Il 5 ottobre scorso Emmanuel Exitu ha vinto il Premio Commisso per la sezione Narrativa con il romanzo Di cosa è fatta la speranza (Bompiani, Milano 2023, pp. 432, € 21), la storia di Cicely Saunders, infermiera durante la Seconda guerra mondiale e pioniera delle Cure Palliative, che ha dedicato la vita a lenire la sofferenza dei malati terminali con empatia e dignità. L’autore è nato a Bologna e vive a Roma, dove ha lavorato come autore televisivo e come drammaturgo per il Teatro di Documenti. Dal suo romanzo La stella dei Re ha tratto la sceneggiatura per l’omonimo film Rai. Il suo Greater – sconfiggere l’Aids, girato negli slum di Kampala, in Uganda, è stato scelto da Spike Lee come miglior documentario del Babelgum Contest a Cannes 2008. Responsabile dei contenuti di WIP Italia, The Digital Design Company, sta sviluppando progetti e podcast dedicati al sociale e alla costruzione del bene comune.
Ogni libro è una storia, ma ogni libro ha una storia: come hai incontrato Cecily? Come ti è venuta incontro e perché hai deciso di raccontarla?
Come tutte le cose belle della vita, Cicely è stata un incontro, l’unico colpo di fulmine della mia vita, solo che è scoccato per una donna che era morta undici anni prima. Un evento che in qualche modo fa capire come la dimensione spirituale sia capace di surclassare tempi e spazi.
È successo nel 2016 perché “Il Foglio” chiese a me che non sono giornalista un articolo “di quelli tuoi un po’ strani”, perché in Olanda era stata approvata l’eutanasia per un ragazzo di diciassette anni che era depresso. Così ho fatto un articolo che raccontava l’esperienza degli hospice moderni, pieno di esperienze reali di bene e vuoto di astratte petizioni di principio.
Nel dibattito pubblico c’è una deformazione quando si parla di fine vita: sembra sempre che l’unica risposta possibile sia quella dell’eutanasia e del suicidio assistito. Non si pone mai un racconto concreto e dettagliato delle opportunità date dalle Cure Palliative. Non si racconta mai il numero elevatissimo − molto prossimo al 100% − delle traiettorie finali della vita dei pazienti e dei loro cari piene di esperienze di bene, di riconciliazione, di compagnia, di continua ricerca di senso, di abbraccio, di rottura del cappio della solitudine.
Naturalmente è un bene che non si può separare dal dolore, dai momenti di disperazione, di crisi, di insopportabilità, dai momenti di contraddizione, insomma, è un bene che accade dentro questo oceano di dolore. Sono esperienze che vedo come tante barche dentro questo oceano di dolore, sempre al limite di galleggiamento ma come la Barcaccia del Bernini non affondano mai per qualche mistero che certamente non capiremo mai fino in fondo come funziona, ma sappiamo benissimo di cosa è fatto, cioè d’amore. Di queste esperienze non si parla mai, di questi pazienti e parenti non si parla mai e questo per me è un problema che non ci dormo la notte, perché riguarda il senso di condivisione che sento necessario per vivere e quindi anche il funzionamento della democrazia. Perché queste persone non hanno voce?
D’altro canto, mi viene “il nervoso” (come si dice a Bologna) quando prendono parola i cattolici con grandissime prediche sul valore della vita, per due motivi: prima di tutto sembra che si prenda la parola quando qualcuno pone il problema dell’eutanasia, in un movimento solo reattivo, e non si dà mai invece priorità e spazio al racconto delle esperienze positive che tra l’altro oggi, grazie agli strumenti del mondo digitale, possono diventare virali perché ci raggiungono sul nostro smartphone. E poi perché, detta con una battuta, da uomo moderno ho un difetto genetico: quando partono i discorsi sui valori, mi salta l’audio e da un orecchio non ci sento. Però ci sento − e sento molto bene − da un altro orecchio: quello dell’esperienza. Su questo “comune terreno” tutte le testimonianze che provano la possibilità del bene hanno una voce chiara. Che poi è quello che in fondo diceva Cicely: possiamo incontrarci – credenti e non – sul «comune terreno della nostra vulnerabile umanità».
L’interesse per la singola persona, il tempo speso, l’attenzione, azioni così antieconomiche ma profondamente umane, hanno suscitato in Cicely l’intuizione delle Cure Palliative. E se ci fosse un robot a dare i farmaci a un malato?
Le intelligenze artificiali faranno sempre e comunque soltanto una parte del lavoro, la parte meno intelligente, tra l’altro, ma non riusciranno mai a farlo tutto. Una paziente disse a Cicely una frase che ci aiuta a capire il valore della relazione nella cura: «Grazie non solo per la medicina ma anche per la tua presenza».
L’IA sarà molte cose, ma certamente non sarà presenza. Il “robot” potrà certamente portare al letto la pillola giusta all’ora giusta nella giusta dose, ma non potrà mai portare un cuore e uno sguardo umano. La relazione in sé stessa è cura, e «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». È una frase incredibilmente poetica contenuta nel primo articolo della legge 219/17 sulle Cure Palliative.
Tra l’altro non è proprio così vero che queste cure siano antieconomiche. Studi recenti hanno ampiamente dimostrato che una relazione di cura globale − che si prende carico cioè di tutte le dimensioni del dolore − rende molto più efficace il farmaco che viene somministrato e ci sono effetti positivi sul paziente che diventano effetti positivi sul budget: i pazienti rispondono meglio alle cure che possono essere usate di meno, hanno un allungamento della vita e questa vita è di una buona qualità. Riappropriarsi di una dimensione umana della cura insomma è un win-win.
