A dicembre Corrado d’Elia ha esordito al Teatro Litta di Milano con il suo nuovo spettacolo Amadeus. Dopo i suoi Beethoven, Van Gogh e Steve Jobs, con il mirabolante viaggio nel mondo di W.A. Mozart, d’Elia ci porta ancora una volta di fronte a un genio straordinario. Per noi che l’abbiamo seguito nelle precedenti sue interpretazioni, l’impatto è di nuovo potente. Da questi monologhi – che poi diventano dialoghi – viene fuori una cascata avvolgente di immagini, di pensieri, di emozioni. Nasce un mondo in cui ci si trova immersi. Come ha scritto Vincenzo Sardelli sullo scorso numero di Sc: «È un aviatore, d’Elia. Pochissimi come lui sono capaci di condurre lo spettatore in uno spazio tridimensionale, semplicemente restando seduti». Amadeus è uno spettacolo di Corrado D’Elia. Testo originale di Corrado d’Elia, drammaturgia e regia Corrado d’Elia, scene e grafica Chiara Salvucci, assistente alla regia Marco Rodio, tecnico luci Francesca Brancaccio, tecnico audio Jacopo Schieda, produzione Compagnia Corrado d’Elia.
Amadeus, il fuoco dell’arte. Dialogo con Corrado d’Elia
I tuoi spettacoli, come prova anche il tuo Amadeus, coinvolgono e toccano a un livello profondo.
Sì, credo che la capacità dell’arte, e quindi anche del teatro, sia proprio quella di rivelare, di trasmettere una passione, di arrivare al cuore. E quando questo avviene, non si può che essere toccati nel profondo. È come un innamoramento. Se una corda del cuore viene toccata, suona. Non può non suonare o suonare piano. Poi la passione non è univoca, il cuore non è dotato di una sola nota: esiste piuttosto una sorta di pentagramma delle passioni. Il mio lavoro sta nel costruire, nello scrivere una partitura con queste note.
L’arte così intesa non obbedisce a un principio legato esclusivamente a una forma, non è ricerca di una bellezza puramente formale, esteriore. Credo piuttosto che il compito dell’arte sia quello di raccontare emozioni e di emozionare. Ogni giorno in cui non ci emozioniamo è un giorno che non ricordiamo: il mio teatro parte da questa evidenza e man mano crea ricordi. È questo il motivo per cui chiamo i miei lavori “album”: ognuno di essi è come una cartolina, come una foto che rimane nella memoria, che ricorda e riporta nel presente un’emozione.
Il tuo ultimo album si intitola Amadeus: entrando in sala però ci si ritrova a sorpresa di fronte a Salieri.
Ho pensato molto a questo… quando ho incominciato a scrivere il testo, era Mozart stesso che si raccontava. Era l’opzione più immediata ma ho dovuto riconoscere che in quella prima forma l’opera non aveva un impatto drammaturgico forte. Leggendo e studiando tutto quanto mi ha introdotto a Mozart ho scoperto che Salieri mi era necessario.
Da dove viene fuori Salieri?
In origine c’è Puškin: lui è il primo a creare intorno a Mozart il mito di Salieri, il suo contraltare, colui che lo invidia e alla fine lo uccide, un falso storico peraltro. Nel 1830 infatti Puškin scrive un racconto breve, Mozart e Salieri: per parlare di Mozart, Puškin mette in primo piano proprio Salieri e a lui attribuisce quell’invidia – una pulsione piccola, banale, sofferta giorno dopo giorno – che lo spingerà a uccidere Mozart, avvelenandolo. Questo il racconto di Puškin, e io mi sono accorto che oggi non possiamo fare a meno di questa pietra miliare – la cultura contemporanea è costruita così.
Non per nulla quarant’anni fa un autore che si chiama Peter Shaffer ha ripreso quella stessa versione di Puškin e ne ha scritto una pièce teatrale (Amadeus, 1978) che ebbe un grandissimo successo. Nel 1984 è uscito poi il film Amadeus, tratto dall’opera di Shaffer, con la regia di Miloš Forman. Da quel momento in poi la cultura popolare è stata influenzata e travolta definitivamente da quel mito: attraverso questa lettura la gente arriva a comprendere Mozart attraverso Salieri che, nel suo lato oscuro, diventa così umano, vicino, da riuscire a raccontare cos’è lo stare di fronte a qualcosa di straordinario. Forse, in un altro secolo, avrei scritto il mio Amadeus diversamente, ma oggi come oggi non possiamo fare a meno di quel mito che ci precede.
