C’è una pagina dell’“Osservatore Romano” del 22-23 agosto 1960 intitolata all’Africa, quando l’“Osservatore” pubblicava periodicamente rassegne speciali di politica estera. Il formato del giornale era quello “a lenzuolo” di una volta, in grado di ospitare una quantità di notizie rispetto ai tabloid di oggi. La pagina conteneva una grande cartina del continente con il tratteggio degli Stati indipendenti, i Dipartimenti francesi e le Province spagnole e portoghesi, i tanti Territori a vario titolo non indipendenti. Affianco e intorno, una legenda della cartina elencava i diversi tipi di dominazione ai quali i Paesi africani erano sottoposti, compresi il Commonwealth, le Colonie e i Protettorati inglesi, i Territori d’Oltre mare della Francia, i Paesi sotto tutela delle Nazioni Unite.

Era l’eloquente rappresentazione di quanto l’Africa fosse nelle mani delle dominazioni europee, sottomessa ai nostri interessi di antico e nuovo colonialismo. A riguardarla oltre sessanta anni dopo, quella pagina spiega il perché oggi delle tante contraddizioni africane alle quali assistiamo e delle ondate di migrazioni che attraversano il Mediterraneo con il carico di drammi che conosciamo. Negli anni scorsi lo storico Gabriele De Rosa aveva riassunto in una formula incisiva questa condizione: «È necessario che l’Europa non si chiuda in sé stessa alla ricerca di un benessere più diffuso, quando ai suoi confini meridionali c’è disparità e discriminazione. Ecco perché l’Europa dovrebbe incominciare a fare una politica il cui termine principale – semplifichiamolo pure – è donare. L’Europa ha già ricevuto».

Le prospettive demografiche

Si tratta insieme di una generosità e di una necessità politica. I numeri sono incontrovertibili nel loro significato. Antonio Golini è un grande caposcuola della demografia italiana, nelle sue ricerche è sempre stato attento alle dinamiche della popolazione europea e di quella africana, considerando un arco di tempo fra il 1950 e il 2050.

Nel 1950 l’Europa, Russia compresa, contava 547 milioni di abitanti mentre il Nord Africa ne contava 53 milioni e l’Africa sub-sahariana 183 milioni. L’Europa è salita a 733 milioni nel 2010, il Nord Africa a 213 milioni, l’Africa sub-sahariana a 863 milioni. Nel 2050, che in termini di proiezione storica e di agenda politica è domani, l’Europa diminuirà a 691 milioni di abitanti, il Nord Africa salirà a 321 milioni, la fascia sub-sahariana esploderà a un miliardo 753 milioni di abitanti. Le stime tengono già conto di un consistente afflusso di immigrati in Europa e di un consistente deflusso dall’Africa.

Queste prospettive demografiche indicano un terremoto geopolitico. Ecco perché, secondo il professor Golini, è meglio parlare ormai di un unico continente euro-africano. C’è un dato biologico: in Africa l’età media della popolazione è vent’anni, in Europa è quarantadue e mezzo, in Italia è quarantaquattro anni. Dal 2015, ricorda a sua volta il direttore di “Limes” Lucio Caracciolo, la popolazione italiana diminuisce ogni anno. Vuol dire che senza l’apporto degli immigrati saremo condannati al declino. Il dinamismo genetico segna la storia umana a prescindere dalle nostre pregiudiziali verso una politica di integrazione. Secondo la Banca d’Italia, per mantenere i nostri livelli economici e di welfare, abbiamo bisogno ormai di oltre duecentomila stranieri l’anno.

A cosa serve il Piano Mattei

Entro questo complesso quadro, il governo italiano si è fatto protagonista di una iniziativa volta all’Africa, chiamata “Piano Mattei” dal nome di Enrico Mattei protagonista, negli anni Cinquanta del secolo scorso, di una coraggiosa politica energetica, e non solo, nei confronti dei Paesi africani, che ribaltava le logiche speculative degli altri attori del mercato, le potenti “sette sorelle”. Per questo non si è mai rimarginata la ferita provocata dalla improvvisa e drammatica morte del suo protagonista. Alcune parti politiche hanno protestato per il nome dato all’iniziativa dal governo, che garantirebbe di per sé un preventivo ritorno positivo di immagine, al di là dei risultati che saranno ottenuti.

Il piano Mattei ha la sua data d’inizio venerdì 3 novembre 2023. Quel giorno il Consiglio dei ministri approva un decreto-legge per la collaborazione con Stati africani della durata quadriennale. Il piano prevede una serie di partenariati su un vasto ventaglio di settori: dalla cooperazione allo sviluppo, l’istruzione e la formazione professionale, dalla salute, l’agricoltura e la sicurezza alimentare al sostegno dell’imprenditoria, dal contrasto all’immigrazione irregolare alla gestione di flussi migratori legali. La dotazione prevista negli anni è di alcuni miliardi di euro.

