I decennali della Liberazione sono sempre stati occasione non solo di festeggiamenti, ma anche di polemiche e divisioni o comunque di una ricapitolazione critica. Ogni volta si traccia una linea retta tra il 25 aprile 1945 e l’attualità politica nazionale e se ne traggono “lezioni” nuove. In verità le ragioni di una celebrazione nel segno dell’unità nazionale secondo una lettura storicamente consolidata e condivisa della Liberazione dovrebbero essere scontate essenzialmente per tre ragioni.

In primo luogo, si deve alla Resistenza se l’Italia non è stata trattata come la Germania: la sovranità nazionale è stata rispettata. I nostri confini, nonostante la sconfitta, sono stati poco ritoccati, il capo del comando unificato delle brigate partigiane (Cvl) – il generale Cadorna – è stato il primo capo di Stato maggiore dell’Italia liberata. È grazie alla Resistenza (al suo pluralismo democratico) che l’Italia non è stata disarmata e fatta a pezzi come la Germania trovandoci con i francesi nel Nord Ovest e gli jugoslavi nel Nord Est.

In secondo luogo, è l’“Italia della Resistenza” che ha disegnato la Carta costituzionale, frutto di entusiasmo, convinzione e compromesso tra le componenti che – inizialmente unite nel giugno del 1946 e poi aspramente divise dal maggio del 1947 – l’hanno insieme scritta e approvata. Si tratta di un testo da non ritenere demagogicamente intoccabile nella stessa prima parte, ma che rappresenta l’identità di una democrazia liberale, pluralista e occidentale con forte caratterizzazione dei valori di tutela sociale.

In terzo luogo – piaccia o meno – l’“Italia della Resistenza” ha fatto sì che si sia attraversata la Guerra fredda con una tenuta e solidarietà democratica a livello istituzionale e sociale – dai vertici militari a quelli sindacali –, nonostante ripetute ondate eversive animate da quanti puntavano, da un lato, al colpo di Stato e, dall’altro, al sovvertimento rivoluzionario. L’Italia ha così retto il più lungo periodo di terrorismo e di stragi conosciuto in Occidente (salvo il caso dell’irredentismo basco e irlandese).

La criticità della memoria dell’unità nazionale

Perché quindi il rinnovarsi di polemiche e radicali contrapposizioni ogni 25 aprile? La criticità di una memoria di unità nazionale emerse già nelle prime rievocazioni a opera di chi era stato alla guida della lotta armata degli italiani contro i tedeschi e i fascisti: da un lato, c’è La Riscossa del generale Raffaele Cadorna, edito da Rizzoli nel 1948, e, dall’altro, Un popolo alla macchia, edito da Mondadori nel 1947, del comandante dei partigiani comunisti, Luigi Longo.

In sostanza, per Cadorna: a) con la vittoria su Hitler e Mussolini la lotta al fascismo è un capitolo chiuso; b) il comunismo non s’identifica con la democrazia; c) vanno difese le ragioni dell’anticomunismo democratico.

D’altra parte, per Longo: a) il fascismo è un pericolo sempre attuale; b) i comunisti sono il perno della democrazia; c) l’anticomunismo è schierarsi dalla parte dei fascisti.

Con la Guerra fredda e dopo il 18 aprile 1948 vi è da parte della maggioranza centrista un ridimensionamento del richiamo all’unità antifascista, mentre la sinistra stalinista cristallizza “la lettura frontista” della Resistenza espellendone prima liberali e monarchici insieme ai militari e infine cancellando l’esistenza di tutte le altre componenti politiche non filocomuniste (dai cattolici ai socialdemocratici).

Però, nel primo decennale del 1955, “la linea retta” conduce invece alla riedizione dell’unità nazionale. In quel momento, dopo la sconfitta del centrismo nelle elezioni del 1953, si delinea l’“apertura a sinistra”.

Il presidente della Camera, Giovanni Gronchi della sinistra democristiana, celebra in Parlamento la Liberazione con un forte richiamo all’unità antifascista e poche settimane dopo, l’11 maggio, è eletto Presidente della Repubblica con il voto dell’opposizione di sinistra.

In quegli anni matura l’ingresso dei socialisti nel governo e il richiamo all’unità antifascista diventa “ufficiale”. Nel 1964 è eletto nuovo Presidente della Repubblica il leader del Psdi, Giuseppe Saragat, dopo aver fatto un pubblico appello al voto dei comunisti nel segno dell’antifascismo e l’anno dopo, nel secondo decennale della Liberazione, la Resistenza è celebrata dal vicepresidente socialista del governo, Pietro Nenni, con solennità a Milano al Teatro alla Scala. Questa “ufficializzazione” del richiamo all’unità antifascista, che ha nel Pci come protagonista il leader della destra interna, Giorgio Amendola, suscita però anche malumore e viene definita da certa intellettualità della sinistra socialista e comunista – come Franco Fortini – “un freno”.

