Pubblichiamo di seguito un estratto del nono capitolo del volume Giovanni Pascoli. Dal nido al cosmo (2024, pp. 164) di Bruno Nacci. Pascoli, poeta e saggista, riflette profondamente il suo sentimento cristiano attraverso le sue opere ed emerge nella memoria dei cari scomparsi e nella fede sociale rivolta agli ultimi, mantenendo una dirittura morale intransigente. La sua visione cristiana permea le sue poesie, con un richiamo costante ai Vangeli e alla pietà. Nacci è autore per Ares dei racconti Destini (2020, pp. 192) e del racconto lungo La fine del viaggio (2023, pp. 104).

Cristiano, Pascoli lo fu come intendimento e modi di vita. Ma forse, più in profondità, realizzò appieno il suo sentimento nell’opera, sia quella in versi latini, sia nei saggi danteschi, sia, infine, nelle poesie in italiano.

Fu cristiano nell’intenso fervore della memoria per i suoi cari scomparsi e di ciò che con loro era andato irrimediabilmente perduto, per l’ardore della sua fede sociale rivolta agli ultimi nel mondo del lavoro contadino e dell’emigrazione, per la dirittura morale intransigente con cui seppe riunire e difendere quello che restava della sua famiglia, rinunciando a una vita diversa nel sacrificio che seppe farne a favore di un’altra, non meno intensa e ricca di affetti: «Quindi non c’è nulla di così vivo come le rinunzie della vita; e nulla di così dolce, come il dolore liberamente accettato. Il calice, a cui si dice Transeat a me, ha l’amaro soltanto agli orli».

Lo fu rinunciando all’appartenenza, al dogma, al facile fregiarsi di un aggettivo, evitando il rischio dei sepolcri imbiancati: «Nel sacrifizio, necessario e dolce, sino all’olocausto, è, per me, l’essenza del cristianesimo; e credo che si possa essere cristiani senza credere a un solo de’ suoi dogmi metafisici, e credo che si possa credere a tutti questi dogmi, senza essere cristiani».

Tutto questo gli venne rimproverato, o per questo fu ed è da alcuni dileggiato. Potremmo dire paradossalmente che la sua statura intellettuale è rimasta offuscata dal suo senso del dovere, inconcepibile al punto che ogni scelta gli venne ritorta contro cercando di scovare in lui pensieri nascosti e sconvenienti, tare inconfessate, debolezze patetiche. Doveva essere per forza un poeta ripiegato su sé stesso ed escluso dalla vita, doveva assomigliare all’autoritratto di Corazzini: «Vedi che io non sono un poeta: / sono un fanciullo triste che ha voglia di morire»? E per di più non cercò mai di farsi scudo del suo sentimento cristiano, pietendo appoggi, untuose consacrazioni, ergendosi a capo di un partito o di un’idea (come Carducci, come D’Annunzio, come Fogazzaro). Rimase solo, con la schiena diritta, a professare un messaggio antico e ormai al tramonto, che riuscì a trasfondere nei versi con il suo potente carico di pietà.

Senza bandiere, senza esibizione, in un silenzio appartato che a tratti lo rese duro e insofferente, mai complice. Nella poesia non cessò di confrontarsi con i Vangeli, sia indirettamente, sia in un modo esplicito che può sembrare ingenuo, e in effetti lo è, come ingenua è sempre la fede autentica, semplice e innocente (non diceva la sorella del grande Pascal che la sua fede era come quella di un bambino?). Venerava la Bibbia, così la chiamava, del mondo classico, ma non gli sfuggiva la novità che aveva fatto irruzione: «Venne però il cristianesimo. Cominciò quel movimento dell’anime, per il quale gli uomini si dovevano riconoscere per fratelli; per il quale la vita non doveva apparir bella e buona, se non smezzata col prossimo. Nacque il Cristo». E attribuiva a Dante il merito e il vanto di aver traghettato lo spirito classico nel nuovo mondo cristiano, rinvenendo nell’amore la mediazione tra le due civiltà.