La struttura

Le due braccia operative dell’iniziativa sono una cabina di regia e una struttura di missione, che ogni mese di giugno dovrà presentare al Parlamento il rendiconto annuo di quanto si sta facendo. La cabina di regia è composta da numerosi ministeri e altre istituzioni pubbliche, aziende di Stato, aziende private, università, centri di ricerca, soggetti del Terzo Settore. Si è insediata venerdì 15 marzo scorso alla presenza della presidente del consiglio Giorgia Meloni che ne ha definito il compito: «La cabina di regia deve coordinare l’attività del Governo nei confronti delle Nazioni africane».

Gli Stati individuati per iniziare sono nove: Algeria, Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Mozambico e Tunisia. Una seconda riunione della cabina di regia si è tenuta mercoledì 24 aprile scorso, presieduta dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, per fare il punto sulle prime missioni del governo per l’avvio del piano in Egitto, il 17 marzo, e in Tunisia, il 17 aprile, missioni che hanno portato alla firma di una serie di intese su alcuni dei settori previsti dal piano: agricoltura, acqua, formazione.

La politica dei centri concentrici

Fin qui i primi dati di cronaca, rispetto ai quali è prematuro un giudizio di insieme, ma non una considerazione di metodo sul complesso dei rapporti Italia-Africa, perché essi si inseriscano in una dinamica più ampia ed efficace, oltre la volontà del singolo Stato italiano. Problemi di portata generale si affrontano con logiche di carattere generale e non con iniziative unilaterali. Possiamo definirla la necessità di una politica dei cerchi concentrici. Il 28 e 29 gennaio scorso il governo ha convocato un vertice Italia-Africa, al quale hanno partecipato quarantasei Paesi africani. Al ricevimento offerto al Quirinale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha citato un proverbio africano: «Se vuoi andare veloce corri da solo. Se vuoi andare lontano vai insieme a qualcuno».

È la politica dei centri concentrici. L’iniziativa italiana avrà tanto più successo, quanto più sarà coordinata con il contesto più ampio costituito dal sistema già esistente di relazioni fra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Nel febbraio 2022, i rappresentanti delle due Unioni hanno concordato la necessità di una svolta nei rapporti per una visione comune dei problemi. L’intesa è stata suggellata da uno stanziamento di centocinquanta miliardi di euro da destinare ai settori della sicurezza, della pace, dello sviluppo economico sostenibile.

A loro volta, le intese fra UE e UA vanno inserite nell’“Agenda 2030”: il progetto dell’Onu sottoscritto nel 2015 da centonovantatrè Paesi delle Nazioni Unite. Il cerchio si allarga dunque al più ambizioso progetto esistente per raggiungere, nei prossimi anni, diciassette grandi obiettivi (Sustainable Development Goals) di sviluppo sostenibile, articolati in centosessantanove sotto obiettivi.

Agenda 2030

Gli obiettivi posti, specie quelli riguardanti la lotta alla povertà, alla fame, al cambiamento climatico, appaiono scritti su misura per una larga parte dell’Africa, quella dei Paesi della fascia sub-sahariana, che nei prossimi anni saranno i protagonisti del più massiccio aumento demografico e versano, insieme, nelle più miserabili condizioni socio economiche. Il Club di Roma fondato da Aurelio Peccei aveva posto questi problemi già negli anni Settanta del secolo scorso, con il rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato al Mit, Massachusetts Institute of Technology, una delle più celebri università americane.

Ha un titolo affascinante l’Agenda 2030: “Trasformare il nostro mondo”. Tutto ciò richiede un cambio di passo da una visione economicistica dei problemi e delle soluzioni a una umanistica e non più settoriale. «Siamo determinati – recita l’incipit del progetto – a porre fine alla povertà e alla fame, in tutte le loro forme e dimensioni, e ad assicurare che tutti gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità ed eguaglianza, in un ambiente sano».

Conclusioni

L’Africa è un banco di prova di tutto questo, con i suoi diversi profili: le povertà estreme della fascia sub-sahariana, ma anche il continente che possiede il 60% di metalli e terre rare, il 60% di terre arabili, un capitale umano giovane e proiettato verso il futuro e ogni forma di innovazione. Il 90% delle migrazioni africane si svolge all’interno del continente.

L’auspicio è che il Piano Mattei si connetta e interagisca con questi più ampi contesti internazionali di azione verso l’Africa. L’Italia ha una proiezione geopolitica ideale per essere centro e punto di raccordo delle diverse iniziative. Il Mediterraneo di nuovo “Mare Nostrum”: di coesistenza pacifica e di sviluppo, ponte e non barriera di relazioni, fattore di libertà e di affrancamento da antichi e nuovi colonialismi.