Sarà finalmente con il Sessantotto che salterà il “freno” e, anzi, il richiamo alla Resistenza sarà usato dal Movimento studentesco come legittimazione della lotta extraparlamentare e del ricorso alla violenza. Da parte sua, Luigi Longo, divenuto segretario del Pci, appunto alla vigilia delle elezioni politiche del Sessantotto incontra alcuni leader dei movimenti extraparlamentari che lanciano l’appello alla “scheda rossa”, cioè al voto per il Pci. È così che negli anni Settanta il richiamo alla Resistenza anche per gli storici di sinistra significa dar vita a una ricostruzione della lotta di Liberazione non come “patriottica” o “secondo Risorgimento”, ma come movimento per un radicale rinnovamento politico e sociale con ruolo irrilevante di chi non era comunista o filocomunista.

Questa “epurazione” della storia della Resistenza che ha come protagonista l’Insmli (Istituto Nazionale di Storia del Movimento di Liberazione in Italia) trova la propria “ufficializzazione” con le celebrazioni del trentennale della Liberazione del 1975. È una sorta di “presa del potere” che ha tre punti di assalto. Il primo è rappresentato dalla pubblicazione della raccolta di scritti di Luigi Longo, all’epoca presidente del Pci, con il titolo Chi ha tradito la Resistenza. È la teorizzazione del mito della “Resistenza tradita”, un tradimento che inizia con l’allontanamento dei comunisti dal governo nel 1947. La “vera” Resistenza si identifica con l’opposizione di sinistra.

In parallelo va in scena una sorta di “caccia alle streghe” sul piano storiografico. A promuoverla è sempre l’Insmli, che mette sotto accusa Renzo De Felice in particolare per il volume della sua biografia di Mussolini, Gli anni del consenso (1929-1936), apparso l’anno prima. Per l’Insmli è inaccettabile sostenere che Mussolini abbia suscitato “consenso” popolare e nell’editoriale della sua rivista, “Italia contemporanea”, definisce le tesi di De Felice «posizioni qualunquistiche» che «finiscono per diventare oggettivamente filofasciste»: egli si contrappone alla “storiografia antifascista” in quanto non marxista e, quindi, «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe». L’attacco è firmato da Claudio Pavone, Guido Quazza, Ernesto Ragionieri, Enzo Collotti insieme a Giorgio Rochat e Giovanni De Luna.

Infine, il terzo attacco che porta alla vittoria della storiografia dell’Insmli come “pensiero unico” lo si deve al giudice comunista Luciano Violante che incrimina l’ex comandante partigiano anticomunista Edgardo Sogno, uno dei principali animatori delle brigate di “autonomi” (non inquadrati in un partito) che furono il principale movimento della Resistenza in Piemonte. Violante sosteneva di poter «affermare con certezza che per il 15 agosto 1974 era stata programmata un’iniziativa diretta a sovvertire violentemente le istituzioni dello Stato e la forma di governo». Si trattava – scriveva il giudice con prosa esaltata – di

un’azione violenta, spietata e rapidissima, che non consentisse alcuna possibilità di reazione, diretta a limitare l’autonomia del Presidente della Repubblica per costringerlo a nominare un governo provvisorio, espresso dalle Forze armate, composto da tecnici e militari, avente come programma immediato lo scioglimento del Parlamento, l’instaurazione di un sindacato unico, l’istituzione di campi di concentramento.

A parte l’amenità di Giovanni Leone che va in ufficio a Ferragosto, Edgardo Sogno sarà assolto nel 1978 con formula piena («Il fatto non sussiste»). Ma l’incriminazione e l’arresto di Sogno in quel trentennale coronarono l’espulsione dei non filocomunisti dalla “vera” Resistenza.

Le reazioni di Amendola e Manconi

Chi tentò di reagire a questa celebrazione estremistica della Resistenza fu Giorgio Amendola (che già nel Sessantotto polemizzò con Longo per la sua apertura agli extraparlamentari) con un articolo su “l’Unità” il 20 luglio 1975 e nel 1976 pubblicando con Laterza Intervista sull’antifascismo (con Piero Melograni). La polemica con Longo è diretta: «Nell’autunno del 1975 è uscito un libro di Longo: Chi ha tradito la Resistenza. Titolo che non mi persuade».

