È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro Collega,

eccomi di nuovo a te con un’altra lettera. Si avvicinano le mie prime ferie natalizie senza guardie e reperibilità, e ti confesso che sono un po’ emozionato. Abbiamo parlato tu e io, al telefono, della irrazionale e proterva insistenza di molti sulla morte medicalmente assistita: che tristezza leggere articoli pieni di ambiguità e fraintendimenti! Tutti parlano di dolori terribili, ma ben pochi di loro scrivono sapendo qualcosa – la maggior parte, infatti, ripete slogan precostituiti da tazebao sessantottini.

Io, invece, ricordo…

Era metà mattina e mi chiamò per telefono un’infermiera di un paesino: sai, una di quelle che non chiamano mai e che, se chiamano, hanno bisogno in fretta. Era veramente un caso impegnativo: Francesco (nome di fantasia) aveva ottantasei anni, undici figli e un tumore del polmone. Si era sposato sedicenne, con una ragazza di quattordici anni; adesso proporrebbero loro un aborto, uno psicologo e i profilattici. All’epoca, invece, i genitori avevano pensato che i due ragazzi meritassero fiducia e avevano chiesto la licenza matrimoniale al vescovo: però, il ragazzo avrebbe dovuto mantenere la moglie, lavorando; e così aveva fatto, per sessantacinque anni. Era rimasto vedovo; in casa, con lui, le due figlie nubili.

Parcheggiai la macchina nel piazzale antistante il piccolo caseggiato del Comune e mi avviai a piedi. Sulla sinistra, partiva una stradina in salita, senza asfalto, ma con lastre di pietra a terra. Entrai e trovai un uomo anziano, in piedi, in una stanza povera, piccola, al piano terra. Aveva un paio di pantaloni di fustagno, come quelli di mio nonno, una canottiera azzurra con le bretelle ed era scalzo. Era appoggiato con le mani al tavolo e ansimava. Rimasi in silenzio a guardarlo.

Le figlie mi spiegarono che era così da tre giorni: non mangiava, beveva appena, restava in piedi di continuo. Ogni tanto, anche di fronte a me, si sedeva – per rialzarsi dopo meno di un minuto. Il dolore e la mancanza di fiato gli impedivano qualunque altra posizione: ero inorridito. Guardai l’infermiera e le feci un cenno: lei concordò, perché aspettava solo quello.

Parlai brevemente a Francesco, presentandomi e dicendogli che avrei cercato di aiutarlo: mi disse di sì, con voce flebile. Presi una fiala di morfina da dieci mg e la somministrai subito sottocute; nell’attesa dell’effetto, presi a leggere la cartella clinica. Passarono venti minuti circa e, molto lentamente, il suo viso si distese: riusciva a sedersi! Spiegai la situazione ai familiari, feci una rapida visita clinica (mi bastavano poche informazioni) e lasciammo un’infusione continua endovenosa con morfina e un antiinfiammatorio.

Il giorno dopo, Francesco stava meglio: aveva persino dormito seduto in poltrona! Gli spiegai, in termini semplici, la mia mèta: togliere il dolore e la mancanza di fiato, del tutto o quasi; accompagnarlo, ma non guarirlo. Era presente uno dei figli maschi, che mi osservava, e mi faceva – da dietro – grandi gesti per farmi capire di non dire la verità al papà, ma lui aveva già capito tutto.

Si alzò con fatica in piedi e indicò la canottiera blu che indossava: sul lato destro, dove aveva dolore e dove aveva l’infiltrazione pleurica neoplastica, aveva fissato con una spilla da balia un’immaginetta di sant’Antonio abate, con un maialino ai piedi – la stessa immaginetta che i contadini mettevano nelle stalle. Mi disse: “Non si offende, Dottore? Io chiedo aiuto anche al mio santo, perché ormai …”. Gli sorrisi e gli risposi che andava bene, perché io non sapevo fare miracoli – mi sorrise anche lui.

Tornai ancora e ormai Francesco riusciva a dormire sdraiato e a mangiare con calma. Alla fine della visita, venne a salutarmi alla porta della stanza e cercò di baciarmi le mani: io rifiutai in maniera un po’ ruvida, dicendo che non era proprio il caso. Accompagnandomi alla porta della cascina, sottovoce, il figlio che era presente mi chiese scusa, dicendo: “Sa, Dottore, mio padre è vecchio e non voleva offenderLa. Al nostro paese, ci sono due tipi di dottori: c’è quello che ti fa le ricette e non ti visita, e a quello si stringe la mano; poi c’è il dottore vero, quello che ti salva la vita, e a lui si baciano le mani. Mio padre non voleva offenderLa, ma è vecchio e ragiona ancora come se fosse in paese”.

Mi vergognai profondamente: avevo pensato di fare un gesto signorile, ma il vero signore era quel contadino e io un asino vestito a festa!

Tornai la settimana successiva e Francesco, con il suo infusore di morfina e antinfiammatorio, stava bene, anche se era debole. Mi accolse in piedi, con un sorriso; dopo la visita, di fronte alle figlie, mi chiese il permesso di andare nell’orto: capii che era una mossa tattica, ma capii anche che lui ne aveva bisogno. Gli dissi: “Va bene, signor Francesco, ma mi raccomando. Al mattino presto e al tramonto, quando il sole non scalda troppo, eh! All’ora a cui si annaffiano le piante, Lei può uscire”.

Era felice; mi si avvicinò, mi prese le mani e la baciò. Capii che non mi potevo opporre, ma anche che avevo bisogno di restare me stesso; perciò, gli dissi: “Lei mi ha salutato come fate al paese, adesso io La saluto come si usa qui”. E lo abbracciai. Si mise a piangere come un bambino, stringendomi forte.

Alla visita della settimana dopo, mi attendeva un regalo: quattro pomidoro, “i primi della stagione!”, mi disse. Accettai con gioia.

Tu sai bene, Collega, cosa vuol dire un gesto così: avevano un valore enorme – e io ero stato promosso.

Qualche tempo dopo lui peggiorò e fu necessario sedarlo per la dispnea: Francesco morì tranquillo, nella sua casa, con i figli e i nipoti attorno a lui.

Alla visita di condoglianze, il figlio più anziano mi disse: “Aveva ragione Lei, Dottore: prima dell’ultimo peggioramento, una sera, mio padre si era seduto sul divano, al posto che occupava d’abitudine, si era voltato verso mia sorella e le aveva detto che era il momento di andare dalla mamma. Mia sorella aveva protestato, ma lui aveva insistito, perché aveva capito tutto”.

E proseguì: “Dottore, grazie; se non si offende, però, speriamo di non vederLa mai più”.

Quattro pomidoro, un baciamano e una frase esecratoria: anche questo è un modo di essere pagati.

Tutto ciò mi ritorna in mente quando leggo il testo dei DDL che vogliono introdurre l’eutanasia e il suicidio assistito – mi dispiace, ma trovo solo due aggettivi per qualificarli: falsi e pretestuosi.

Ti auguro buon lavoro, domani, in hospice. E continua a lottare per evitare la follia di questi gentiluomini, per favore: siamo palliativisti, non assassini prezzolati.

Tuo,

Pietro Angelo Rossi

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6