Quindi hai accettato di entrare attraverso un varco già aperto: seguendo la tradizione sei riuscito a dire qualcosa di nuovo, di presente.
Sì, è come entrare nell’idea che la gente ha delle cose e se ce l’ha è perché le viene dal passato: nell’immaginario comune Mozart sul letto di morte dettava il suo Requiem a Salieri. Ma pensiamo anche a Shakespeare: se chiedi alla gente com’era Riccardo III? Era gobbo. E Amleto? Per Amleto si va subito a “Essere o non essere?” e forse anche a una donna che lo amava e che poi si getta in un fiume. È come un’idea sintetica delle cose che ci accompagna, anche se non si conosce davvero qual è la storia.
Per cui – per tornare a Mozart – io ho pensato di entrarci attraverso quel mito consolidato e comune che abita l’immaginario collettivo e attraverso quello ho cercato di parlare dei temi che interessano me, che raccontano di me, che dicono della mia necessità di assoluto… Le mie opere in fondo sono sempre il modo per parlare del rapporto con qualcosa di più grande: fin da quando ero ragazzino ho sentito l’esigenza di un rapporto totalizzante con l’assoluto, quasi una richiesta di rapporto.
Un rapporto non banale, non all’interno di codici convenzionali. Questa domanda grande è essenzialmente ciò che io cerco di mettere e di trasmettere nei miei album.
Hai detto che il teatro genera ricordi: nell’etimologia di “ricordo” c’è il cuore. Come lavori per arrivare a questo?
La corrispondenza con il cuore è l’unico modo per comunicare, per parlarsi. Il problema è il limite che la convenzione in cui ci muoviamo rappresenta. È lo stesso, a teatro e nella vita: esiste una convenzione che decide e governa in noi distanze, comportamenti, gesti. Definisce la nostra faccia, crea una maschera, e sulla scena la crea letteralmente.
Ora a teatro c’è la cosiddetta “quarta parete”, un elemento di confine che tecnicamente si definisce anche “intra-spettacolare”, ovvero tutto quanto sta tra attori e spettatori. Nei grandi teatri si chiama anche “golfo mistico” intendendo con esso la zona in cui è posizionata l’orchestra. Questo spazio è insieme il tramite e la separazione tra palcoscenico e platea…
Quello che io cerco di fare è di rompere questa “quarta parete” e fare in modo che il pubblico aderisca a ciò che avviene sul palcoD’El
scenico. E questo ha a che fare con una sorta di sollevamento emotivo di chi guarda e, alla fine, di condivisione tra me e il pubblico, di me con il pubblico. Può sembrare semplice, ma è un lavoro tecnico importante in cui sono coinvolti gli attori, il trucco, i costumi, la scenografia, i suoni e le luci. In questo, quello a cui tendo è sempre un contrasto, come un andare contro rispetto all’ovvio, perché credo che tutti i nostri sentimenti nascano da uno “sfregamento”.
Per esempio: se vediamo una scena d’amore e c’è in sottofondo una musica romantica non proviamo niente, anzi il risultato è stucchevole. Se invece accompagniamo una scena terribile, di distruzione con le note di What a Wonderful world immediatamente si crea quello che io definisco uno “sfregamento”, per cui il nostro animo viene mosso.
In Amadeus decisamente mosso!
Sì, lì diventa evidente. Da un lato abbiamo l’interpretazione di Salieri, con tutti gli elementi grazie ai quali siamo calati in una determinata epoca. Questo vive in evidente contrasto con la scena: una sorta di inferno sordo, anecoico, che sembrerebbe richiedere un’assenza di suono, una solitudine e in cui invece man mano sentiamo accadere il suono e una misteriosa comunione. Il rapporto con la scena è un rapporto necessario, intendendo per scena non un contesto di abbellimento, ma qualcosa in cui avviene un accordo non ovvio, inatteso. Così, a un certo punto, in questa scena entra Mozart, a cui abbiamo preparato il terreno, come in un crescendo di dissonanze.