Questa impostazione codificata nel trentennale inquinò la storiografia nel senso che «il mito della Resistenza tradita», scriverà Ernesto Galli della Loggia nel 1999, «è servito a gettare una spessa ombra di delegittimazione sull’insieme degli equilibri politici successivi all’evento resistenziale» e a indicare il Partito comunista come «il solo erede legittimo dei valori alla base dell’evento fondativo stesso, cioè della Resistenza»1.

Ma l’inquinamento non fu solo culturale. Luigi Manconi nel suo Terroristi italiani scrive:

Tutta la polemica sulla Resistenza tradita e sulla Resistenza rossa da parte della sinistra estrema – negli anni che precedettero e accompagnarono la nascita del terrorismo – aveva come suo principale ispiratore proprio il rifiuto del carattere nazionale e interclassista della lotta antifascista. […] Non a caso l’ispirazione “resistenziale” è presente in maniera molto significativa nel sistema di motivazioni che porta alla scelta terroristica2.

Successivamente, con la caduta del comunismo, sembrò iniziare – tra il 1990 e il 1991 – una revisione critica della “vulgata” con maggior attenzione alle varie componenti della Resistenza e minor esaltazione acritica del ruolo comunista grazie anche all’apertura degli archivi sovietici.

Ma l’esplodere delle inchieste giudiziarie che colpì i partiti di governo dell’Italia repubblicana restituì il primato al comunismo e ne ripristinò la narrazione egemone. Negli anni Novanta con apposite convenzioni stipulate dal governo Prodi all’Insmli – specializzato sul 1943-1945 – fu affidata la sovrintendenza sull’insegnamento dell’intero Novecento per ricerca, didattica e formazione docenti determinando la selezione dei manuali.

Nel 1995 “la linea retta” porta infatti alla celebrazione del primato comunista. Storici come Nicola Tranfaglia certificano la “lettura frontista” della Resistenza: «Azionisti e comunisti furono le forze fondamentali che riportarono l’Italia alla democrazia». E il presidente dell’Insmli, Giorgio Rochat, quando nel 2001 rende omaggio al ruolo svolto dall’Istituto con il suo predecessore, Guido Quazza, così lo riassume:

La sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuità tra scelte moderate e nazionaliste in cui la Resistenza rappresenta un momento di rottura democratica.

A questo punto, non c’è più l’epurazione della sola Resistenza, ma dell’intera storia del Paese, in quanto il fascismo è insegnato come figlio dell’Italia liberale e padre dell’Italia repubblicana.

Le iniziative di Pertini e di Ciampi

Una contestazione e revisione di luoghi comuni di questa “lettura frontista” della Resistenza la si deve al Quirinale. Il più autorevole intervento contro la “vulgata” fu di uno dei capi della Resistenza, il socialista Sandro Pertini, “allievo” del leader del socialismo riformista Filippo Turati, divenuto nel 1978 Presidente della Repubblica.

Riguardò il ruolo dei militari come fondatori della lotta armata contro i tedeschi immediatamente dopo l’8 settembre: il caso Cefalonia, cioè la battaglia condotta tra il 15 e il 22 settembre 1943 dai soldati italiani contro i tedeschi con 9.436 caduti. La documentazione dell’eccidio era sempre stata ghettizzata. Pertini, già come presidente della Camera, volle sottolineare il carattere nazionale – non classista-frontista – della Resistenza facendo pubblicare con sua prefazione la rievocazione di Marcello Venturi Bandiera bianca a Cefalonia. Quindi nel 1982 si recò in visita ufficiale nell’isola per rendere omaggio ai caduti. Lo storico Aurelio Lepre, ancora nel 2000, a testimonianza di come la storiografia prevalente avesse messo in ombra il ruolo dei militari e in particolare Cefalonia, scriveva: «I morti di Cefalonia sono rimasti a lungo dimenticati. La loro storia è ancora da scrivere»3.

Un secondo rilevante intervento di Pertini per valorizzare i militari contro la “vulgata” resistenziale riguardò la liberazione di Milano. Un ruolo importante – solitamente trascurato nelle celebrazioni – fu svolto anche dalla Guardia di Finanza. Pertini, che aveva vissuto in prima persona la liberazione di Milano, lo conosceva: il Cln dell’Alta Italia si rivolse, infatti, alla Guardia di Finanza e con messaggio scritto da Leo Valiani (che Pertini nominò senatore a vita nel 1980) dette al comandante della Legione, colonnello Alfredo Malgeri, «l’ordine dell’insurrezione nazionale» da indirizzare «a tutti i comandi della Guardia di Finanza».