Leopardi e la realtà

Nel bel saggio su Leopardi “La ginestra” (Pensieri e discorsi, 1895-1906), Pascoli immagina di prendere le parti dell’amico silenzioso di Tristano nel “Dialogo di Tristano e di un amico” (Operette morali), rivolgendosi direttamente a Leopardi, alter ego di Tristano. L’invocazione senza speranza di Tristano che desidera solo la morte (seguendo il vanitas vanitatum), spinge Pascoli a istruire una requisitoria che abbraccia tutta l’opera di Leopardi, iniziando a ricordare che «il dolore del poeta è di così mirabile natura che anche quando il suono ne è triste, l’eco ne è dolce». E cosa dire delle illusioni giovanili: la gloria, l’amore (Silvia, Nerina…), e infine la bellezza, la patria, il progresso, la poesia? «Perché in vero tu contempli il genere umano da così sublime vetta di pensiero e dolore, che non puoi scoprire, da così lungi e da così alto, tra gli uomini, differenza di condizioni, di parti, di popolo, di razza. È un formicolìo di piccoli esseri uguali: e se n’alza un murmure confuso di pianto». Questo, dice Pascoli, avrei detto a Leopardi se di lui non avessi saputo niente altro che quanto aveva scritto fino al 1835 (escluso lo Zibaldone). Ma in seguito, dopo la morte del poeta, videro la luce “Il tramonto della luna” e “La ginestra”, dove, in una desolata macerie di pensieri, si erge l’umile fiore (un «fiore gentile») a simbolo della dignità e del coraggio che spesso manca agli uomini. Leopardi premise alla sua ultima poesia il versetto di Giovanni: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». Si chiede Pascoli: «Quale è la luce?» e risponde: «Certo è la verità».

Egli vede chiaramente che per Leopardi la forma più grande di nobiltà umana è prendere atto della realtà, senza ipocrisie, senza consolazioni e paure: «La vita umana è un deserto su cui domina la minaccia eterna dello sterminio». Perché togliere all’uomo, qui rappresentato dal bambino che temendo il buio si consola con la presenza della mamma che accenderà la luce, la speranza? Ecco la risposta di Pascoli: «Egli proclama che nella sua filosofia è un principio sul quale può edificarsi un inconcusso sistema di morale; e questo principio è la coscienza della nostra bassezza e fralezza. Ecco la luce. E il poeta del dolore, il filosofo del nulla, parla ora come un sacerdote: il sacerdote, per così dire, della irreligione». Da questa salda consapevolezza verrà come conseguenza morale la pace, il cessare dell’odio fraterno e la comune volontà dell’aiuto reciproco.

E Pascoli? «Che egli dica il vero non voglio affermare né negare». In realtà però, pur capendo e facendo proprio il pensiero solidale dell’ultimo Leopardi, Pascoli si sente più prossimo a una sensibilità diversa, e la esprime riprendendo l’immagine della ginestra, fiore umile e fragile: «Io ricordo che per me (non sembri irriverente qui un mio ricordo di fanciullezza) prima che la ginestra fosse il fiore del deserto, il fiore della negazione, era quello che in più gran copia mietevamo, noi fanciulli, per i greppi d’Urbino, nelle feste religiose dell’estate. Quei giorni portavamo nelle nostre passeggiate pomeridiane, dopo la benedizione celebrata nella chiesa del collegio con tanti ceri e fiori e suoni e canti, un non so che di dolce e di solenne, di tenero e di nuovo, come un profumo d’incenso, un’eco di inni, nel nostro cuore pio. Spogliavamo le ginestre, nel nostro cammino, a gara».