Arriva all’improvviso, nel suo candore, nel suo essere dichiarato stupido, nel senso in cui lo intendeva Dostoevskij però. Mozart è un “idiota” che sa, e nella sua lingua semplice dice le cose che tutti desideriamo, cioè parla di ideali. E il cuore di chi guarda a quel punto è pronto a riceverle. È una questione tecnica: io parlo semplicemente, non altero la voce, non intendo rappresentare qualcuno. Ciò che avviene assomiglia piuttosto a una trasfigurazione: Mozart emerge dal fondo, è come vedere un disegno in cui appare un volto, appare una Sindone. Ed esattamente in quel punto – come attraverso una fenditura – io dico le cose che credo, che penso dell’arte.
Salieri parlando dell’opera di Mozart dice che la meraviglia “sposta il pensiero”. Cosa intendi?
Quando ci emozioniamo ci fermiamo. Davanti alla meraviglia è come se ti sciogliessi, sciogliendo parti di te che si tolgono e tu rimani nella tua essenza più pura, incantato, pieno di meraviglia. Rimani immobile, assorto in contemplazione.
E liberato…
Sì, è così, il pensiero stesso è liberato, perché incantato. La meraviglia sposta il pensiero verso qualcosa di più alto della misura solita e fa desiderare (de-sidera, ci sono dentro le stelle). Non a caso chiede silenzio: è il principio della contemplazione.
Questo cambiamento generato dalla meraviglia è uno dei segni propri dell’arte?
Il compito dell’arte è proprio quello di incantare. Non l’incantamento del prestigiatore, ma la meraviglia che la realtà desta per il fatto di esserci. Il teatro greco delle origini era proprio questo. Poi la forma è diventata troppo pesante e quindi si è attestato sulla rappresentazione e basta. Oggi addirittura si dice “non fare teatro”, nel senso di “non fare qualcosa di finto”. Mentre in realtà il teatro è la cosa più vera del mondo. È un rito originale in cui la collettività si riunisce, si ritrova in valori comuni e ne risponde personalmente. Quando si esce da teatro può accadere che ognuno guardi le cose in modo diverso.
L’arte cambia noi e il mondo, il teatro cambia il mondo. Magari lo cambia di una piccola goccia. Sola di una piccola goccia, però quella goccia c’è, esiste.
Questa è la ragione per cui prediligo un percorso poetico e per questo scrivo anche in versi, nella speranza che accada una bellezza che faccia sentire la vertigine. E se il pubblico sente la vertigine, vuol dire che ha capito che esiste un’altezza e quando esce da teatro può anche piangere. Piangere è una cosa semplice e sublime: è l’espressione materiale che qualcosa di immateriale sta accadendo in noi. È un gesto di liberazione. Quando hai una grande emozione piangi. E non accade solo per un grande dolore. Anzi un grande dolore normalmente non ti fa piangere. Ma quando senti che l’anima viene attirata verso l’alto, allora immediatamente ti sciogli, e piangi.
In un certo senso l’arte è proprio miracolosa: ti trasforma mentre le stai davanti, semplicemente. Mentre la guardi, in qualche modo ti libera.
È particolare l’immagine cristologica (plastica, iconica) che emerge alla fine di Amadeus: Mozart muore come in croce, in un perfetto gioco di luci in negativo.
Le luci da dietro mi mandano in negativo, come se davvero Mozart fosse il figlio di Dio, immortalato come un Cristo da venerare. Sì, la riuscita di questa immagine la devo a Chiara Salvucci, al suo lavoro sulle scene e sulla grafica. Chiara è l’altra parte di me, sta dietro le quinte. Tutte le sere. È stata lei a creare questa scena, l’ha concepita in una dimensione sua, proiettando queste luci che a me sembrano bellissime. Lei ha una sensibilità visiva che ormai mi è diventata necessaria. È come un accordo a quattro mani il nostro.
Questa è una dimensione che sto scoprendo, man mano. È qualcosa di nuovo, perché ho sempre inteso l’arte come qualcosa di molto privato, che si fatica a raccontare. Invece, lavorando con lei – non senza contraddizioni – trovo una completezza e una bellezza, che poi ci accompagna anche nella vita.
C’è un archetipo universale sotteso ai tuoi album?