Anche Giorgio Napolitano nel 2009 al Quirinale, come capo delle Forze Armate, in occasione del 25 aprile ha tenuto a ricordare il valore dei militari italiani a fianco degli Alleati e nel dar vita alle formazioni partigiane, «un ruolo – sottolineò – in passato tenuto in ombra». Inoltre, svelenì gli animi dando un segnale di rispetto per i caduti di Salò. Non si tratta di equiparare fascisti e antifascisti, ma di rispettare quanti l’8 settembre, dopo che per anni avevano obbedito all’ordine di combattere contro gli angloamericani, non sono stati capaci di accettare il cambio di alleanza e di rovesciare il fronte. La scelta di separarsi fu spesso presa fraternamente tra i militari italiani abbandonati dai vertici dello Stato. Esemplare è il caso dell’aviazione. La maggior parte di quanti di loro aderirono alla Rsi non erano né filotedeschi né filofascisti, ma erano italiani che avevano combattuto duelli aerei e avevano visto i loro compagni morire bruciati o falciati anche se già si erano paracadutati e che dopo l’8 settembre andarono a Milano dove si alzavano in volo con pochi aerei per andare a fronteggiare le fortezze volanti che bombardavano la popolazione civile. Non erano torturatori, stupratori o persecutori di ebrei, si tratta di uomini per bene e anche coraggiosi che sono morti in combattimento o sono sopravvissuti oltraggiati e discriminati.

Altra significativa correzione di Napolitano della “vulgata” fu “l’omaggio alle vittime delle malghe di Porzus” pronunciato il 29 maggio 2012 nel Municipio di Fae­dis in ricordo della strage della Brigata Osoppo: partigiani azionisti e cattolici che non volevano sottomettersi ai militari di Tito e accettare il loro possesso dei territori italiani e che per questo nel febbraio 1945 furono assaliti e uccisi da una banda di comunisti italiani d’intesa tra il vertice del Partito e il comando del IX Corpus jugoslavo. Napolitano condannò «le radici di quell’eccidio in cui precipitarono, in un torbido groviglio, feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell’Italia». In effetti la strage dei non filocomunisti che Napolitano definì «i patrioti della leggendaria Brigata partigiana Osoppo» era stata sistematicamente cancellata dai testi della “lettura frontista” più adottati nell’insegnamento.

A sua volta, Ciampi negli anni precedenti per due volte era stato a El Alamein a celebrare i caduti e aveva reagito alla liquidazione negativa della storia nazionale rilanciando «la riscoperta dello spirito nazionale e dell’orgoglio di essere italiani», rifacendosi al pensiero liberaldemocratico da Giuseppe Mazzini a Federico Chabod. Inoltre, nei suoi interventi sulla Resistenza aveva respinto la “lettura frontista” valorizzando «l’opera di quei politici liberali e antifascisti che nei mesi più difficili salvarono la continuità delle istituzioni dello Stato» e il ruolo dei militari: dal colonnello Montezemolo (animatore della Resistenza romana, ucciso alle Fosse Ardeatine) alle brigate monarchiche di Ernesto Mauri, legato a Edgardo Sogno. Inoltre, Ciampi si recò nel 2001 a Cefalonia dichiarando che lì c’era stato «il primo atto della Resistenza, l’atto fondativo della Resistenza». L’iniziativa del Quirinale sollevò le critiche dello storico “antifascista” Gian Enrico Rusconi, che definì quell’omaggio «un’esagerazione»4.

Oggi la “lettura frontista” della Resistenza teorizzata dall’Insmli è ancora prevalente nelle aule scolastiche e universitarie, ma in modo meno aggressivo. La triade di Longo 1947 è insegnata un po’ più sfumata: a) con un governo non di sinistra in Italia la democrazia è “oggettivamente” in pericolo; b) Gramsci, Togliatti e Berlinguer sono “oggettivamente” i migliori leader della democrazia italiana; c) essere anticomunisti significa non essere “oggettivi”.

 

1 Aa.Vv., Miti e storia dell’Italia unita,
Il Mulino, Bologna 1999, p. 157.

2 L. Manconi, Terroristi italiani, Rizzoli, Milano 2008, pp. 59-60.

3 A. Lepre, Cefalonia, 11.700 motivi per chiedere scusa, “Corriere della sera”, 19 dicembre 2000.

4 Cfr P. Peluffo, La riscoperta della Patria, Rizzoli, Milano 2008, pp. 45 e 102-104.