L’apologia di Enrico Berlinguer in occasione del centenario (era nato a Sassari il 25 maggio 1922) poggia su due colonne – contrapposizione all’Urss e “Questione morale” – che hanno un loro fondamento, ma che sono state esagerate e ornate di falsificazioni. È indubbio che Berlinguer abbia portato il Pci al massimo distanziamento dal Pcus. Ma in che cosa è consistito? Nel dichiarare nel dicembre 1981: «Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune delle società, che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data di inizio nella Rivoluzione socialista di Ottobre».
Un dissenso molto in punta dei piedi: colpo di Stato con legge marziale, migliaia di arresti e un centinaio di oppositori inermi uccisi, sono definiti in modo allusivo «Ciò che è avvenuto in Polonia». Segue l’affermazione dell’«esaurimento della spinta propulsiva» rivendicando cioè il valore dell’Urss nei decenni precedenti e accennando negativamente ad «alcune società» (e non tutti i regimi a partito unico dell’Est europeo).
Quindi venne diffuso il documento della Direzione nazionale dove si registrò il dissenso di Armando Cossutta. È un testo di condanna del colpo di Stato e della posizione di appoggio espressa dall’Urss. Anche lo storico Silvio Pons, Direttore dell’Istituto Gramsci, ha rilevato criticamente: «Il ruolo internazionale esercitato dall’Urss nel decennio passato e, in particolare, il problema rappresentato dai missili sovietici erano passati sotto silenzio, mentre si continuava a riconoscere a Mosca una funzione di sostegno ai movimenti antimperialistici». Infatti, quando a gennaio si riunisce il Comitato Centrale, Berlinguer ribadisce la “scelta di campo” nel bipolarismo: «L’Unione Sovietica rappresenta un contrappeso alla forza e all’aggressività dell’imperialismo americano». «Dopo i fatti polacchi», è il commento di Emanuele Macaluso, «Berlinguer fece lo strappo, ma la rottura col mondo comunista non la volle».
La stessa esperienza dell’eurocomunismo fu certamente significativa, ma il fatto più positivo che oggi viene celebrato è l’affermazione nel novembre 1977 a Mosca sul “pluralismo”, peraltro già presente in Palmiro Togliatti. Va anche ricordato che fu fatta nel corso della celebrazione del cinquantenario della presa del potere bolscevico e in cui si registrò la fine dell’eurocomunismo, quando Berlinguer salì alla tribuna, mentre al segretario del Pc spagnolo, Santiago Carrillo, fu vietato di parlare e il segretario del Pc francese, Georges Marchais, si rifiutò di andare a Mosca. Inoltre, proprio in quelle settimane, il Pci conduceva in Italia l’opposizione alla Biennale del Dissenso con il plauso dell’ambasciatore sovietico. «Negli anni ’70», è il ricordo critico di Giorgio Napolitano, «ci sarebbe stato il tentativo dell’eurocomunismo che presto si esaurì».
Autonomia e distacco vi furono, ma pur sempre in un contesto di appartenenza al Movimento comunista internazionale, a cui Berlinguer aggiunse un giudizio di rigetto della socialdemocrazia anche “seria” (riferimento a Willy Brandt e Olaf Palme) per la “rinuncia a lottare per uscire dal capitalismo”. Giudizi positivi invece Berlinguer, nel suo viaggio del 1981 a Cuba e in Nicaragua, li dava sui regimi di Fidel Castro e del comandante Ortega che proprio nei giorni della visita del leader del Pci procedeva all’arresto di un gruppo di oppositori politici.
Tangentopoli
Anche sulla seconda “colonna” dell’apologia di Berlinguer – la “Questione morale” – occorre una ricostruzione veritiera. Il Pci di Berlinguer fu infatti pienamente partecipe del sistema delle tangenti. L’«amministrazione straordinaria», come vengono definiti nei verbali della Direzione del Pci i finanziamenti che diventano illegali con la legge del 1974, rappresenta con Berlinguer il 67,7% del bilancio del Pci. Amendola lo sottolinea irridendo: «Nel periodo in cui me ne occupavo io (fine anni Cinquanta – ndr) c’era solo un 30%». Quando scoppia lo “scandalo dei petroli” e Achille Occhetto è chiamato a dare spiegazioni in Direzione nazionale circa i soldi presi come segretario regionale siciliano, né Berlinguer né nessun altro solleva obiezioni circa quella prassi. Anche nel 1975, di fronte alle inchieste che a Parma coinvolgono il Pci, Berlinguer riunisce la segreteria nazionale e difende i dirigenti locali sotto accusa: «Siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma», aggiunge, «nel ricorrervi il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto». A sua volta Berlinguer disponeva di un “fondo nero” che nel corso della “solidarietà nazionale” raddoppia dai quattro miliardi del 1975 ai sette miliardi e novecentododici milioni del 1978 per poi salire, anche dopo il passaggio all’opposizione, agli otto miliardi e mezzo del 1979. Si ricordano questi verbali del Pci in quanto è evidente l’ipocrisia dell’apologia della “Questione morale”.
