Ferdinando Scianna, classe 1943, siciliano di Bagheria, fotografo di professione, tra i più noti e prolifici in Italia. Ha lavorato per “l’Europeo” come fotoreporter, inviato speciale e corrispondente da Parigi, dove ha collaborato con varie testate, fra cui “Le Monde diplomatique” e la “Quinzaune litterarie”. Alla passione per la fotografia si è sempre affiancata quella per la scrittura, per questo ama definirsi «un fotografo che scrive». Con più di ottanta libri pubblicati, il primo, mai dimenticato, fu il controverso Feste religiose in Sicilia (Leonardo Da Vinci Editore 1964), con testi dell’amico Leonardo Sciascia, che gli valse il prestigioso “Prix Nadar”.
Sarà nella capitale francese agli inizi degli anni Ottanta che conoscerà il fotografo Henri Cartier-Bresson, grazie al quale diventerà il primo fotografo italiano a far parte dell’agenzia Magnum Photos. Quest’anno il Centro culturale di Milano espone – dal 14 novembre 2024 al 18 gennaio 2025 – in “Ferdinando Scianna. La geometria e la compassione”, sessanta tra gli scatti più rappresentativi del suo lavoro, corredati da brevi testi che, come dice lui stesso, «accompagnano la riflessione».
Incontro Scianna nel suo studio, nel cuore della vecchia Milano. La giornata è fredda e nebbiosa, eppure, nei giorni di sole, le ampie vetrate che danno sul cortile interno devono lasciar filtrare la luce riscaldando l’ambiente interno. Lui è seduto a una scrivania ricoperta di libri e ricordi, sui muri attorno si estendono librerie a tutta parete e alcune fotografie: mi colpiscono un suo ritratto, una foto di due donne sdraiate sul divano a leggere – la moglie e la figlia probabilmente –, riconosco una porzione ingrandita della famosa fotografia che scattò a Sciascia nella chiesa di Racalmuto in Sicilia, e una riproduzione del celebre “Ceci c’est ne pas une pipe” di René Magritte.
La carriera di Scianna prese avvio nella Sicilia dei primi anni Sessanta, e la sua terra d’origine è raccontata anche in alcune immagini presenti in questa mostra. Scianna ha voluto fissare l’umanità che abita questa terra antica, popolare, fatta di processioni durante le quali, se si guarda oltre, si vede il volto rugoso di una vecchia sbucare da dietro le tende, bambini che giocano per strada, o sguardi ormai spenti di chi è rimasto dopo le stragi. Terrà lo sguardo rivolto alle persone anche quando, affermato fotoreporter, si recherà nelle zone più remote del pianeta, povere e in guerra. Scianna non si stancherà di testimoniare l’umanità dolente e sofferente, ma che, nonostante tutto, persiste nel desiderio umano di felicità.
Con in bocca la sua pipa, mi stringe vigorosamente la mano, si siede. Iniziamo la nostra chiacchierata.
Come ha scelto di fare il fotografo?
Io non ho scelto niente, sono stato scelto, volevo scappare dalla Sicilia e dal destino che la mia famiglia desiderava per me: mi volevano avvocato, ingegnere, ma a me sembrava una cassa da morto. Allora ho incontrato la fotografia, o la fotografia ha incontrato me. Ho cominciato facendo delle foto agli altri, anzi alle altre, fotografavo le mie compagne più carine insomma. E avevano successo queste foto, io ero adolescente e non desideravo niente di più che essere approvato, allora ho pensato che potesse essere una via di fuga.
Ho fatto il fotografo per scappare, dopo di che, per strada, la cosa si è trasformata in una passione, dopo in un’ossessione e dopo in un destino. Poi è finita, adesso sono almeno dieci anni che non faccio fotografie; non sono io che non le faccio, ma le mie gambe che non le vogliono più fare. Fingo di credere che non le faccio più perché tutto è stato fatto e allora, cosa potrei fare di nuovo? Ma non è per questo, perché tutto era già stato fatto anche quando cominciai, ma all’epoca pensavo fosse necessario. Per me era diventato come vivere, come respirare.
