Giovanna Razzano è professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e pubblico all’Università La Sapienza di Roma e componente del Comitato Nazionale per la Bioetica. Fra le sue materie di ricerca vi sono i diritti inviolabili e le questioni bioetiche di inizio e di fine vita. In questo studio affronta l’argomento del suicidio medicalmente assistito evidenziando come sia una pratica che tradisce la finalità della medicina e il principio secondo cui «la dignità della persona è assoluta, intrinseca, e sussiste anche quando l’altro non è autosufficiente o capace». Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Dignità nel morire, eutanasia e cure palliative nella prospettiva costituzionale (Giappichelli, Torino 2014); La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT, fra libertà di cura e rischio di innesti eutanasici (Giappichelli, Torino 2019); da ultimo ha curato il volume: La missione salute del PNRR: opportunità e prospettive (Jovene, Napoli 2024).

Prendersi cura di qualcuno significa dare vita a una relazione significativa dal punto di vista etico, per diversi motivi. Il primo attiene al presupposto stesso della relazione di cura: la vulnerabilità dell’essere umano e il bisogno dell’aiuto altrui. Si tratta di una condizione esistenziale e non di una circostanza eventuale. Com’è stato osservato,

la cura è esperienza autenticamente universale non come “prendersi cura”, ma come “essere preso in cura”. Ogni essere umano, dal momento della nascita, è stato “preso in cura” da qualcuno. La cura è dunque la condizione della stessa esistenza1.

Si tratta di una constatazione, a sua volta, densa di implicazioni e solo apparentemente ovvia. È indicativo, per esempio, che un’importante Raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del 1999, incentrata sulla tutela della dignità dei pazienti terminali e dei morenti, e quindi sulle questioni etiche di fine vita, abbia voluto richiamare l’attenzione sul fatto che, così come l’essere umano comincia la sua esistenza nella fragilità e nella dipendenza, allo stesso modo necessita di protezione e di supporto alla fine della vita2. Ne consegue, allora, secondo l’organismo europeo, che è proprio in rapporto ai più vulnerabili che occorre garantire cure adeguate, e che proprio nei loro confronti dev’essere garantito il diritto alla vita tutelato dall’art. 2 della Convenzione europea per i diritti umani3.

In secondo luogo, la cura dell’altro rivela l’importanza della persona, meritevole di attenzione a prescindere dalla condizione di bisogno in cui si trovi. Questo lascia intendere che la dignità della persona è assoluta, intrinseca, e sussiste anche quando l’altro non è autosufficiente o capace4.

Infine, la relazione di cura mostra come l’essere umano viva di relazioni, di legami, di condivisione e di solidarietà. All’opposto si colloca il prototipo dell’individuo autodeterminato, indipendente e solo, che non ha avuto e non avrà bisogno di nessuno. Un prototipo più ideologico che reale.

Queste poche osservazioni costituiscono il cuore della prospettiva personalista, quella secondo cui l’essere e la dignità della persona sono valori assoluti, indipendenti dalle condizioni personali e sociali. Si tratta di un valore «carico di infinito», e anche di un principio fondamentale della tradizione morale cattolica, alla luce della Creazione, dell’Incarnazione e della Redenzione5, che rivelano come Dio stesso si prenda cura dell’uomo. Un’eredità di straordinaria importanza per l’Europa, per l’intero Occidente, e per la stessa idea dei diritti umani. È dall’assolutezza della dignità della persona umana che deriva il dovere morale di promuovere l’essere e la preziosità di ciascuna persona, in quanto persona6.

Forse è una canzone – La cura di Franco Battiato – a essere riuscita a racchiudere tutto questo in due versi: «Perché sei un essere speciale / Ed io avrò cura di te».

La prospettiva giuridica

Accanto al senso etico e poetico, il prendersi cura dell’altro è un comportamento ricco di significato anche nella prospettiva giuridica, specialmente in quella del diritto costituzionale. Fra l’altro, non va dimenticato che la presenza significativa dei cattolici in Assemblea costituente fu determinante per configurare i diritti, i doveri e le libertà alla luce dei princìpi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona umana, il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà. La Costituzione italiana non sarebbe quella che è – “la più bella del mondo” – se i cattolici avessero lasciato fuori da Palazzo Montecitorio la propria coscienza e non avessero proposto con convinzione le loro idee, mostrandone il valore universale, razionale e laico, giungendo così a soluzioni condivise di grande valore etico e giuridico.

Indicativo, al riguardo, è il dibattito che ebbe luogo in seno alla Prima Sottocommissione dell’Assemblea costituente il 9 settembre 1946. Non solo coloro che si ispiravano alla Dottrina sociale cristiana, ma anche esponenti marxisti giunsero alle medesime conclusioni in merito alla priorità della persona umana e all’inadeguatezza delle ideologie individualiste. Si legge infatti nel resoconto stenografico che la Commissione, nell’esaminare un’impostazione sistematica su di una possibile dichiarazione relativa ai diritti dell’uomo,

esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualista; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche cui il nuovo Statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che riconosca la precedenza sostanziale della persona rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella.

