un’immagine e poi seguo i personaggi e pian piano il libro si sviluppa da solo. Non so mai bene che storia sto raccontando, ma, a un certo punto, tutto diventa chiaro e allora so come finirà la storia.
- Ci sono tanti spazi e tanti luoghi nel romanzo come Milano, le montagne, le valli. Sono i suoi luoghi del cuore? Certamente sono ambienti che hanno un fortissimo impatto emotivo su di me e sono capaci di generare un grande immaginario. Milano, la Valsolda, anche un po’ Parigi, sono luoghi che conosco, ma quando ne scrivo mi allontano dall’esattezza dei luoghi per abbandonarmi alla fantasia. Se per esempio devo parlare di Milano, non immagino una strada che conosco, ma scelgo sempre un ambiente neutro, dove posso creare io lo spazio. Ne risulta un ambiente assolutamente verosimile, perché contiene l’esperienza che ho della città, le sensazioni, gli odori, i ricordi, ma trasfigurati in un luogo immaginario, che mi consente di tenere la distanza necessaria per raccontare la mia storia. Anche la Valsolda, che è vicinissima a casa mia e ci vado spesso, non è la valle come geograficamente si presenta. Il paese dove abita Aimée non esiste, ma contiene tutte le caratteristiche dei vari paesi della Valsolda e, se qualcuno legge il libro conoscendo i posti, non si sente ingannato, perché trova comunque l’ambiente che gli è noto, anche se è ricreato per questo romanzo.
- Il nome della protagonista, Aimée, è particolare. Perché lo ha scelto? Lei ha colto certamente un elemento importante. Aimée significa amata. La sua storia è quella di una bambina che si trova a dover lasciare la sua casa per andare in un mondo lontano e diversissimo da quello che conosce e, quando ci arriva, si trova per una serie di ragioni da sola, perdendo così lo sguardo affettuoso e vicino di suo padre e sua madre. Ora, io penso che tutti noi abbiamo bisogno di questo sguardo di amore. Quando ci sentiamo voluti bene e guardati con amore troviamo la forza di fare cose grandi. Se invece questo sguardo d’amore viene meno, rischiamo di perderci, di chiuderci in noi e di arrenderci. È quello che succede ad Aimée. Tuttavia, nella sua vicenda, ha la fortuna di incontrare persone che sanno restituirle questo sguardo e le consentono quindi via via di aprirsi alla vita, di superare le sue difficoltà e trovare una strada che la renderà felice.
- Ci può parlare di alcuni di questi personaggi? Il primo che Aimée incontra è Ivano, un contadino della Valsolda che è un po’ come la sua valle, selvaggio, rude, ma pieno di bellezza. È un uomo abituato all’isolamento, vive solo in cima a un’alpe, e si trova davanti questa bambina. Non sa forse nemmeno come si parla con una bambina, ma racchiude in sé una grande dolcezza che traspare dai suoi gesti, dal modo in cui la ascolta e le sta vicino. Lei impara che, davanti a qualsiasi cosa brutta le capiti, potrà correre da lui e abbracciarlo. Lui sarà sempre pronto ad accoglierla, solido come le sue montagne. Questo dà ad Aimée una grande sicurezza e la forza di superare tante difficoltà. Quando poi cresce, e si reca a Milano per lavorare presso una famiglia alto borghese, instaura un rapporto del tutto particolare con la sua padrona. Si tratta di una donna molto rigida e molto colta, che vede in lei una grande ricchezza umana. Decide quindi di farsene carico, comincia a istruire Aimée, a farla studiare e a leggere con lei molti libri. Il loro rapporto vive di libri, si raccontano le storie, ne parlano come se fossero di personaggi veri e quell’intimità fa sbocciare Aimée come donna. Qui, mi è un po’ venuto fuori quanto racconta Canetti nel primo volume dell’autobiografia, La lingua salvata, in cui parla appunto delle serate che trascorreva con la madre a parlare dei personaggi delle opere teatrali che leggevano insieme e dice che quelle chiacchierate hanno creato in lui un materiale così profondo che sono quelle a determinare cosa lo respinge o attira in una persona. Dice proprio che quelle storie sono «la vera vita segreta del suo spirito». Il terzo personaggio è Giovanni, il marito di Aimée, che le sta accanto con grande dolcezza, ascoltandola, mettendosi sempre in gioco per aiutarla a raggiungere ciò che è importante. È lui a darle la forza di compiere il viaggio vero la Germania Est.