Il più bel complimento che io abbia ricevuto, per quanto riguarda il mio mestiere, l’ha fatto un mio collega giornalista che diceva che lavoravo velocissimo, consegnavo tutto nel minor tempo possibile, perché, diceva, “poi deve andare a fare le sue foto”. E io le distinguo: per sessant’anni ho fatto foto per campare, ma per almeno cinquanta ho fotografato soprattutto per vivere, perché non ne potevo fare a meno.
Lei si definisce bressoniano, l’incontro con Henri Cartier-Bresson, infatti, è stato per lei fondamentale sia sul piano professionale che umano. Qual è l’insegnamento più grande che le ha lasciato?
Sono stato allievo pedissequo di Bresson, ma anche intimissimo amico, è stato una fortuna e un privilegio incontrarlo. Mi ha dato il suo affetto e il suo insegnamento. Il fotografo non lo discuto, però non mi manca Cartier-Bresson come fotografo, perché le fotografie sono lì. Mi manca Bresson come persona, perché era una persona tanto lontana da me: lui era figlio di una ricca famiglia industriale francese, mentre io ero figlio di una famiglia contadina siciliana – senza contare gli anni che ci separavano –; lui a scuola leggeva come un pazzo e frequentava le riunioni di Breton e dei surrealisti, per me l’esperienza culturale più strepitosa era che dal barbiere uno suonava la chitarra [sorride, ndr].
Con Henri abbiamo parlato moltissimo e la cosa su cui abbiamo parlato di meno è stata la fotografia: parlavamo della vita, parlavamo di politica, lui era anarchico pacifista. Diceva: «Bisogna dire che siamo anarchici, ma subito dopo dobbiamo dire che siamo pacifisti, se no ti mandano subito i carabinieri!».
Era poi un uomo morale: non ha voluto succedere al padre nella direzione delle telerie Cartier-Bresson, perché sapeva che le operaie prendevano la silicosi, che vivevano con fatica del loro lavoro. E lui voleva vivere da persona libera. Il padre, però, non gli volle togliere la sua eredità legittima ma gliela volle dare come mensilità, per cui raccontava che, se avesse voluto portare una ragazza al cinema, non avrebbe dovuto fumare per una settimana; ma sapeva anche che, se si fosse ammalato, non gli sarebbero mancate le cure.
Era un uomo etico e la sua etica aveva due binari, che anch’io cerco di seguire: la fotografia non può che essere un momento di vita e questo momento di vita, per avere legittimità ed essere comunicato, deve avere una grande dignità di carattere espressivo ed estetico. Al fotografo non deve mancare un rapporto autentico con la realtà.
Secondo lei, cosa ricerchiamo nella realtà? Forse un pezzo di noi stessi?
Ma sicuramente, perché io, per esempio, ho fatto libri di moda e spesso mi è stato detto che un fotografo impegnato come me non può occuparsi di moda, ma io non sono sempre compreso nei miei pensieri su come va male il mondo e come si potrebbe fare per risolverlo. Certe volte sono soltanto interessato a come cammina la signora davanti a me, che ancheggia in maniera molto affascinante e la cosa mi interessa molto; ho fatto un libro sul mangiare perché la cosa mi interessa molto; ho fatto un libro sul dormire perché la cosa mi appassiona; ho fatto un libro sui paesaggi, sulle cose che trovavo nei mercatini, perché erano espressione della vita della gente e di me. Questo uno fa.
Le sue fotografie rappresentano un’umanità dolente…
Non è nelle mie fotografie, è nella vita e in certi momenti che vivono le persone. E io questo faccio: guardo, ogni tanto vedo qualche cosa che mi pare possa avere senso raccontare e faccio una foto. Il più delle volte sono cattive; una ogni centomila non è male e, siccome ne ho fatte più di un milione, qualcosa è rimasto.