Ma quel che risulta di maggior rilievo è la fragilità politica in particolare per due aspetti. Il primo: che cosa ha fatto Berlinguer dopo aver denunciato nel 1981 lo stato di degenerazione? Nulla. Berlinguer non ha preso nessuna iniziativa legislativa, anzi ha osteggiato qualsiasi tentativo di riforma costituzionale o comunque istituzionale. In secondo luogo, di fronte alla sommessa critica di Giorgio Napolitano su un attacco che pareva generalizzato ai partiti (anche Nilde Iotti lo contestò come «un ritirarsi sul Monte Sinai»), Berlinguer reagì brutalmente: Napolitano subì un vero e proprio “processo” nella Direzione del Pci dalla mattina del 10 settembre fino alle due della notte dell’11 settembre 1981 e quindi venne da Berlinguer cacciato dalla segreteria nazionale. L’apologia di Berlinguer – tutto anti-Urss e finanza immacolata – celebra un “cavaliere inesistente”.
Gli aspetti positivi
Perché invece Enrico Berlinguer va stimato e studiato? Enrico Berlinguer è stato il “dominus” dei mutamenti della politica italiana negli anni Settanta. Divenuto leader del Pci nel 1972 con di fronte – dopo contestazione di sinistra e stragismo di destra – la riedizione del centrismo con il governo Andreotti-Malagodi, si è adoperato per creare le condizioni di un processo di spostamento a sinistra che vedesse il proprio partito determinante.
Il primo passo è stato la formulazione del “compromesso storico”. Berlinguer ebbe il coraggio di dire che in Italia l’alternativa di sinistra non esisteva: anche con il 51% era una strada da scartare. Fu una “doccia fredda”. «Nelle nostre sezioni di partito», ricorda Pietro Ingrao che osteggiò quel testo, «il dibattito fu ardente». A ciò si aggiunge il giudizio positivo sulla partecipazione alla Nato. Era il giugno 1976. «Fu», ricorda Gianni Cervetti che era nella segreteria nazionale, «un fatto dirompente. Ci fu discussione all’interno della Direzione del Partito. Alcuni accettarono obtorto collo, ma la cosa passò».
Il merito di Berlinguer fu di convertire in concreto il Pci al tentativo di dar vita a una “sinistra di governo”, a una politica che è negoziato e leggi anche “impopolari”. La stagione di “solidarietà nazionale” è stata la prova più importante del Pci, che ha contribuito alla tenuta democratica e coesione sociale di fronte a uno stato di emergenza economica e terroristica. Berlinguer parlò di “austerità” e fronteggiò le contestazioni estremistiche: dagli “autonomi” di Bologna ai violenti della Università di Roma.
In questo quadro Berlinguer è stato un punto fermo positivo. Gli si possono rimproverare certi atteggiamenti come l’aver creduto di poter “prendere in mano” – giostrandosi tra Zaccagnini e La Malfa – la Dc e l’intera politica italiana dopo il rapimento di Moro. In realtà è proprio a partire dall’autunno del 1978 che la sua politica entra in crisi, da un lato per le sconfitte elettorali e dall’altro, soprattutto, per il brusco attacco di Brežnev che lo convoca a Mosca il 9 ottobre 1978 e gli contesta di appoggiare un governo che ha legato l’Italia «alla macchina bellica americana e alla Nato». Nel momento in cui, di fronte all’accettazione del Sistema monetario europeo e installazione degli euromissili contro gli SS20 sovietici, Berlinguer getta la spugna e torna all’opposizione, per il Pci inizia il ciclo delle sconfitte nelle elezioni politiche. Berlinguer cessa di essere il “dominus”.
Mentre con Zaccagnini e La Malfa poteva sperare in un’alleanza di governo, i loro successori – De Mita e Spadolini – gli offrono solo quella che il suo collaboratore, Tonino Tatò, riferisce come “diplomazia segreta”: marciare divisi contro Craxi per colpire uniti. Ma non è uno sbocco di governo. Si tratta di un accordo sottobanco per assicurargli il primato nella sinistra italiana in un quadro però di sostanziale ghettizzazione.
Dall’inizio degli anni Ottanta assistiamo così a una agonia politica. Berlinguer è un leader incapace di avvertire e leggere i mutamenti della società italiana. Prevale in lui il cattocomunismo e cioè il vedere la modernità come decadenza. Va davanti ai cancelli della Fiat ipotizzando l’occupazione delle fabbriche e giorni dopo si trova di fronte alla “marcia dei 40.000”. Per Ingrao è una disfatta storica: «Qui si ferma la sinistra. Si chiude una fase, un’epoca, tutta una curva storica del movimento operaio».
L’“ultimo Berlinguer” esce di scena nel 1984 nel momento in cui a seguito dello scontro frontale sul decreto del governo Craxi sulla scala mobile è furente per come non lo hanno avversato Luciano Lama alla Cgil, Nilde Iotti alla presidenza della Camera e Giorgio Napolitano come presidente dei deputati. A Nilde Iotti – ricorda Alessandro Natta – chiedeva di dimettersi e, da parte sua, Giorgio Napolitano gli aveva annunciato le proprie dimissioni.