Quanto alla «visione totalitaria», Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, aveva affermato poco prima, durante il dibattito, che, per quanto lo riguardava,

lo Stato è un fenomeno storico, storicamente determinato, e la dottrina che egli rappresenta sostiene che lo Stato, a un certo momento, dovrebbe scomparire; mentre sarebbe assurdo si pensasse che debba scomparire la persona umana.

Quanto alla visione «esclusivamente individualista», il relatore Lelio Basso, esponente del Partito socialista di unità proletaria, osservò che

tutta la filosofia moderna ha superato nel concetto di personalità il concetto della individualità […]; la individualità dal punto di vista filosofico e giuridico si riferisce a un ipotetico uomo isolato. La persona non può essere considerata giuridicamente se non in funzione delle molteplici relazioni, non soltanto materiali ma anche spirituali e, volendo, anche extramondane, che essa ha con il mondo in cui vive, sia in riferimento al presente, che all’avvenire e anche al passato.

Come si vede, la Costituzione rappresenta l’incontro di diversi umanesimi, come ebbe a dire Aldo Moro. E può aggiungersi che la valorizzazione giuridica delle relazioni di cura – a cominciare da quelle che nascono nella famiglia7 – ne rappresenti la cifra più alta. Emblematici, in tal senso, sono l’art. 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica, dopo aver affermato di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo «sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità», richiede l’adempimento dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; l’art. 3, che afferma la pari dignità sociale, e richiede allo Stato azioni volte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana; l’art. 4, per cui «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»8; l’art. 38, per il quale gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Le scelte compiute dai Costituenti non erano scontate.

Negli stessi anni in cui lavorava l’Assemblea costituente, Jean-Paul Sartre scriveva: «All’inizio è assolutamente niente»9; «L’uomo è solo perché non ha alcuna possibilità di appoggiarsi su un qualche cosa, né al di fuori, né dentro di sé»10; «Siamo soli, senza rimedio»11; «L’abbandono giustamente si presenta come angoscia»12; «Dire che noi stessi creiamo i valori non significa tuttavia che la vita abbia un qualche senso a priori»13. Non mancava, insomma, l’influenza di “altri umanesimi” del tutto distanti dal paradigma della cura, perché incentrati sull’autonomia dell’individuo e sulla sua autosufficienza. Fra questi, merita attenzione il nichilismo, perché le relative tesi sul non senso, sullo scetticismo, e al tempo stesso sulla volontà di potenza, esercitano tuttora un grande influsso culturale. Scriveva Friedrich Nietzsche: «Io voglio insegnare il pensiero che dà a molti il diritto di sopprimersi – il grande pensiero che seleziona e disciplina»14.

Diritto alla vita e cure palliative

Accogliere, quindi, il paradigma della cura, per i Costituenti, fu una scelta. Preferirono fondare l’uguaglianza sulla solida base della dignità intrinseca di ogni essere umano e sulla solidarietà. Anche oggi, dinanzi alle sfide poste dalla cultura nichilista, occorre tornare a scegliere quale civiltà costruire.

Questo vale, in particolare, per le questioni di fine vita. Si discute da diversi anni, infatti, dell’ipotesi di legalizzare l’assistenza al suicidio, e di ottenere dalle strutture pubbliche del Sistema sanitario nazionale l’aiuto a morire, che da reato passerebbe a essere un diritto o “una procedura garantita”. La prospettiva viene giustificata, paradossalmente, proprio in base al principio di dignità umana e di autodeterminazione del paziente. Sarebbe indegna di essere vissuta, infatti, una vita molto sofferente. Si sostiene, inoltre, che così come il paziente ha il diritto di rifiutare trattamenti sanitari salva-vita, allo stesso modo dovrebbe potere accedere a un farmaco che procuri la morte in modo rapido.

In realtà, si tratta di situazioni profondamente diverse. Solo in quest’ultimo caso si è chiaramente dinanzi all’uccisione intenzionale di un essere umano dipendente, al quale un medico procura la morte. Quando invece il paziente rinuncia a trattamenti sanitari sproporzionati, manca l’intenzione di porre fine alla vita. Più ancora, nella prospettiva personalista, è lecita la rinuncia a trattamenti sanitari gravosi e straordinari, per quanto ne possa conseguire la morte; non si tratta, infatti, di rifiuto della vita, ma di accettazione del suo limite.