I suoi lavori partono sempre da delle domande…
La mostra è questo: siccome ognuno di noi ha la vanità di quello che fa, spero che, attraverso i miei scatti, gli altri si pongano delle domande, che sono le stesse che noi ci poniamo quando guardiamo il mondo, che è pieno di domande inevase.
Ma la mostra nasce soprattutto dalle domande che si sono accumulate dentro di me, facendo il mio mestiere di fotografo, soprattutto di fotoreporter – un viaggiatore con la macchina fotografica –: è un mestiere che attraversa moltissimo il dolore e la sofferenza, perché il mondo ne è pieno. E, quindi, a un certo punto lo metti insieme, in un certo modo perché niente si può raccontare senza la geometria.
Lei hai intitolato questa mostra “la geometria e la compassione”, ma non è la prima volta che parla di “geometria”…
Noi abbiamo un documento, che si chiama d’identità, dove c’è una nostra foto, che possiamo fare a una macchinetta, e accerta che quella persona lì sei tu. Ma sei tu che devi assomigliare alla foto e non la foto che deve assomigliare a te, questo lo chiamiamo ritratto. Però se noi guardiamo il ritratto di Antonello da Messina dell’ignoto marinaio [Ritratto d’uomo, o Ritratto d’ignoto marinaio (1465-1476 ca.), Museo Mandralisca (Cefalù), ndr], non è un ritratto, perché non riguarda quella persona, ma riguarda l’umanità e ci sembra di sapere tutto di quella persona.
E questo è un vero ritratto: la capacità che ha, in quel caso un grande artista, nel mio caso un fotografo – io mi servo di una macchina e schiaccio un bottone – di cogliere un buon momento e da lì nasce un ritratto. Se stiamo parlando di persone perché, se parliamo invece di cosa accade nel mondo, allora accadono tante cose: piccoli avvenimenti sportivi, sfilate di moda, ma anche guerre, rivoluzioni, catastrofi, assistere al dolore per la morte di qualcuno, vivere il dolore per la morte di una persona cara.
E quindi ci interroghiamo su cosa sia il dolore, e il dolore è tanto, ce n’è tantissimo intorno a noi, anche se noi, comprensibilmente, distogliamo lo sguardo. Questa è la geometria e questi sono documenti in cui spero ci sia la geometria, perché senza geometria non si può esprimere niente. Io propongono agli altri le stesse domande che io stesso mi sono posto. Sono figlio della Sicilia, che ha dato i natali anche a Pirandello, e quindi oltre a vivere mi guardo vivere: rifletto su quello che faccio.
Quando distogliamo lo sguardo non proviamo compassione? Siamo indifferenti?
La sua è una rivista cattolica; io, come tutti gli italiani, sono stato cresciuto dentro il cattolicesimo – poi non so se ci siamo lasciati io e Lui –, però quando ero bambino ero già abitato da una certa inquietudine, perché mia madre, per esempio, faceva parte di un gruppo di pie donne, signore della carità, e io ho sempre avuto il sospetto che questa cosa qui non fosse nata dal cuore, era anche dal cuore, ma era un gesto che intanto separava loro dalle persone che ricevevano la carità: intanto sono Io che faccio la carità e tu che la prendi; intanto mi devi essere grato e io, poi, acquisto una cambiale che mi farà avere un destino migliore quando la mia vita sarà finita.
E a me questa cosa disturbava molto, come succede sempre ai bambini e ai giovani che pensano che tutte le cose nobili si facciano senza interesse. Invece non è così e la filigrana di questa mostra e di questa riflessione lo dimostra: perché in realtà la compassione nasce sempre da un interesse. E l’interesse che porta a provare la compassione è dato dal fatto che noi biologicamente, ontologicamente, siamo creati per cercare di essere felici. Ciascuno di noi quando vive cerca di essere felice.