Tra l’altro questa cura non agisce solo sul paziente, ma anche sul curante cioè sul dolore di chi si prende cura. Nell’ultimo decennio si sono moltiplicati studi che dimostrano come l’incidenza del burnout sia inferiore negli operatori di cure palliative rispetto a tutte le altre professioni di servizio non solo chi lavora in medicina di emergenza o in oncologia pediatrica, che hanno indici molto alti, ma anche nelle professioni come quelle degli educatori e insegnanti.
Il che naturalmente è del tutto contro-intuitivo: come è possibile che questi operatori stiano meglio quando vedono morire persone tutti i giorni? Semplificando molto, si sono rilevati due aspetti: da una parte il livello di stress è molto elevato, ma molto elevati sono anche i fattori di protezione dallo stress. Il primo e più immediato è il fatto che nelle Cure Palliative si lavora in uno staff. Il secondo è racchiuso in una parola magica: “grazie”.
Hai tastato il polso al pubblico italiano, incontrandolo per le diverse presentazioni del libro: aneddoti, impressioni, domande curiose che ti hanno rivolto. Un notevole riscontro di vendite indica un interesse verso la vita di un’altra persona. Perché Cicely?
Il libro attualmente ha toccato le diecimila copie vendute che nel nostro mercato editoriale è un dato interessante perché dovuto al passaparola dei lettori, tanto che a un anno dall’uscita il libro è vivo e siamo alla sesta ristampa. A ottobre, poi, ho vinto il Premio Comisso, che è un premio prestigioso. E sono molto contento di questi risultati, fanno benissimo all’umore! Sono obiettivi importanti ma quello che mi soddisfa di più è stato porsi l’obiettivo di fare un buon libro e poi farlo per tre anni svegliandomi alle 5 per scrivere fino alle 9 e poi fare colazione e mettersi a lavorare per pagare le bollette. Quindi sono molto contento, ma l’impegno che avevo preso con me stesso era fare un buon libro: mi sono attenuto a questa responsabilità − sbudellandomi l’anima, intendiamoci − e tutto il resto è venuto in sovrappiù.
Cosa ti ha fatto scoprire di te stesso scrivere questa storia? Come vivi la scrittura?
Hemingway, e tanti altri con lui, dicono, giustamente, che quando scrivi devi sapere tutto dell’argomento che vuoi raccontare. E io ho fatto ben bene i miei compiti; ho studiato, ho fatto interviste, sono andato a Londra al King’s College a scavare nell’archivio di Cicely trovando tantissimo materiale (ho portato a casa millecinquecentosette foto di documenti, per dire). E poi è cominciata la fase di scrittura e ho scoperto che scrivere significa mettersi a cercare. Scrivi perché hai bisogno di scoprire, di seguire quello che emerge, di mettersi in relazione con i personaggi e vivere assieme a loro. E questo tipo di lavoro, il lavoro di una scrittura che tenta di essere letteratura, romanzo, è un lavoro che chiede un rischio personale, il rischio totale di sé, che è l’unico approccio che permette alla verità − del personaggio, della storia, del singolo dettaglio, della singola virgola − di emergere. Se c’è della bugia dentro di te, un buon libro non esce. E siccome dentro di noi la bugia c’è perché siamo feriti dal male, purificare il cuore dentro il lavoro − ora, lege et labora per intenderci − a un certo punto diventa necessario. Questo rischio si chiama romanzo.
Cosa ha generato nella tua vita l’uscita del libro? Oltre a una foresta di impegni…
Ho conosciuto tanta gente cosa che insegna a guardare sempre di più dentro l’esperienza del prendersi cura. Io lo chiamo “il popolo di Cicely”: sono parenti, pazienti e operatori, ovviamente, ma sono anche tantissime persone normali che fanno tutt’altro e che non hanno necessariamente una fede di qualche tipo ma che sentono il bisogno di “prendersi cura” e di mettersi a servizio.
Nel libro a un certo punto Cicely sta cercando di capire meglio il fenomeno che ha innescato e osserva che probabilmente «prendersi cura è un bisogno primario, come mangiare, bere e dormire» e quindi è qualcosa che fa parte della nostra natura, è dentro il nostro cuore. Di questi tempi, a guardare le notizie, non sembra, non viene raccontato, eppure c’è questo “mare carsico” di persone che per un qualche motivo si prendono cura. E in fondo il libro a ben guardare racconta questo “prendersi cura” che innanzitutto significa mettersi in ascolto, mettersi in relazione e quindi mettersi giocoforza in discussione. È qualcosa che smuove, che ti fa uscire da te stesso. È l’unica possibilità di fare spazio al bene, anche se scomoda.
Questa dimensione, come sempre, è contenuta in qualche modo nella radice della parola agonia, nella quale stanno insieme il significato di lotta e quello di adunanza, assemblea. Morire è un agone, certo, ma dovrebbe essere un momento che si vive dentro un’assemblea. Poter attraversare il mistero mano nella mano, è uno dei doni più grandi della vita, che ha la potenza di illuminarla tutta a ritroso.
Il popolo delle Cure Palliative insomma non smette di parlarmi, e io voglio continuare ad ascoltarlo e a dargli voce. Il prossimo progetto è un podcast fatto di queste storie, con la voce dei protagonisti che ho incontrato in questi mesi e ho già trovato qualche persona di buona volontà che finanzierà il progetto.