Sì, è il rapporto tra l’uomo e Dio, raccontiamo sempre quello. In noi abitano la domanda di Dio e la ricerca di un significato; “ricerca” è una parola bellissima, perché la ricerca è ciò che muove l’arte e muove la spiritualità. Se non avessimo una domanda, una ricerca che ci anima, non ci muoveremmo.
Lo stesso principio vale, immagino, per chiunque senta una vocazione, nel senso che anche quella all’arte è una vocazione. E non è ovvio, scontato, sentire questa chiamata: così, non tutti gli attori sono artisti e non tutti i registi sono artisti, come non tutti i pittori sono artisti… si possono seguire le regole impartite dalle scuole di recitazione o quello che hanno fatto gli altri ma se tutto finisce lì e non è trapassato da una domanda del cuore o dalla tentata risposta a una vocazione a cui ci si senta chiamati, se non è tutto infiammato da questo fuoco originale allora non c’è ricerca in ciò che facciamo. E se non c’è ricerca, non c’è spiritualità né arte.
La musica di Mozart scoppia di vita, racconta di un rapporto con l’altro secondo tutti i suoi registri.
La musica di Mozart scoppia di vita sì, è meravigliosa, ha una vitalità esuberante ma racconta sempre una malinconia. Per intenderci, il suo accento è diverso dalla tensione che troviamo in Beethoven: Beethoven aveva una forza che nessun altro forse ha mai avuto. Beethoven, che vive un altro momento storico, riesce a raccontare la potenza, lo Sturm und Drang, la forza dirompente che nasce nel rapporto con la natura.
Mozart non ha quello stesso rapporto con la natura e realizza un altro tipo di unicità: mette insieme umano e divino. Dalle sue note emerge una cosa meravigliosa che nessuno aveva mai fatto prima. Certo Dio lo avevano raccontato anche Bach e Händel, ma nessuno mai era riuscito a mettere insieme le cose banali, piccole, quotidiane, proprie dell’uomo con la meravigliosa incommensurabilità di Dio.
Tra l’altro Mozart ha composto la sua musica in modo autonomo, cioè non ha voluto assoggettarsi al servizio della Chiesa – sennò sarebbe rimasto a Salisburgo dove suo padre insisteva che rimanesse – ma nemmeno al servizio dell’imperatore: a sue spese, rimane libero da questi condizionamenti di potere e sviluppa la sua dimensione originale. E riesce a farlo grazie alla sua sensibilità, genialità, acutezza e alla sua pulsione spirituale per cui attraverso la musica non solo esprime il ringraziamento a Dio ma racconta il bisogno che l’uomo ha di Dio e così apre il nostro cuore a sentire la voce di Dio.
Dove e come questa voce, questo racconto arriva a noi oggi, nella vita di tutti i giorni?
È qualcosa che può succedere. E ci sono luoghi in cui è più facile che questo avvenga. Chiese e teatri, per esempio, sono due realtà che hanno qualcosa in comune e che dovrebbero rimanere aperte per chiunque lo desideri. Le chiese dovrebbero avere le porte aperte sempre perché la gente passandoci davanti distrattamente, magari si volta, le vede e ha l’intuizione di entrarci un attimo, può sentire quasi un richiamo a entrarci.
Lo stesso vale per i teatri. Entrare in un teatro non è come entrare in un luogo qualsiasi. È come scoprire un luogo incantato, un posto che ha a che fare con i nostri sogni, che vive in una dimensione diversa rispetto a quella comune. Ed è in luoghi come questi che la voce va fatta sentire, va raccontata. Come? Non lo so… ma cerco di farlo tutti i giorni nel mio mestiere. Avendo chiaro che non è mai aggiungendo parole a parole che avviene quello che il cuore aspetta. C’è una risorsa di cui tutti siamo dotati: ognuno di noi ha dentro qualcosa che è come una calamita.
Improvvisamente, non sai dire quando, ma il momento viene, sei attirato… la calamita funziona proprio così, viene un momento che ti accorgi che sei chiamato. È come essere in gruppo e a un certo punto vedi che uno si è staccato, è chiamato a qualcosa d’altro… ed è bello riconoscersi insieme in questa chiamata. Meglio: la chiamata è sempre personale però è bello riconoscersi comunità, è una dimensione molto preziosa e il “Rallegriamoci” che ne nasce non va tanto declamato, detto, ma va raccontato in un altro modo.
E così torniamo da capo! Grazie.