È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro Collega,

quest’oggi sarò un po’ più asciutto nelle mie parole, abbi pazienza.

Sono pensieroso, perché ho scambiato quattro parole con un avvocato, il quale mi ha detto che, secondo lui, siccome tanto ormai è un’idea penetrata nella società, e siccome comunque i giudici continuerebbero a emanare sentenze che finirebbero per intasare la Consulta, tanto vale fare una legge che regolamenti l’eutanasia, anche se lui non è d’accordo con il gesto. Gli ho chiesto se, allora, non sarebbe opportuno anche regolamentare i matrimoni combinati per i minorenni, visto il cambio culturale, oppure l’uso delle droghe pesanti, visto l’altissimo consumo e la disponibilità ubiquitaria: è rimasto spiazzato, ci credi?

Abbiamo bisogno di aiutare i malati, non di approfittare della fragilità loro e delle loro famiglie: bastano poche parole e si può distruggere una persona.

Successe molti anni fa…

Era una chiamata semplice, in teoria: paziente maschio, bianco, settantuno anni, affetto da una neoplasia cerebrale avanzata, verosimilmente un glioblastoma, troppo avanzato per qualunque terapia; il malato viveva con la figlia di circa trentacinque anni e un nipotino di meno di dieci anni. Nessun genero presente. Si trattava di proporre l’inizio dell’assistenza domiciliare, perché il medico di famiglia aveva descritto una situazione molto lineare, con pochi sintomi; al nostro arrivo, invece, non era per niente così.

C’era un piccolo ingresso, ben arredato e molto pulito; a sinistra, la cucina; a destra, il soggiorno con un divano, un tavolo e un mobile con qualche pezzo di cristalleria; oltre, iniziava la zona notte. Era presente la figlia, il nipote era a scuola; il paziente era in camera da letto, un po’ soporoso, da due giorni non riusciva più ad alzarsi, a mangiare o a bere, e la figlia non sapeva più come fare per accudire il padre, nutrirlo, somministrargli i farmaci antiepilettici.

Mi sedetti e lessi la lettera di dimissione dall’ospedale; poi feci alcune domande, quelle standard, alla signora: lei rispose a mezze parole, un po’ singhiozzando. Poi mi fece lei una domanda: “Mio papà guarirà, vero?”. Il padre era l’unica figura di supporto che le era rimasta: il marito se ne era andato, lasciandola con un bimbo piccolo e il nonno li aveva accolti in casa, badando al nipote e aiutando la figlia a trovarsi un lavoro nel paese. Quell’uomo era il sostegno emotivo, fisico ed economico della famiglia; però aveva una lesione cerebrale enorme, non operabile, non trattabile in alcun modo e che aveva già causato diverse crisi epilettiche.

Guardai la signora, cercando di trovare le parole per descriverle quello che stava succedendo. Iniziai a parlare e a spiegarle con calma la situazione clinica, la impossibilità della chemioterapia e le necessità di assistenza, quando lei ruppe del tutto la barriera di delicatezza con cui cercavo di raccontare e mi disse: “Io non sono in grado, io non posso assistere un malato così. Sono sola, devo mantenermi, ho un lavoro in un negozio. Lei sta dicendo che mio padre sta morendo?”

La guardai e, con delicatezza, le confermai che purtroppo quello era il percorso. Lei rimase scioccata; si alzò in piedi e mi venne a guardare da mezzo metro di distanza. Aveva gli occhi spalancati per la paura, il viso pieno di lacrime e, in quel momento, una folata di vento entrò dalla finestra aperta della cucina, portandomi l’odore del suo sudore – un odore terribile, l’odore della paura.

Sai, io non avevo mai creduto alle infermiere anziane, quando mi dicevano che, dopo alcuni giorni di lavoro più difficile, bisognava portare i camici e le divise in lavanderia, per togliere l’odore della paura: pensavo esagerassero; invece, – come spesso capita – avevano ragione loro. Non ho mai letto dell’odore della paura, solo nei romanzi dell’Ottocento e forse in Salgari, ma questa era la vita vera, che stavo vivendo. Pensai di alzarmi per abbracciarla, ma lei si scansò con un gesto rapido, si rannicchiò su una sedia, con la faccia nascosta tra le mani e in posizione fetale, gemendo.

Mi resi conto, in quel momento, che non potevo toccarla: non importa quanto volessi aiutarla, io ero maschio e lei femmina, e “sentii” una barriera assoluta tra noi due dovuta al sesso. Lascia perdere quando ti dicono che la differenza è indotta dalla cultura e non dalla natura: non è vero e ci sono momenti in cui la vita ti dà lezioni in modo inequivoco, anche su questo. Guardai l’infermiera: anche lei aveva percepito la stessa sensazione.

Le feci un cenno con la mano e mi rispose annuendo, in silenzio – fu lei ad andare ad abbracciare la figlia, mentre io andai a parlare con il malato, a visitarlo e a proporgli il ricovero in hospice. Lo trovai sveglio, gli parlai con calma, senza forzare la comunicazione; quell’anziano comprese tutto e accettò la proposta di ricovero. Mi fece solo una domanda: “Mia figlia?”.

“C’è l’infermiera con lei.”

“Va bene, ricoveratemi. Così non do fastidio a mia figlia”.

Tornai in soggiorno; feci un altro gesto muto e l’infermiera mi sostituì accanto al paziente. Io rimasi a guardare la figlia, le parlai della visita e della accettazione della proposta di ricovero.

Silenzio.

Mi avvicinai dopo un minuto o due. Lei era rannicchiata in un angolo e si strinse contro il muro per non toccarmi, mentre continuava a piangere. Si tormentava le mani, stringendole. Io decisi di mettere la mia mano destra sotto le sue, non sopra, fino a toccarle: appena ci fu il contatto lei ebbe come un moto di paura e cominciò a tremare più forte. Non la guardai, ma continuai a guardare le sue mani e la mia. Piano piano, poco per volta, si rilassò; poi prese la mia mano e la strinse in modo spasmodico. Era tempo per la tappa successiva: poggiai la mano sinistra sulle sue, quasi facendo un guscio di protezione. Lei cedette e mi abbracciò.

Quando tornò l’infermiera, aiutai la signora a rimettersi seduta tranquilla, telefonammo in hospice e organizzammo il ricovero per l’indomani (per fortuna, il posto era disponibile).

Spero di averti chiarito un po’ il mio pensiero: avrei potuto facilmente piegare quella giovane donna a qualunque proposta di terapia o di morte, e lei mi avrebbe seguito. E il paziente anche.

Non è vero che i malati sono in fila per farsi ammazzare e che anelano tutti andare in Svizzera! È vero invece che noi siamo pochi, con poche risorse e con un’organizzazione che è davvero molto migliorabile. E c’è una corruzione strisciante e che ci strangola.

La soluzione non è la morte, ma la buona pratica clinica e l’onestà. In più, come sai, introdurre il suicidio assistito come prestazione diventerebbe una scusa per non curare più nessuno: basta far firmare delle DAT sufficientemente ambigue e confuse, lasciando i malati da soli qualche giorno a casa in preda alle crisi epilettiche – come quello di cui ti ho appena raccontato. Poi, chi rifiuterebbe di smettere di soffrire?

Grazie per la tua pazienza e per le tue continue sollecitazioni a raccontare.

Adesso vado a giocare a FIFA2020 con il nipote più grande. Devo farlo vincere, altrimenti mia figlia me ne stacca quattro.

Tuo,

Pietro Angelo Rossi

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7