È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro Collega,

grazie ancora per il goloso pacco di cioccolatini che mi hai mandato per i miei nipoti (ufficialmente!): come dice quella faccia tosta della mia nipote quattordicenne, “il cioccolato è il mio comfort food”.

Veniamo a noi. Ho letto il ritaglio di quotidiano che mi hai mandato e sento il dovere di scriverti ancora. Confermo che sono d’accordo che i pazienti debbano essere i protagonisti della loro malattia, ma dissento sul fatto che detto protagonismo si debba intendere in modo univoco: cioè, togliersi la vita. Il primo argomento che ci mette in difficoltà con i malati, spesso, è la verità, non la sofferenza. Ricordo ancora un professore di filosofia del liceo, poco più anziano di me, con la barba poco curata, che proclamava: “La verità non esiste!”. Non so se sia ancora vivo, ma comunque morirà pure lui, questo è certo. Ed è anche vero. Battute a parte, spesso la richiesta di morte è motivata dall’isolamento in cui i sani costringono i malati: come se uno, appena riceve una diagnosi di malattia inguaribile, automaticamente diventi un deficiente che non sa decidere da sé e di sé e, quando scopre la propria patologia, voglia davvero solo morire. Spesso invece il desiderio di anticipazione della morte è espresso dai familiari, che non ne possono più di fare un teatrino davanti agli occhi della persona cara che sta morendo. Ti racconto…

La signora Francesca (nome di fantasia) aveva 80 anni e un probabile tumore uterino. Era rimasta vedova da poche settimane, perché il marito era morto per un infarto. All’improvviso, Francesca aveva avuto alcuni episodi di sanguinamento e il suo medico aveva richiesto un’ecografia, poi una TAC: la diagnosi, sulla base delle sole immagini, era stata comunicata unicamente ai figli.

Al mio arrivo era seduta in soggiorno: una stanza poco illuminata, verosimilmente una vecchia stalla, poi riattata; c’erano un tavolo, alcune sedie, un divano (con lei da un lato) e una credenza nell’angolo, di quelle a tre piani, con le ante di legno sotto e i vetri a scorrimento sopra: il tipico mobile di mia nonna, insomma. Mi presentai e la signora disse a un ragazzetto che era lì: “Spostati, fa’ spazio al Dottore!”.

“Come volete Voi, Nonna”.

Rimasi un attimo stupito, per l’uso del “voi”, ma mi ricordai che anche la mamma di un mio amico, quando telefonava alla propria madre, diceva: “Mamma, come state?”.

Guardai la paziente con calma, le chiesi di visitarla e, al termine, proposi una terapia banale: sospendere l’aspirina, prendere il paracetamolo per il dolore addominale che mi aveva riferito e, se fossero continuati i sanguinamenti, iniziare a bere alcune fialette di un farmaco antiemorragico, per tre volte al giorno. Mi incamminai verso l’uscita e la figlia mi prese in disparte e mi disse: “Mi raccomando, Dottore, non una parola. Noi sappiamo che Lei è bravo, sappiamo che Lei dice la verità ai malati: in paese lo sanno tutti, ma la mia mamma è diversa e noi la conosciamo bene. Se sapesse la verità, sarebbe disperata, si butterebbe dal balcone”.

Trascurai di farle notare che viveva al piano terra, ma le risposi: “Signora, forse per Lei è strano, ma Le assicuro che tutte le famiglie mi fanno lo stesso discorso, ma proprio tutte”.

“Ma Lei dirà una bugia, vero? Una bugia bianca, per la mia mamma.”

“Io starò ad aspettare, Signora”. Ed uscii.

Tornai dopo circa una settimana: il dolore e il sanguinamento erano scomparsi. Francesca era seduta sul solito divano e si fece visitare con calma; nel mentre, la figlia mi faceva gesti e smorfie da dietro, per ricordarmi di non parlare del tumore alla mamma. Però, non appena sua figlia uscì dalla stanza per andare al piano di sopra, la malata mi disse: “Dottore, venite qui”. Andai da lei e mi fece mettere in ginocchio, perché era seduta su quel sofà basso e un po’ sfondato.

“Dottore, Voi siete come un figlio, per me, perché mi avete tolto il dolore. Diciteme ‘a verità: questo coso, che ho qui – e mi prese la mano, premendola sulla massa del tumore, nell’addome – è un cancro, vero? Perché sono troppo vecchia per essere incinta”. La guardai e le sorrisi, poi feci cenno di sì.

“Va bene così, vado da mio marito”. Serena, tranquilla, facendomi anche lei un breve sorriso.

Tornò al piano di sotto la figlia, per accompagnarmi alla porta e io – nel tragitto – le parlai: rimase turbata di tutto quello che era successo, perché per lei era impossibile. Mi ringraziò comunque con il volto un po’ rigido.

Visitai Francesca altre volte e lei, piano piano, peggiorò; un giorno, quando entrai dall’ingresso che dava nel cortile, la figlia mi disse: “Dottore, prima che entri: la mamma ci ha chiamate, noi figlie, ci ha parlato, poi ha chiamato il prete per l’olio santo. Ma come è possibile? Come fa mia madre ad essere così tranquilla?”. Io rimasi in silenzio, aspettando il prosieguo.

“Aveva ragione Lei, Dottore: la mamma è forte”. Annuii, senza commentare, con un sorriso.

Qualche giorno dopo, fu necessario sedare la paziente per agitazione psico-motoria: si rilassò in fretta, dopo l’inizio della infusione e si spense il giorno successivo.

Le avevo detto la verità, adattandomi ai suoi tempi; non avevo lasciato sola lei, né la figlia così impaurita; non avevo mentito; e lei non mi aveva chiesto di morire. Questo è, di solito, il percorso dei malati; e mi chiedo: perché nessuno ne parla mai, ai talk show? Perché salgono agli onori della cronaca solo gli altri?

Spero di avere chiarito il mio pensiero: non è vero che la maggior parte delle persone malate aneli disperatamente alla morte. I malati sono essere umani: anelano alla vita; sanno che la vita avrà un termine; non vogliono sofferenze inutili; non vogliono vivere e morire nel sudiciume; non vogliono restare da soli; e non vogliono essere presi in giro con menzogne.

È ora di ripetere con chiarezza che il suicidio assistito e l’eutanasia sono, in grandissima parte, la richiesta fittizia di una società di persone pseudo-sane, sole, disperate. O di ricchi pensatori che cercando di offrire, mutatis mutandis, un biglietto di sola andata per il monte Taigeto… agli altri. La gente normale vuole vivere e morire con dignità, il che non significa che vuole suicidarsi: solo che è più comodo pagare cinque euro per un suicidio assistito, piuttosto che pagare 100 euro al giorno di RSA.

Soluzioni? Facilitare la disponibilità di farmaci, formare professionisti, organizzare meglio i servizi sanitari (cioè, limitare i feudi personali di Tizio e Caio), e permettere alle famiglie di continuare ad esistere: dove ci sono molti bimbi, c’è sempre spazio per un nonno in più, a casa – costa meno al SSN e lui è molto più felice, al di là di ogni dubbio.

È ora che la politica ne prenda atto e con lei molti intellettuali, orfani di Sartre.

Tuo,

Pietro Angelo Rossi

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 8