Il richiamo alla ginestra leopardiana, simbolo dell’orgoglio della ragione, diventa per lui un ricordo, il segno di un’altra e più dolce stagione, e alla lettura dei versi: «Tuoi cespi solitari intorno spargi / Odorata ginestra, / Contenta dei deserti» scocca la scintilla «io sentii nell’anima un profumo di religione e d’amore. Sentii quel non so che di dolce e di solenne, di tenero e di nuovo, come un profumo d’incenso, come un’eco d’inni, di cui era pieno il nostro cuore pio la sera di una festa. Il fiore era sempre quello, e a me non pareva contradizione tra queste parole che pur sono un annunzio di dolore, e altre che erano novella di gioia: tra questa apocalissi e quel vangelo». La ginestra che lo sterminio minaccia (e con lei tutti gli esseri viventi) «pareva qua attendere nel crepuscolo il piede d’un profeta, d’un apostolo, d’un Dio lontano; là avanti la fiamma inestinguibile della natura distruggitrice, aspettare paziente la sua fine mortale. Ma ne usciva il medesimo profumo, come le due leggi si concludevano tutte e due con un insegnamento di amore, di perdono, di pace!». È caratteristico di Pascoli questo volgere una notazione metafisica e simbolica (la ginestra di Leopardi) in ricordo, il ricordo in sensazione, la sensazione in sentimento: «Vedere e udire: altro non deve il poeta».

Una fede mai sopita

Quello che pensava di Leopardi e Manzoni rispetto alla fede, Pascoli lo disse paragonandoli, o meglio facendoli discendere entrambi dall’opera postuma del cardinale Melchior de Polignac, dal suo Anti-Lucretius sive de Deo et natura (1747): «Il Manzoni e il Leopardi si assomigliano molto in quello in cui differiscono: sono due convertiti; ma l’uno a rovescio dell’altro» (“Il sabato”). In particolare, Pascoli citava una pagina del Polignac tradotta dall’abate benedettino Francesco Maria Ricci nel 1751: «Come un malato si avvoltola nel letto con le membra inferme, ora adagiandosi sul lato sinistro, ora sul destro: e non giova: di che alza gli occhi, resupino: e non trova il sonno e sempre lo cerca; ciò che prima gli piaceva, poi lo tormenta e tortura; e non guarisce il suo male e nemmeno ne inganna la noia». Insomma, il travaglio della conversione, in un senso o nell’altro, da una fede a un’altra.

Non ci fu un vero tormento religioso in lui (o non ne abbiamo traccia), e tantomeno una conversione, la sua religiosità si nutriva di ricordi, di sensazioni, di una mai tradita fedeltà agli insegnamenti materni prima e dei padri scolopi dopo. La presenza continua dei Vangeli nel suo lavoro letterario, sparsa un po’ dovunque, è testimoniata in modo esplicito, più che esemplare, nella sezione “Parabole, Allegorie, Leggende” nell’antologia Sul Limitare (1901) e in “Piccolo Vangelo” in Poesie varie (1912, postume, a cura di Maria Pascoli). Ma è nel corso di una conferenza tenuta nel dicembre del 1901 a Messina, che ha come titolo L’Avvento ed era rivolta a un pubblico femminile, che Giovanni Pascoli espresse con affettuosa passione il suo sentimento religioso. Riprendeva l’immagine a lui cara, quella degli zampognari, presente in “Le ciaramelle”, poesia composta negli stessi giorni della conferenza e poi pubblicata, prima in rivista (1902) quindi confluita nel Canti di Castelvecchio (1903):

 

Udii tra il sonno le ciaramelle,

ho udito un suono di ninne nanne.

Ci sono in cielo tutte le stelle,

ci sono i lumi nelle capanne.

[…]

suono di chiesa, suono di chiostro,

suono di casa, suono di culla,

suono di mamma, suono del nostro

dolce e passato pianger di nulla.

 

E si chiedeva: «O povero ciaramellaro dei monti, perché hai dunque sonato l’avvento? l’avvento di che? che cosa è questo regno che ha sempre da venire e non viene mai? questo regno che ha da essere in terra come in cielo? questo regno che ha da fare un cielo nella terra? Oh! come ogni anno si dice che verrà? come ogni secolo si dice che è per venire? come ogni millennio si dice che non è venuto? Mai dunque? mai? Vano è dunque sperare, vano sognare, vano pensare».