Quando ti chiedi «cosa si mangia stasera?» e sai che mangerai il pollo come lo cucinava tua madre, sei felice perché ti ricorda tua madre e non pensi che il pollo è stato allevato ignobilmente ed è stato scannato perché tu lo mangi. La compassione, quindi, nasce dal fatto che noi, davanti al dolore degli altri, per miseria, per catastrofi, per morte, per emarginazione, veniamo disturbati in quello che è il nostro scopo vero: essere felici. E per cercare di recuperare questa condizione ci prendiamo la medicina della compassione. Cerchiamo quindi di ricostruire il nostro equilibrio, soffrendo per l’altro e cercando, magari, di fare qualcosa perché la sofferenza venga alleviata. Quindi, in definitiva, non sono molto diverso da mia madre.
L’uomo ha comunque la necessità di porsi dei problemi sulla propria natura, sulla propria esistenza e inconsistenza. E ancora il cristianesimo ha detto una cosa capitale: che tutti siamo uomini uguali e quindi abbiamo tutti diritto alla felicità, ma quando qualcun altro soffre, interferisce con la tua. L’unica maniera per cercare di sanare o rendere meno dolorosa questa ferita è quella di evacuare quel dolore che ti sta dando. Questa è la compassione.
In un certo senso la nostra indifferenza è giustificabile, è umana…
Una volta ero in Etiopia, morivano un mucchio di persone al giorno, e mi sono ritrovato nella tenda della Croce Rossa, davanti a un’immagine forte: le donne portavano dei bambini che erano pelle e ossa; non è un’espressione proverbiale, erano davvero pelle e ossa! La pelle ricopriva solo le ossa. Le madri allattavano con seni che non erano più seni, erano degli stracci, dove non c’era nulla. Lì i bambini venivano misurati e pesati.
Io mi chiedevo a che cosa servisse questo gesto statistico, il medico mi ha spiegato che si chiama “selezione”, la stessa parola che usavano le SS a Buchenwald: selezionavano chi poteva ancora lavorare, mentre gli altri li mandavano nelle camere a gas. Il medico mi disse che sulla base dell’età, del fisico, ecc., selezionavano solo chi avrebbe avuto più possibilità di farcela e li curavano. A me sembrò orribile, ma non c’era altro da fare.
Mi venne una gran crisi per cui non volli più fare le foto. Mi misi a camminare e, dopo 5 o 6 ore, mi sono reso conto che avevo fame e andavo cercando da mangiare. Ero già molto meno preoccupato che quelli morissero come mosche e che fosse indegno che io li fotografassi. Perché tu puoi uscire dal tuo sentimento, ma dal tuo corpo no, dalla tua necessità di vivere no. Non si tratta di felicità, ma di esistenza. E la tua esistenza è fondamentale. Mi sono chiesto: se fossero passati due o tre giorni invece che poche ore? Avrei probabilmente rubato quello che davano da mangiare a questi qui per sopravvivere. L’indifferenza. La ferocia ci appartiene, ce la portiamo dentro.
Di dolore nel mondo ce n’è tanto, crede che, facendo il fotoreporter lo ha sperimentato più di altri?
Non so se più di altri. Ho visto situazioni in Bangladesh, in India o in posti del genere: file di persone a cui veniva messo in mano un pugno di riso. Per giunta poi c’erano registri assurdi, grotteschi, in cui si chiedeva di fare un’impronta digitale come ricevuta di quel pugno di riso, per verificare se l’avessero già ricevuto o no.
Un pugno di riso che poteva significare la differenza tra vivere e morire. Nel Bangladesh c’era stato un enorme tsunami, quest’onda che si era portata via tutto, persone, case, e c’è stato uno che mi ha raccontato che a un certo punto ha visto un gruppo di cani che salivano sulle palme, questo lo ha inquietato, allora ha preso il suo bambino ed è salito sulla palma e, a un certo punto, è arrivata l’onda immane, si è piegata la palma, gli è sfuggito il bambino e poi è sfuggito lui.
