È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.
Caro Collega,
come promesso, ti invio un’altra lettera, con un racconto di un altro paziente.
Francesco (lo chiameremo così) era un uomo giovane, che conobbi appena terminata la mia specializzazione. Io avevo circa trent’anni, lui ventotto. Era laureato in una disciplina scientifica e sposato da quattro anni, con un figlio di tre. Aveva sviluppato una rara forma tumorale, a partenza retroperitoneale, pochi mesi dopo la nascita del bimbo: da quel momento in poi, la sua vita era stata un alternarsi di chemioterapie e interventi chirurgici. Alla fine, la patologia si era diffusa e aveva metastasi multiple, ossee e viscerali, sia addominali che toraciche.
Era stato ricoverato in reparto per settimane, poi era stato mandato a casa il venerdì mattina, con indicazione a ricevere solo Cure Palliative. Il dolore si era riacutizzato nel fine settimana e il lunedì mattina, alle otto, l’infermiera mi chiamò chiedendomi di andare con urgenza: non c’era ancora una richiesta scritta del medico della mutua, ma era improrogabile una visita; poi mi aggiunse, a voce bassa, che avrei incontrato difficoltà, perché il paziente era molto ostile.
Trovai l’indirizzo con un po’ di fatica: abitavano in un luogo isolato, in una bella villetta bifamiliare, con un giardino ben curato. L’ingresso della casa dava su un ampio salone, con un enorme divano; in fondo, un angolo per sala da pranzo. Sulla destra, iniziava un corridoio che guidava alla zona notte.
Al mio arrivo, trovai l’infermiera stranamente silenziosa, in un angolo del soggiorno; vicino a lei c’era una donna molto giovane, pallida e piangente, in piedi; seduto sul divano, con un’espressione di rabbia che avevo visto rare volte, il paziente. Mi spiegarono che il dolore al braccio destro si era fatto insopportabile, la notte prima: i farmaci non funzionavano, in apparenza, e lui aveva passato la notte a gridare per la sofferenza fisica e per la rabbia; per cercare di attutire il dolore, si lanciava contro il muro del corridoio, colpendolo con la spalla, per causarsi un dolore più forte di quello del cancro e, per qualche momento, riposarsi. L’infermiera, giunta per il prelievo ematico mattutino, aveva visto una situazione drammatica e aveva deciso – in maniera eccellente – di somministrare subito una fiala da otto mg di un cortisonico; mi aveva poi chiamato in studio, per chiedere aiuto.
Guardai il paziente, mi presentai e gli chiesi come stesse: rispose con una volgarità. Iniziò così una difficile visita, di circa due ore, al termine della quale – oltre all’esame obiettivo – avevamo parlato della malattia, della inguaribilità, dei farmaci necessari al controllo del dolore: mi interrogò su ogni farmaco, chiedendo dettagli tecnici, che rivelavano contemporaneamente una preparazione scientifica e molto tempo dedicato a studiare. Alla fine, accettò la terapia proposta: un’infusione di morfina e anti-infiammatorio, alcune dosi di salvataggio, e la prospettiva di iniziare ad assumere anche un antiepilettico ed un antidepressivo come adiuvanti nella terapia del dolore.
Poi mi fece la domanda vera: “Come morirò?” La moglie scoppiò a piangere, per la paura, certo, ma soprattutto per la ineluttabilità delle implicazioni. Guardai il paziente, e gli chiesi se davvero lo volesse sapere.
“Sì”, fu la risposta netta.
Feci un bel respiro e gli chiesi di tirare fuori di nuovo la TAC; presi le lastre in mano (all’epoca era così, c’erano le lastre), le misi sulla finestra che dava sul giardino, illuminata, e lo chiamai vicino a me. Piano piano, con calma, gli spiegai le immagini: il torace, il cuore, la colonna vertebrale, le metastasi. Mi fece ulteriori domande e gli chiarii che le metastasi si sarebbero ingrandite, che il dolore sarebbe aumentato, forse si sarebbe paralizzato il braccio; forse, infine, per le metastasi dorsali inferiori, sarebbe rimasto paraplegico.
