È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.
Caro Collega,
il nostro dialogo a distanza continua, anche se per via informatica. Ti confesso che un po’ mi mancano le discussioni approfondite dei casi, davanti al caffè… anche se ogni tanto non eravamo d’accordo.
Proseguo, dunque, nella lunga teoria di ricordi, per aiutarti a riflettere sulle sfaccettature della vita dei nostri malati.
Prendo come spunto la tua ultima domanda, al telefono, qualche giorno fa: cosa fare, quando la richiesta di morte proviene da un familiare, soprattutto se medico? Che diritto abbiamo di costringere un paziente a un’agonia inutile? Ti rispondo, come sempre, raccontando.
Era un mercoledì sera e avevo ricevuto la chiamata di un collega, medico della mutua, noto per essere un po’ caratteriale; mi chiedeva una visita a un paziente “per calmare la figlia”, e mi specificava: “Io, comunque, sono abituato a fare da solo, ma adesso non ci riesco”.
Andai subito a cercare il malato (lo chiamerò Francesco), che viveva in una cittadina di mezza montagna. L’accesso all’appartamento era al piano terra, direttamente dalla strada provinciale. Entrando, mi trovai in una stanza un po’ buia, con una luce fioca che originava da una lampadina solitaria, in centro al soffitto: un doppino scendeva dall’alto e dava un senso di sporco e di oppressione, anche se la stanza era pulita.
In casa mi accolse, con evidente sollievo, una signora più verso i settanta che verso i sessanta, la figlia, presentandosi subito: “Sono una delle due figlie, sono medico, mio padre sta morendo, non ce la fa più, aiutalo; forse bisogna fargli un’iniezione, sai cosa intendo ….”.
Guardai la collega, mi presentai, poi andai dal paziente: era un signore molto anziano, oltre i novanta, immobile, magrissimo, con gli occhi chiusi, non responsivo agli stimoli esterni. Il respiro era superficiale, ma regolare e senza gorgoglii; non aveva segni di accumulo di liquidi, né di intenso dolore fisico, a parte alcune smorfie sul volto.
Mi avvicinai e fui colpito da un odore fortissimo e sgradevole, quasi di marcescenza; mi girai e guardai la figlia, che assentì in silenzio e cominciò a piangere. Scoprii il signor Francesco e vidi la causa: una lesione tumorale, coperta dalle lenzuola, gli usciva dal corpo a livello addominale inferiore. L’anatomia normale era irriconoscibile e io ebbi un’idea immediata: “Questo è ancora vivo, ma sta morendo e si sta decomponendo davanti ai miei occhi”. Capii la disperazione della figlia, che in quel momento fu anche la mia.
Feci un bel respiro e, come mi avevano insegnato i miei Maestri, cercai di “centrarmi sul presente”. Era stato un suggerimento molto utile, ricevuto anni prima, durante il corso di Cure Palliative: ci avevano detto che i problemi più gravi non si verificano per la complessità clinica o per l’incompetenza degli operatori, ma per la stanchezza e la mancanza di programmazione: “Quando entrate da un malato, deve esistere solo il malato, e ricordatevi di avere il percorso chiaro in mente: sofferenza fisica, sofferenza emotiva, sofferenza spirituale, problemi sociali – gli errori capitano perché, quando varcate la soglia, siete ancora distratti. Dovete pensare, prima di agire”.
Guardai Francesco, gli andai di nuovo vicino, studiai i segni di eventuale dolore fisico: volto corrugato, respiro irregolare, movimenti spontanei inconsulti; in effetti, stimai un lieve dolore, con un po’ di fatica respiratoria. Per il resto, nulla: non accumulo di liquidi, non ulcere sanguinanti; la problematica peggiore era l’odore.
Tu sai bene che, normalmente, cerchiamo di fare una terapia antibiotica, in questi casi, perché l’odore stesso è, per i malati, motivo di vergogna e di sofferenza: iniziamo un antibiotico non per guarire l’infezione, ma per controllare il sintomo. Decisi, invece, di fare qualcos’altro.