In una società solidale, dinanzi alla fragilità, alla malattia, al dolore, al decadimento fisico, occorre vicinanza, supporto, presenza. E occorrono cure, come quelle palliative, che si facciano carico della globalità della condizione dei malati gravi, che comporta sofferenze fisiche, psicologiche, sociali, spirituali. In molti casi queste cure prevengono la richiesta di morire. Richiesta che merita di essere accuratamente vagliata. Alla base vi sono spesso la paura di essere di peso ai propri cari e l’incapacità di dare un senso all’ultima fase dell’esistenza. Il desiderio di morire, poi, è oscillante, e frequenti sono i ripensamenti15. Fra l’altro, la stessa condizione patologica, insieme all’effetto di alcuni farmaci, incide sulla condizione mentale che permette l’esercizio effettivamente libero dello stesso diritto di scelta16. È fondamentale, insomma, come affermato dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa, che il diritto alla vita e le cure adeguate siano garantiti specialmente a chi si trova nell’ultimo tratto dell’esistenza.

Questo non va solo a beneficio del paziente, ma di tutti coloro che lo circondano. Porre deliberatamente fine a un’esistenza produce effetti che non ricadono solo su chi muore, ma anche su chi resta, e persino sulle generazioni future. Si viene meno alla responsabilità etica, giuridica e sociale rispetto al riconoscimento della dignità della persona malata e in condizioni estreme. La relazione di cura, e la relazione terapeutica in particolare, sono un bene sociale e non meramente individuale. Legalizzare, quindi, l’aiuto al suicidio, sia pure nei confronti di alcuni pazienti, determina conseguenze su tutti. Non è una questione privata.

Inoltre, quanto più si cerca di rassicurare l’opinione pubblica, sottolineando che l’assistenza al suicidio verrebbe praticata solo in alcuni casi, ben delimitati, circoscritti ed eccezionali – una sorta di suicidio assistito “buono”, “misurato” e “accettabile” – tanto più appare evidente la discriminazione che questa pratica porta inevitabilmente con sé: solo nei confronti di persone particolarmente malate non sarebbe un crimine anticiparne la morte. Dinanzi a certe vite e a certi malati diventerebbe quindi legittimo un comportamento che, altrimenti, sarebbe un reato. Vi sarebbero persone – poche, forse – la cui vita non sarebbe degna di essere vissuta. La dignità umana non sarebbe più, dunque, una caratteristica universale di ogni essere umano, ma dipenderebbe dalle condizioni in cui si trova.

Quel «pensiero che dà a molti il diritto di sopprimersi», è davvero un «pensiero che seleziona e disciplina».

L’aiuto sanitario al suicidio: tradimento del fine della medicina

La volontà di rendere “sanitaria” la pratica dell’aiuto al suicidio, e di inserirla all’interno di una relazione di cura, individuando nel medico il soggetto esecutore, è un’aggravante, perché distorce una relazione, quella fra medico e paziente, che è immagine della solidarietà. Significa tradire la stessa finalità della medicina, che viene in tal modo privata del suo contenuto più profondo, quello della cura: «Pro vita contra dolorem semper» è il motto della Siaarti17. Un semper che verrebbe meno, portando via con sé anche l’aspettativa dei cittadini rispetto all’orientamento alla cura del Sistema sanitario nazionale.

Anche nella prospettiva della medicina che si basa sulle migliori evidenze scientifiche (Ebm) l’aiuto al suicidio appare inaccettabile: su quali prove di efficacia clinica si baserebbe un simile trattamento? Non è un caso che l’Associazione medica mondiale, la Wma, cui afferiscono milioni di medici nel mondo, escluda che suicidio assistito ed eutanasia possano qualificarsi come cure18. E non è un caso che i medici continuino a pronunciare il giuramento di Ippocrate, databile intorno al IV secolo a.C., secondo cui si promette: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio». Tale giuramento non solo segna il passaggio dalla medicina mitologica a quella scientifica, ma mostra, soprattutto, che assecondare la richiesta di morte proveniente dal paziente stesso è una tentazione antica, eppure da sempre percepita come una corruzione della professione sanitaria.

Come si vede, non è possibile una legalizzazione del suicidio assistito – per quanto limitata a casi estremi – senza con ciò scardinare, insieme con l’orientamento di senso della medicina, uno dei fondamenti del vivere civile: il riconoscimento della dignità umana a prescindere dalle condizioni in cui si trova la persona, per il solo fatto che è sempre un essere speciale, che merita cura anche se non potrà guarire. Il principio di uguaglianza esige di riconoscere la dignità a tutti in ragione della sola «astratta nudità dell’essere umano», per dirla con Hannah Arendt.