Riprendeva, in fondo, l’amara e ironica considerazione di Leopardi nel Dialogo di un venditore d’almanacchi, in cui le promesse per l’anno nuovo erano solo la vana ripetizione di troppo facili illusioni. E, provvisoriamente, concludeva: «Noi non ci crediamo più!». Ma subito dopo aggiungeva: «Oh! credeteci! crediamoci! È l’avvento! Quel regno è cominciato». Dall’amara constatazione a un’esultante speranza. L’annuncio della buona novella veniva concentrato in quella nascita scandalosa: «Che cosa sono le massime dei Vangeli, per quanto soavi o grandi, pur non sempre chiare, che cosa è la buona novella del Cristo, che cosa sono le predicazioni degli Apostoli e le epistole di Paolo, che cosa sono le dichiarazioni dei Padri e le argomentazioni dei Dottori, rispetto a quell’oggetto continuo di meditazione, che è tale semplice e orribile storia, d’un bambino così privo di tutto, d’un uomo così povero, d’un condannato così innocente e così straziato? e che è Dio? quel Dio da tanto tempo aspettato e annunziato? che pareva dovesse apparire con tanta potenza e gloria, e mostrare tanti miracoli di felicità? Da duemila anni il genere umano fa la sua meditazione su quello strame e su quella croce».

Superando ogni aspetto dogmatico, ogni sottigliezza teologica (lui che pure nei suoi studi danteschi aveva affrontato i testi ardui della scolastica), Pascoli ricordava il semplice e disarmato cuore della buona novella: la nascita di un bambino indifeso, e alla fine lo strazio di un innocente. Da lì, diceva, aveva preso avvio la marcia lentissima degli uomini «verso l’umanità». Non taceva le terribili contraddizioni che avevano funestato l’era cristiana, la violenza perpetrata nel nome di chi quella violenza aveva subito, l’uso della tortura e della pena di morte (inorridiva agli espedienti che venivano d’oltre oceano, come la sedia elettrica), s’interrogava sulla necessità di punire, chiedendosi: «Ma non si potrebbe trovare il modo di punirlo [il colpevole di un crimine] con qualcosa di diverso da ciò ch’egli commise? […] Così esso assomiglia troppo alle sue vittime! Così andranno sopra lui alcune delle lagrime che spettano alle sue vittime! Le sue vittime vogliono tutta per loro la pietà che in parte s’è disviata in pro’ di lui!».

Rivendicava il cammino che dallo stato ferino aveva portato l’uomo alla civiltà, contestando una visione puramente materialistica dell’evoluzione: «Ma non sanno essi che l’uomo è colui che ama la femmina anche all’infuori della spinta sessuale?». Ma al tempo stesso, sminuiva il progresso tecnologico che, visto in prospettiva come frutto dell’intelligenza pura, appariva una variante dell’istinto, una sua specializzazione: «Quando e dove l’abitatore dei pianeti lontani comincerebbe a pensare che noi siamo essenzialmente diversi dai ragni tessitori e dalle lucciole fosforescenti?». Contrapponeva a tutto ciò il senso morale, fondato sulla libera volontà: «Ci sono tra gli uomini quelli che rinunziano a godere, perché altri non pianga, a mangiare, perché altri non digiuni, a vivere, perché altri non muoia». Ciò portava ad affermare l’avvento della buona novella come unico motore dell’unica evoluzione positiva: «Quando l’homo sapiens ha potuto divenire homo humanus? Per qual miracolo è avvenuto in questo selvaggio pianeta, dopo il fiero regno della ragione, il dolce regno del sentimento! Ecco l’avvento! Quel che è cominciato già, sebbene non abbia ancora conquistata tutta la terra, è il regno della pietà, cioè della volontà, cioè della libertà! Tutto lo dice e lo grida».