Quando si è risvegliato, dopo tante ore, c’erano migliaia di persone che scavavano nel terrapieno per vedere se fosse rimasto del riso incastrato e lo mettevano via. E quello poteva fare la differenza tra vivere e morire. Ma non so se ho sperimentato il dolore più di altri, perché il dolore non c’è solo durante l’alluvione in Bangladesh, ma anche fuori di casa quando vedi uno che d’inverno dorme su di una panchina e si gela.
Una delle immagini della mostra che più mi è rimasta impressa è uno scatto nella stazione della metropolitana a Parigi, dove, sotto a un cartellone pubblicitario in cui due persone brindano con coppe di champagne, dormono altre due persone rannicchiate nei loro sacchi a pelo.
Quella foto lì significa per me la polisemicità delle immagini: io quella foto l’ho usata per un mio libro sul dormire – che ho chiamato Dormire, forse sognare (Arti Grafiche Friulane 1997), come Amleto di Shakespeare – cioè, l’idea del sogno dentro il dormire: due senza tetto e due coppe di champagne, forse sognavano di farsi una bella bevuta. E questa è una delle interpretazioni possibili, che non riguarda il dormire ma il sognare;
un’altra è quella della miseria: c’è un’altra foto che ho fatto sempre nella metropolitana a Parigi, dove c’è una povera donna su una panchina, chiaramente miserabile barbona, e dietro un grande manifesto con scritto “nous rendons la vie un peu plus facile” [noi rendiamo la vita un po’ più facile], a chi? A quelli a cui è rivolto e non a quella che ci sta dormendo sotto. E con che cosa? Con un detersivo, con un profumo? Quindi le immagini hanno anche un potere di comunicazione relativo al contesto nel quale vengono mostrate.
Lei ha parlato di Etiopia, di Bangladesh, teatri di guerra, ma non sono immagini diverse dalla nostra sensibilità. A questo tipo di immagine ci siamo ormai abituati, assuefatti forse. Io ho sempre in mente le parole di Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, quando riflette circa la sovraesposizione, l’uso massmediatico del dolore e invita al rispetto “davanti al dolore degli altri”. Com’è possibile che questo genere d’immagine diventi arte e sia esposta in un museo?
È un enorme problema e io naturalmente ho cercato di darmi delle risposte. Mi ricordo che, quando cominciò la guerra nel Kosovo, in Italia ma anche nel mondo, la stampa pubblicò in prima pagina la foto di uno che teneva in mano la testa mozzata di un nemico. Un’immagine terribile, violenta, e ci furono delle polemiche. Per me, in quel momento, quell’immagine era giusta, perché questa era una guerra alle nostre porte, qui, davanti a noi, e di cui si parlava poco.
Quindi, quella lì era un’immagine che attraverso lo shock che provocava poteva suscitare delle domande, ma quindici giorni dopo, quando questo sarà acquisito, pubblicarla sarebbe pornografico. Serve soltanto a farti pensare “Io non sto vivendo quello”, serve come le pie donne: Io faccio l’elemosina e tu la ricevi. Bisogna essere molto attenti. Nonostante fossi siciliano, non ho molto fotografato – con dei rimorsi – la mafia. Una volta, però, ho fotografato un morto in un cortile di Palermo: era terribile, con la faccia insanguinata, quella foto lì non l’ho mai pubblicata.
Non l’avevo scattata con compiacimento, perché le foto che noi vediamo non sono le foto che un fotografo ha fatto, ma quelle che un fotografo sceglie e decide di mettere in circolazione. La sua responsabilità è nell’averla fatta, ma altrettanto nell’averla messa in circolazione. E poi la filiera è lunga: c’è un fatto, il fotografo scatta, invia l’immagine a un giornale, la foto arriva al caporedattore che la sottopone al direttore e il direttore dice di mettere in prima pagina quella più forte, quella che attiri il lettore. Ognuno di questa filiera ha la sua responsabilità.