- Nel libro ci sono molti altri personaggi, alcuni negativi, altri positivi. Ci sono anche nemici che si rivelano amici, altri che sono capaci di gesti imprevedibili. Come costruisce questi personaggi? Anche per i personaggi mi succede come per la vicenda, cioè li scopro scrivendo. In generale mi accorgo che non riesco a immaginare un personaggio completamente cattivo o completamente buono. Penso che succeda così anche nella vita. Tutti noi cerchiamo di essere buoni, di fare del bene, ma spesso non ci riusciamo e finiamo magari per fare danni. Spesso l’egoismo o la superficialità ci portano ad agire male. Nonostante questo però, altrettanto spesso riusciamo a fare cose belle e generiamo un po’ di luce. Così penso anche i miei personaggi, persino i peggiori. Quelli sono i più fragili, quelli che hanno avuto meno forza di guardare il mondo, ma possono comunque trovare il modo di compiere un gesto che, se non è di assoluto riscatto, ha comunque un grandissimo significato. Penso davvero che il mondo sia colorato soltanto in gradazioni di grigio. Se vediamo soltanto nero o bianco, è probabile che noi stessi stiamo assumendo una tinta che tende allo scuro!
- Nel suo libro colpisce molto la capacità di descrivere le situazioni, tanto che si ha davvero la sensazione di trovarsi nella scena che descrive. Grazie. È un bel complimento. Noi conosciamo attraverso i sensi e capiamo cosa pensano le altre persone dai gesti che compiono, dalle parole che dicono, dalle loro espressioni. Allo stesso modo deve funzionare il racconto. Per dare emozione vera al lettore è necessario stimolare i suoi sensi, mostrargli le situazioni, accompagnarlo nei momenti che si raccontano, perché possa starci dentro. Non si può dare emozione facendo un’affermazione tipo: «È morta la mamma del tale e quindi bisogna essere tristi». Il fatto ci lascia del tutti indifferenti perché è solo una frase. Se invece noi descriviamo la scena della persona che muore, del figlio che è con lei, allora possiamo essere in qualche modo presenti e quindi vivere quell’emozione. La vive innanzitutto lo scrittore quando la racconta, il lettore stesso. Come diceva la grande scrittrice Fannery O’Connor, in narrativa non si parla di personaggi e azioni, ma con personaggi e azioni. Sono i fatti e le descrizioni a trasmettere tutti i significati in modo efficace. Se non è così, il lettore è forse informato della vicenda, ma non la vive e quindi il romanzo è inutile.
- Lei ha quattro figli. Alcuni sono già grandi, altri più piccoli. Cosa dicono del papà scrittore? Devo dire che non gli ho mai chiesto cosa pensassero a riguardo. La mia sensazione è che per loro faccia tutto parte del lavoro del papà. Esiste per me chiaramente una distinzione tra il mio lavoro come collaboratore scientifico in biblioteca – che assorbe le mie giornate – e la passione per la scrittura che deve trovare spazio in altri momenti. Loro sanno che organizzo eventi, tengo conferenze, modero incontri, curo mostre, realizzo delle pubblicazioni scientifiche e scrivo romanzi. Fa tutto parte di una sfera che non li riguarda Anche io non ero per niente interessato a quello che faceva mio padre per lavoro. Quando però esce un libro, sono sempre contenti e vogliono farlo conoscere ai loro amici. Se scrivo qualcosa per ragazzi, gli propongo di leggerlo insieme e la cosa gli piace. Crescendo, vedo che si interessano di più e cercano di capire meglio, penso soprattutto perché capiscono che ho per questa attività una grande passione. Adesso però mi ha fatto venire voglia di chiedergli meglio cosa pensino a riguardo!
- Ha qualche progetto che sta per venire alla luce? Nei primi mesi del 2024 uscirà per Giunti un romanzo per ragazzi che ha come titolo provvisorio La polvere del tempo. È una vicenda ambientata negli anni Trenta, in una cittadina dell’Oklahoma. Era il periodo della grande crisi economica, dell’emigrazione di molti contadini dal centro del paese alla California – vicenda di cui parla Steinbeck e documentata dalle fotografie di Dorothea Lange – ma è anche il periodo in cui lo sfruttamento del terreno aveva portato a vere tempeste di sabbia che si abbattevano sui paesi. In questo contesto in cui tutti partono, dove tutti faticano ad arrivare a fine mese, si trasferisce nel villaggio di Samuel, un ragazzino di dodici anni, un misterioso personaggio che pare disporre di molto denaro. Non è facile incontrarlo perché vive in maniera molto appartata, ma soprattutto, come Samuel capisce piuttosto in fretta, ha un oscuro legame con le tempeste di sabbia.