Un cristianesimo sociale

Devoto discepolo della pietas virgiliana, Pascoli raccoglieva la parola fondamentale del cristianesimo:

La pietà ha edificato tanti ospedali! tanti asili! tanti ricoveri! La pietà bussa alle grandi sale dorate, e tende le mani, e alza il suo lamento tra il soave fragor delle musiche e il blando avvolgimento delle danze. La pietà non permette già più di cenare in pace, perché Lazzaro piange alla porta del banchetto! La pietà non permette già più alla madre di contemplare in pace, tra i candidi merletti, il suo angioletto addormentato […] Ohi il suo sonno è così leggero: e nell’ombra, troppo vicino suona il querulo incessante innumerevole vagito dei bimbi che non hanno culla, che non hanno latte, che non hanno madre.

Senza alcuna incertezza, Pascoli rivendicava, sul terreno storico, la predicazione socialista come inveramento politico del cristianesimo, arrivando a citare Carlo Cafiero, che, malato, fuggiva la luce del sole ricordando i minatori che a quella luce non avevano accesso! Nel nome della pietà, socialismo e messaggio cristiano venivano a coincidere: «È la follia della croce, dunque; è la follia di S. Francesco». Ma l’arringa di Pascoli non si fermava qui, nel rivendicare la presenza nella storia dell’Avvento, la sua fertile semina, si spingeva, se non a contrapporre, a mettere in discussione il primato della Giustizia, come fondamento sociale, a scapito della Carità: «Se il vostro sistema non si basa se non sulla giustizia, ebbene rispettate oltre il bue di lavoro, oltre il mite agnello e il festoso capretto, tutte le vite: non uscite a passeggiare, per non calpestare le formiche, non vi muovete, non respirate, non vivete. La vita d’un essere è ineluttabilmente causa della morte di altri esseri. E le piante?». Invocava la massima evangelica del nolite iudicari: «La giustizia non comincia se non dove giunge la pietà». E con questo respingeva anche le derive “scientifiche” del socialismo, il marxismo, in quanto negando la pietà, negavano anche il fondamento delle loro rivendicazioni, e invocando la lotta di classe, esacerbavano l’odio tra gli uomini. E poteva concludere: «O tetra Apocalissi, io non credo in te, perché credo nella carità. Ecco la base del mio socialismo: il certo e continuo incremento della pietà nel cuore dell’uomo».

Nel “Piccolo Vangelo”, una sezione delle Poesie varie, raccolte dalla sorella e pubblicate nel 1913, Pascoli illustrava parabole e momenti della vita di Gesù con la candida volontà di tradurre la speranza in «un atomo di luce», controcanto a quel «atomo opaco del male» su cui il cosmo intero piange in “X Agosto”:

Bontà che viene d’animo profondo,

se bene è grande, piccola riluce,

come la stella, ch’è nel cielo un mondo

e sulla terra un atomo di luce.

In queste ultime liriche prevale l’elemento arboreo e animale, sempre presente comunque nella sua poesia, per mostrare la forza incoercibile e innocente della vita «il miele ch’è nel fiore della vita» (già in “Il vischio”, Primi poemetti: «ond’essa [l’ape] / fa, come io faccio, il miele di sua vita»):

In verità! non è così ritrosa

vita, che il fiore al tempo suo non metta:

e da l’irsuto bronco esce la rosa:

 

e tale è nuda e squallida e soletta

a gli occhi nostri, sopra ignave zolle,

che a l’ombra de le stelle d’oro aspetta

 

d’aprir l’olezzo de le sue corolle.

E mettendo in versi la parabola del grano e del loglio (zizzania), il poeta, correggeva il senso della parabola che in Matteo e nell’apocrifo di Tommaso allude alla presenza del bene e del male in terra, ma ne annuncia la separazione definitiva nel giorno del Giudizio. In un primo momento dunque, come in Matteo, Gesù dice che grano e loglio vanno lasciati crescere insieme per non rovinare il grano, ma al tempo della mietitura saranno separati e il loglio sarà gettato nel fuoco:

io dirò: “Ne’ granai solo il buon seme,

angioli, riponete; e il loglio sia

gittato al fuoco, ove si piange e freme!”