“Cosa vuol dire?” Gli risposi, guardandolo negli occhi, che significava essere paralizzato dalla schiena in giù.
“Cioè?”
“Non riuscirà più a camminare, non riuscirà più ad evacuare, non riuscirà più ad urinare.”
La moglie aveva finito le lacrime; lui, invece, voleva ancora combattere e mi chiese: “Cosa posso ancora fare, come terapie?” Rivedemmo la storia clinica, poi gli chiesi se avesse già fatto la radioterapia: solo per il dolore, gli spiegai, non per guarire. In effetti, non c’era stato tempo di programmarne una a scopo antalgico, vista la rapidità della progressione; ne parlammo e accettò. Feci due telefonate e il primario della Radioterapia mi promise di studiare il caso. Quattordici giorni dopo, Francesco aveva fatto la prima visita, la TAC di centratura e aveva terminato le sedute. Il dolore era molto diminuito, quasi nullo. Alla visita al domicilio, mi disse: “Dottor Rossi, io avevo dolore, Lei mi ha aiutato. Io Le ho chiesto altre terapie, Lei me le ha date. Adesso mi fido; so che morirò, ma non prendere più nessuna medicina se non me lo dice Lei”. Era una vittoria, considerata la sfiducia degli inizi.
Cominciò così una relazione quasi di amicizia, anche per l’età. Dopo alcune settimane, mi parve di scorgere un cambiamento in peggio e lo avvisai.
“Cosa mi debbo attendere?”
“Difficoltà a camminare, difficoltà ad urinare.” Era venerdì. Sabato mattina, iniziarono i sintomi agli arti inferiori. Domenica ebbe difficoltà a urinare, sino a bloccarsi la diuresi domenica sera. Lunedì mattina piangeva per il dolore; arrivai lì, mentre urlava e insultava l’infermiera. Gli guardai l’addome: il globo vescicale era visibile ad occhio nudo. Gli dissi che dovevo mettere un catetere: rifiutò, per la paura di avere ancora più dolore. Allora lo trattai con durezza e gli dissi: “La vescica è piena di pipì: il dolore deriva da quello. Se non metto il catetere, Lei morirà in maniera orribile. Aveva detto che si fidava di me: adesso vuole fidarsi?”
Era presente il suocero, che stava per mettermi le mani addosso, ma la moglie del paziente lo fermò con un gesto. Guardai il paziente, in silenzio, e lui mi disse: “Sì. Voglio fidarmi”.
Gli somministrai dieci milligrammi di morfina a bolo lento, poi 2,5 mg di midazolam: cominciò a rilassarsi. Facemmo uscire tutti, poi presi un catetere semirigido e lo posizionai: dopo un gemito inziale, l’urina cominciò a defluire. Francesco mi sorrise.
Due ore dopo, in presenza della moglie, facemmo un lungo colloquio, perché era giunto il momento di parlare della morte. Spiegai la probabilità della agitazione psico-motoria, la necessità della sedazione. Accettò tutto, e la moglie con lui. Due settimane dopo, lo sedammo: 120 mg di midazolam, 200 mg di morfina e 300 mg di clorpromazina in infusione continua giornaliera. Si addormentò sereno ed ebbe ancora il tempo di chiedere ed ottenere l’Estrema Unzione.
Non l’ho ammazzato. Non l’ho fatto soffrire. Mi sono lasciato insultare, ma poi ho vinto io; o meglio, abbiamo vinto insieme. Per questo motivo, senza giudicare i malati coinvolti nelle recenti storie giudiziarie, non credo a chi dice che il suicidio assistito è necessario per lenire “i dolori infernali dei pazienti”, perché non è vero. I malati hanno bisogno di infermieri bravi, come quella che mi chiamò quel lunedì a casa di Francesco; i malati hanno bisogno di farmaci, hanno bisogno di familiari, hanno bisogno di un medico.
Sono medico, e non ho intenzione di diventare un boia, neanche se la legge lo impone: lo voglio gridare, in silenzio, con la mia vita. Non lasciarmi gridare da solo.
Tuo,
Pietro Angelo Rossi
Per approfondire
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3