Quindi devi scegliere quali foto fare e quali no, come farle e come no, perché anche la cosa più terribile può essere fotografata con umanità, con compassione, e con una tenuta estetica, formale, espressiva che la giustifichi perché una brutta foto è sempre pornografica. Io ci ho creduto, ma non lo credo più, che le foto possano servire a cambiare il mondo. Non ci credo più, però sono sicuro che le cattive fotografie lo peggiorano. E quindi sono comunque responsabile, non solo della fotografia che ho fatto, ma anche della sua qualità e di come la comunico.
Se dovesse scattare una foto del mondo, come sarebbe?
Mi considero un artigiano: mio nonno faceva il falegname e la sua materia prima era il legno, io ho fatto il fotografo e la mia materia prima sono il caso e la vita. Non mi sono fatto molte domande sul perché facessi delle fotografie, facevo fotografie perché ero stato cresciuto così: in un mondo dolcissimo e contemporaneamente violento, discriminatorio, feroce e nello stesso tempo meraviglioso, con gli amici, la luce, i bagni che iniziavano a maggio e finivano a novembre.
Quindi si finisce di costruire una sorta di cassapanca, con elementi di vita e di memoria, ai quali, lo si voglia o no, si torna sempre a cercare qualche cosa che dia un senso a quello che stai facendo e anche a quello che non stai facendo. Ho fatto un lavoro, al quale tengo molto, su un villaggio di minatori sulle Ande boliviane: io detesto la montagna, sono claustrofobico, il lavoro dei minatori mi pare una vergogna nei confronti dell’umanità; ma l’ho fatto perché l’angoscia che circolò in Sicilia quando ci fu la strage di Marcinelle nella quale molti minatori morirono, con tutti i racconti che si fecero sui minatori di zolfo in Sicilia, mi aveva colpito e allora volli raccontare quella cosa.
Qualcuno ha infatti detto che questo mio libro sui minatori boliviani è il mio libro più siciliano. Uno lo sa quello che sta facendo e che vuole fare, ma sino a un certo punto e, probabilmente, le cose che sa meno sono quelle che si rifiuta di fare per salvarsi l’anima. Tutti quanti abbiamo una forma di religiosità nella ricerca della vita e di noi stessi.
È come dice Barthes che la foto esiste solamente nel tempo presente?
Tutte le cose esistono nel tempo, qui siamo, è l’hic et nunc.
I suoi scatti sono emozionanti, ma lei si emoziona quando fotografa?
Pensi a un medico che lavora in un pronto soccorso e arriva un ragazzo di 18 anni, squartato per un incidente stradale. Cosa fa il medico? Agisce, inizia a operare. Il che non significa che non si emoziona, perché si emoziona, ma se si lasciasse travolgere dall’emozione non sarebbe un buon medico. Deve anche sapere che la sua emozione si deve trasformare in un gesto del proprio artigianato per intervenire sulla cosa che lo ha emozionato.
C’è una fotografia in questa serie: ero nel Bangladesh, stavo cercando di andare nell’epicentro della catastrofe ed ero in giro su un risciò, a un certo punto vedo sul marciapiede un uomo che barcolla e stramazza al suolo. Dico al conducente del risciò di fermarsi indicandogli l’uomo, lui si gira e dice «Non è niente, ha solo fame!». Per lui era uno spettacolo normale, quotidiano. Era indifferenza o il fatto che faceva parte del paesaggio dentro il quale viveva? Io sono sceso.
La prima cosa che ho fatto è stata una fotografia, solo dopo l’ho tirato su, gli ho dato da mangiare e un po’ di soldi. Quindi mi sono molto emozionato – questa è compassione, gesto umano –, però ho anche fatto il gesto del fotografo, per cui ho fermato quell’emozione. Quindi mi emoziono, però se tu sei solo emozionato non puoi contemporaneamente calcolare che, mentre fai la foto, c’è qualche cosa che turba la composizione: devi anche avere il controllo della geometria del tuo sguardo. E questo non è contraddittorio con l’emozione, la nutre, la fa esprimere.