 

Ma ecco la variante pascoliana, quasi che Gesù

all’ultimo istante abbia un ripensamento:

 

Uno, che un fascio avea di loglio: “Via,

al fuoco!” disse. Ed egli tra un pio suono

d’acque e di frondi: “che nol porti a mia

 

madre? chè per le sue tortori è buono”.

L’improvvisa parola di Gesù, che destina il loglio non al fuoco ma alla madre che lo utilizzi per dar da mangiare alle tortore, è alquanto enigmatica, perché in contraddizione con quanto appena detto della sua destinazione. Ma non poi così tanto se si pensa all’ultima di queste poesie “Gesù”. L’assunto della poesia è «Se non è chi celi / sotterra il seme, non sarà chi mieta» (Gide: Si le grain ne meurt). Uno stuolo di bambini attornia Gesù che li stringe a sé: «Egli abbracciava i suoi piccoli eredi», ma Giuda lo mette in guardia: uno di loro è il figlio di Barabba, che morirà in croce:

Ma il Profeta, alzando gli occhi,

No, mormorò con l’ombra nella voce;

 

e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Si può interpretare lo scambio di battute tra Giuda e Gesù come un semplice equivoco, dato dal fatto che Giuda, moralista, prevedendo la morte ignominiosa del bandito non vuole che Gesù accosti il figlio del peccatore, mentre Gesù sa che sarà lui a prendere il posto ignominioso sulla croce destinato a Barabba. Più sottilmente, forse, Pascoli intende dire, come nella poesia precedente, che ciò che conta non è giudicare, separare il bene dal male, non tanto perché nella vita essi siano indissolubilmente confusi, ma perché una pietà suprema li accoglie e nel suo imperscrutabile disegno perdona.

Corpo a corpo con i classici

Tra il 1895 e il 1904 Pascoli compone e pubblica i Poemi Conviviali, che hanno come denominatore comune la contaminazione dei testi classici (da Omero a Esiodo a Virgilio), il gusto del pastiche, la grande sapienza compositiva e la non meno grande conoscenza della letteratura antica, sorretta da una rara perizia filologica, linguistica, metrica e da una memoria infallibile per la mitologia, che andava reinterpretando e innestando sui materiali dell’autobiografia riversata in Myricae, Primi poemetti, Canti di Castelvecchio, Odi e Inni. Chiudeva così con uno straordinario concerto grosso l’esperienza precedente, dove si era cimentato in tanti generi, quasi a voler esaurire le possibilità di un talento poetico unico e mai appagato.

Dall’elegia al pometto prosastico, dall’uso dell’endecasillabo alla reinvenzione dei metri greci e latini, non senza dare uno sguardo agli esiti moderni della poesia (da Poe a Hugo, da Heine a D’Annunzio) che avrebbe forgiato da par suo in un’officina che non ha paragone in tutta la letteratura europea. Chiudeva la raccolta “La buona Novella”, uscita una prima volta in rivista nel 1899 con il titolo “La Natività”, non tra gli esiti migliori della sua poesia, posta al termine di un lungo percorso che si stava concludendo, a sigillo di una poetica non meno che di una visione della realtà, non solo interiore.

In dialogo costante con il Leopardi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, il poemetto si divide in due parti: In oriente, che trae l’avvio dal passo di Luca 2, 8-19 sull’annuncio della venuta del Messia e narra l’apparire del bambino in terra d’Oriente:

Erano in alto nubi, pari a steli

di giglio, sopra Betlehem; già pronti

erano, in piedi, attoniti ed aneli,

 

i pastori guardando di sui monti,

e chi presso le tombe, onde una voce

uscìa di culla, e chi presso le fonti,

 

onde un tumulto scaturìa di foce:

e un angelo era, con le braccia stese,

tra loro, come un’alta esile croce,

 

bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese

Dio sulla terra». Ed a ciascuno il cuore

sobbalzò verso il bianco angelo, e prese

 

via per vedere il Grande che non muore,

come l’agnello che pur va carponi;

il Dio che vive tutto in sé, pastore

 

di taciturne costellazïoni.