Mi allontanai dal paziente, andai dalla figlia e le dissi: “Tuo padre potrebbe avere un po’ di dolore e di dispnea; non penso molto intenso, ma mi sembra necessario fare un po’ di morfina sottocute. Non iniziamo un antibiotico, né proviamo a mettere un catetere vescicale, perché – purtroppo – non è più il momento”.
Mi guardò, smarrita; io continuai: “Il tuo papà sta morendo. Adesso. Tu hai fatto tutto benissimo e non devi fare molto altro; non servono iniezioni strane, perché non sarebbe giusto e perché non ne ha necessità: basta la buona, vecchia pratica clinica”.
“Ma come facciamo con la morfina? È introvabile, a quest’ora della sera!”.
“Non è introvabile: è nella mia borsa”. Presi le fiale necessarie, ne somministrai una sottocute e mi disposi ad attendere. Dopo circa quindici minuti il suo respiro si fece più tranquillo, il volto più rilassato.
Indicai alla collega di eseguire mezza fiala sottocute ogni sei-otto ore, poi le confermai la prognosi: le dissi che suo padre sarebbe morto a breve, entro il mattino (ecco perché non iniziai gli antibiotici) e che non stava soffrendo. Mi ringraziò e mi congedai.
Uscendo, andai in macchina e chiamai il medico di famiglia; gli descrissi il caso, lo aggiornai sulla terapia e gli dissi che non mi attendevo difficoltà cliniche, né organizzative. Ci fu un attimo di silenzio, poi un commento: “Grazie, Pietro. Io ero un ospedaliero, come te, un anestesista; mi sono licenziato e faccio il mutualista. In tutti questi anni, è la prima volta che un collega mi tratta con questo rispetto e collaborazione: grazie! Da adesso, ti cercherò molto spesso, perché mi fido di te. Buona serata.” Francesco morì il mattino dopo, tranquillo.
Torniamo all’inizio del discorso e cerchiamo di chiarirci: una richiesta di morte è un indice di sofferenza, non una manifestazione di libertà – e la sofferenza è tanto maggiore, quanto più scientificamente preparato è chi la propone. La opinione propalata dai media, secondo cui la morte è un diritto ed è richiesta dai pazienti con libertà, è – sia detto con il più assoluto rispetto per le sofferenze di chi è coinvolto in prima persona – solo questo: un’opinione, che amplifica in modo iperbolico e deformato pochi casi eccezionali, facendone la norma.
Mi dispiace, ma non è vero. Se fosse vero, dovremmo cambiare il nostro modo di assistere i malati: dovremmo affermare che il desiderio di suicidarsi non è tra i criteri per diagnosticare la depressione; dovremmo offrire il suicidio assistito a tutti, a casa, con pastiglie o fiale che si possono richiedere online, perché sarebbe una prestazione sanitaria come le altre; dovremmo rendere il suicidio medicalmente assistito disponibile nelle carceri, invece di lamentarci dell’alto tasso di suicidio che lì, tristemente, si dà. Ti ripeto, però, che tutto questo non è vero, e quindi accettare una richiesta di morte non è tutelare un diritto: è abbandonare tutti i soggetti coinvolti, sani e malati, alla disperazione. È codardìa e, temo, interesse economico da parte dei vari pensatori che lo sostengono.
Andiamo oltre: se la richiesta di anticipare la morte proviene da un collega, è frutto di una sensazione di impotenza enorme, soprattutto se il richiedente è un familiare. Il caso che ti ho descritto era emblematico: la figlia, medico, non riusciva a vedere la soluzione semplice e chiedeva una morte anticipata, perché era disperata. Il medico di famiglia si era chiuso in sé stesso, anche per la sfiducia nei confronti degli altri colleghi. La pacatezza, il buon senso e un pochino di esperienza clinica sono stati sufficienti.
Mi chiederai, ti conosco, cosa fare nelle eccezioni. Noi sappiamo, in effetti, che una piccola percentuale di pazienti rifiutano le Cure Palliative e perseguono insistentemente la morte: cosa offriamo a loro?
Ti risponderò, con piacere, nella mia prossima lettera.
Un caro saluto a te e famiglia.
Tuo, Pietro Angelo Rossi
Per approfondire
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7