Di questo è consapevole la stessa Corte costituzionale, la quale, se è vero che, da un lato, ha dichiarato non punibile il reato di aiuto al suicidio ove praticato in talune circostanze (chiedendo altresì al legislatore di introdurre una disciplina in tal senso)19, dall’altra, in una più recente occasione, si è dimostrata consapevole degli effetti sociali che comporta la legalizzazione del suicidio assistito. Ha affermato, infatti, che

i rischi in questione non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una “pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte20.

È molto difficile – direi impossibile – introdurre una disciplina legislativa che introduca procedure che consentano di praticare impunemente, a talune condizioni, l’aiuto al suicidio, e allo stesso tempo non determinare “una pressione sociale indiretta” su quei malati che, secondo tale legge, avrebbero le condizioni per essere “suicidabili”. Fra l’altro l’esperienza di alcuni Paesi – come quelli del Benelux – che hanno legalizzato l’eutanasia da oltre vent’anni, dovrebbe suggerire grande prudenza, perché risulta chiaro che, nonostante paletti e procedure, si assiste nel tempo a un’estensione dei casi leciti oltre quelli inizialmente previsti e a un aumento geometrico delle morti procurate. Per l’Italia, Paese con una popolazione anziana in grande crescita, si prospetterebbero effetti ancor più devastanti, visto che non solo le cure palliative, ma anche l’assistenza socio-sanitaria, in molte parti del territorio nazionale, è carente, e tanti vivono in solitudine e povertà.

Talvolta occorre effettuare delle scelte e saper dire “mai”. Nessuno, per esempio, è disposto ad accettare deroghe al divieto di pena di morte, neppure in casi limitati, neppure se tale fine – la morte rapida – fosse chiesta dallo stesso detenuto, neppure se costui fosse capace di prendere decisioni libere e consapevoli e vivesse in condizioni oggettivamente dolorose; e neppure per tentare una mediazione politica con chi, in ipotesi, propugnasse tali soluzioni. Mai, dunque, è accettabile procurare intenzionalmente la morte di un detenuto, neppure se fosse lui stesso a preferirla rispetto alla sua condizione di vita. Allo stesso modo non sono mai ammissibili deroghe al divieto di procurare intenzionalmente la morte di un paziente, neppure su sua richiesta.

La priorità della persona, la dignità di ogni essere umano, il paradigma dell’inclusione e del prendersi cura non possono mai tollerare eccezioni e permettere che la risposta alla disperazione delle persone sia l’eliminazione delle stesse. Occorre avere lo stesso coraggio che ebbero i padri e le madri costituenti nel rifiutare certi “umanesimi”, affinché il futuro della nostra società sia autenticamente umano.


1
L. Palazzani, Cura e giustizia, Edizioni Studium, Roma 2017, p. 50.

2 Raccomandazione n. 1418/1999, Protection of the human rights and dignity of the terminally ill and the dying.

3 Ibidem.

4 M. Gensabella Furnari, Lineamenti di una bioetica della cura, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2023.

5 I. Carrasco De Paula, Sul personalismo ontologicamente fondato: un contributo di Sgreccia alla bioetica, in Vita, Ragione, Dialogo. Scritti in onore di Elio Sgreccia, Edizioni Cantagalli, Siena 2012, p. 43.

6 Ivi, p. 47.

7 Cfr l’art. 29 Cost., secondo cui la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio; l’art. 30, che prevede il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, e l’art. 37, secondo cui le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

8 In continuità e coerenza con un’impostazione che vede la persona umana non come individuo isolato, ma come un essere “per” l’altro, è anche, dopo la riforma costituzionale del 2001, l’ultimo comma dell’art. 118, per cui «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

9 G.P. Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946, p. 22.

10 Ivi, p. 37.

11 Ibidem.

12 Ivi, p. 49.

13 Ivi, p. 89.

14 F. Nietzsche, La volontà di potenza (1901), Bompiani, Milano 2008, p. 555.

15 A. Belar, M. Martinez, C. Centeno et al., Wish to die and hasten death in palliative care: a cross-sectional study factor analysis, “BMJ Supportive et Palliative Care”, doi: 10.1136/bmjspcare-2021-003080; A. Balaguer, C. Monforte-Royo, J. Porta-Sales, A. Alonso-Babarro, R. Altisent, A. Aradilla-Herrero et al. (2016), An International Consensus Definition of the Wish to Hasten Death and Its Related Factors, “PLoS ONE” 11(1): e0146184. doi:10.1371/journal.pone.0146184

16 Cfr al riguardo G. Bersani, Malattia, desiderio di morte e depressione: la necessità di valutazione clinica e di riflessione etica sul confine tra diritto di scelta e diritto alla cura, “Medicina e morale”, n. 6 (2011).

17 Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva.

18 www.wma.net/policies-post/declaration-on-euthanasia-and-physician-assisted-suicide/

19 Sent. n. 242/2019.

20 Sent. n. 135/2024, punto 7.2.