In forte contrasto, alla scena crepuscolare che illumina i pastori che vegliano in attesa nel fiabesco Oriente, si contrappone nella seconda parte, “In Occidente”, la cupa e fonda notte di Roma «bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro», con i suoi dèi chiusi nei templi, «l’aquile che predavano lontane. / Roma dormiva, ebbra di sangue». Gli schiavi dormono sognando la terra natale lontana:

ed ogni schiavo dalla tarda sera

dormiva, udendo ventilar grandi ali,

 

e gracidare. Erano cigni a schiera

sul patrio fiume… No: su l’Esquilino

erano corvi in una nube nera.

Il richiamo va a “Le Cygne” di Baudelaire, alle tre figure della povertà e dell’umiliazione ritratte dal poeta francese: Andromaca, la sposa di Ettore che dopo la caduta di Troia diventa schiava e concubina di Neottolemo; il cigno fuggito dalla gabbia che si trascina a stento nel secco rigagnolo; e la nera tisica che sogna oltre l’ovattato muro della nebbia cittadina la sua Africa lussureggiante. E come Baudelaire si rivolge «Aux captifs, aux vaincus» («Ai prigionieri, ai vinti»), così Pascoli immagina il gladiatore morente, figura che ricorre anche nelle sue liriche in latino e che può aver visto esemplata nel marmo del Galata morente ai Musei Capitolini, citato da Henry James in The Portrait of a Lady come Dying Gladiator, o nel Galata suicida del Museo Nazionale Romano. Un Geta, che nell’agonia è l’unico a raccogliere l’annuncio degli angeli:

E venne bianco nella notte azzurra

un angelo dal cielo di Giudea,

a nunzïar la pace; e la Suburra

non l’udiva…

 

E nella infinita urbe de’ forti

sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace.

Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,

e i morti ai morti, e le tombe alle tombe

e non sapeano i sette colli assorti,

 

ciò che voi sapevate, o catacombe.

Fedele alla sua idea di poesia, Pascoli non poteva, al di là di ogni remora di pensiero e di individualismo refrattario ai dogmi (tutti i dogmi), rinunciare alla visione cristiana, che permetteva di tenere insieme il dolore per le creature, l’ammirazione per la natura e la speranza. La sua percezione della realtà fu saldamente romantica (avrebbe condiviso il detto di García Lorca: El poeta es el medium de la natura), la sua coscienza rimase protocristiana, senza alcuna contraddizione, perché in lui la speranza, nata dal dolore, fu più forte della caduta di ogni illusione.

I nuovi poemetti

In uno dei momenti apicali del suo pensiero tradotto in versi, “La vertigine” (Nuovi Poemetti, 1909), tornerà sul sentimento pascaliano dell’abisso, ripreso da Leopardi: «Cade, risorge, e più e più s’affretta, / Senza posa o ristoro, / Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva / Colà dove la via / E dove il tanto affaticar fu volto: / Abisso orrido, immenso, / Ov’ei precipitando, il tutto obblia». […]

Altre volte Pascoli ha rappresentato il «cupo vortice di mondi» (e di nuovo viene in mente l’analoga sensazione di smarrimento, la visione zenitale di Flaubert in tante sue opere giovanili e nella Tentazione di sant’Antonio), che la scienza nuova con i suoi strumenti sempre più raffinati ci mostra quasi a rimarcare la nostra marginale impotenza, ma la clausola della poesia non lascia dubbi sul sentimento opposto che tale insondabile infinitezza genera nell’anima, ancora una volta in contrasto con la sconsolata visione di Leopardi:

veder d’attimo in attimo più chiare

le costellazioni, il firmamento

crescere sotto il mio precipitare!

precipitare languido, sgomento,

nullo, senza più peso e senza senso.

sprofondar d’un millennio ogni momento!

di là da ciò che vedo e ciò che penso,

non trovar fondo, non trovar mai posa,

da spazio immenso ad altro spazio immenso;

forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?

La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,

io te, di nebulosa in nebulosa,

di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!