Le emozioni sono come indici di qualcosa che sta avvenendo, in noi e fuori di noi. Dovrebbero funzionare per proteggerci, ma se si alterano diventano patologie mentali. Possiamo essere dominati e vinti da emozioni che rischiano di diventare invalidanti, come gli attacchi di panico, oppure possiamo “volare le emozioni” quando esse diventano occasioni di cambiamento e di conoscenza, di me e dell’altro. Vittoria Lugli, autrice di In volo con le emozioni. Un nuovo approccio per gestire le emergenze della vita (San Paolo, 2023), grazie alla sua straordinaria sensibilità e all’esperienza ultradecennale con l’Aeronautica militare italiana per la formazione dei piloti cacciabombardieri sugli imprevisti di volo e nell’impiego in operazioni fuori area, ci apre a una prospettiva veramente inedita. Dai pazienti che hanno vissuto traumi infantili gravi e profondi e dall’esperienza personale dell’autrice, impariamo che le ferite psichiche possono essere la strada per arrivare a essere persone speciali, ricche di doni e di carisma. Vittoria Lugli è psicologa, psicoterapeuta, esperta di terapia sistemico-relazionale per la famiglia, le coppie e le dinamiche intrafamiliari. Ha ricoperto incarichi di responsabilità nell’Ufficio Servizi per la Tutela del Minore della Diocesi di Roma.
Ci puoi aiutare a capire cosa intendi per “intelligenza emotiva”? Viviamo in un mare magnum di emozioni, dove l’emozione sembra ricercata come un analgesico, per colmare un vuoto, per sopravvivere a un dolore. Invece tu parli di emozione in nesso con la ragione.
Quando parlo di intelligenza emotiva faccio riferimento allo psicologo americano Daniel Goleman (Emotional Intelligence: Why It Can Matter More Than IQ, edizione rivista 2006) il quale dice che nella vita noi procediamo come un aeroplano che ha due ali: da una parte voliamo con tutte le nostre emozioni, e quindi anche con la paura, la rabbia, il disgusto, la tristezza, ma contemporaneamente ci muoviamo grazie all’altra ala, che è la parte della ragione.
Ovvero, le nostre emozioni vanno percepite, bisogna capirne il significato, recuperare gli strumenti per riuscire ad affrontarle. Per esempio, consideriamo la paura: non necessariamente gli esiti della paura sono la fuga o l’attacco. La paura segnala un pericolo percepito, ma dobbiamo capire quali paure dobbiamo affrontare come tali e quali invece sono segnali preziosi che ci indicano la prudenza rispetto alla circostanza. Se sto prendendo una strada in contromano, per esempio, la paura che provo è ciò che mi aiuta a capire che non devo imboccarla in quella direzione.
Le emozioni sono segnali molto forti, un po’ come una guardia del corpo di cui la natura ci ha dotati, sono emergenze che devono essere supervisionate e gestite dalla nostra parte razionale. Emozioni e ragione sono proprio come le due ali di un aeroplano e noi sappiamo bene che un buon volo è assicurato dalla buona prestazione di entrambe.
L’immagine dell’aeroplano ti viene anche dalla tua esperienza professionale?
Sì, ho avuto la fortuna di lavorare con l’Aeronautica Militare Italiana: i piloti sono persone sane, addestrate, motivate. Viaggiando fino a 900 km orari non possono assumere psicofarmaci, non possono, cioè, contare sull’ausilio farmacologico per gestire le forti emozioni che sperimentano in volo. Lavorando con loro ho potuto vedere quante risorse meravigliose l’uomo possiede. Inoltre, ho avuto la grande opportunità di osservarli sia prima sia dopo gli incidenti di volo e quindi ho visto chiaramente che certi fenomeni non hanno natura genetica ma sono generati da eventi traumatici. Per intenderci, è la stessa dinamica che ho visto accadere in scala mondiale a causa della pandemia di Covid-19, un evento altamente traumatico, che ha modificato la connotazione emotiva delle persone, soprattutto dei bambini e degli adolescenti.
Come possiamo sviluppare l’intelligenza emotiva?
Se vogliamo mantenere il paragone con i piloti, l’intelligenza emotiva è frutto di un addestramento, o comunque di una formazione perché tutti viviamo emozioni ma non tutti abbiamo una formazione adeguata per poterle percepire, per poterne capire il significato e quindi per saperle gestire. È come essere predisposti all’apprendimento delle lingue: questo non significa che conosciamo le lingue, abbiamo comunque bisogno di qualcuno che ce ne insegni la grammatica, la sintassi e poi anche l’uso per cui occorrono allenamento e pratica.
Ugualmente avviene per l’intelligenza emotiva: siamo dotati di una predisposizione a essa, ma occorre che qualcuno ci educhi a esercitarla. E-ducere alla lettera significa condurre per mano, tirare fuori. Il problema è che oggi siamo immersi in un grave analfabetismo emotivo. Le persone sono analfabete dal punto di vista emotivo perché non conoscono le loro emozioni e ogni qual volta emerge la criticità di una emozione disorientante, come l’ansia o la paura, si fa ricorso a un farmaco specifico per “risolverla”. Questo contribuisce a una mancata conoscenza dell’emozione specifica, che sfocia in un timore e in una incapacità di affrontarla e di gestirla.
La cosa bella è che le storie dei pazienti che riporti nel tuo libro fanno capire che è possibile sviluppare questa abilità lungo tutto il corso della nostra vita…
Certo, su questo punto ho citato Eric Richard Kandel, neuroscienziato e Premio Nobel per la Medicina nel 2000. Kandel ha dimostrato che una riscrittura del cervello è sempre possibile, sostenendo la plasticità del cervello dal momento della nascita fino a quello della morte. Studiando il condizionamento della paura sulle connessioni sinaptiche del cervello, ha anche mostrato che la psicoterapia è in grado di ricondizionare il cervello introducendo nuove abitudini emotive. Tutto è potenzialmente “riscrivibile”, sia la parte cognitiva sia quella emotiva. È una scoperta bellissima che apre a una grande speranza.
Tu parli di “patologia della normalità”. La sensazione è che in ogni realtà comunitaria (famiglia, comunità religiosa, gruppo di lavoro, squadra sportiva…), in modo quasi inevitabile, il fare, il pensare, il sentire siano in qualche modo regolati da schemi che man mano si consolidano. All’inizio c’è un’apertura alla diversità, che dà entusiasmo, ma poi man mano tutto si irrigidisce e si costituisce come una legge non scritta a cui ci si deve adeguare, con una perdita della ricchezza e della curiosità sul mondo, sull’altro…
Infatti, bisogna fare molto attenzione a questo fenomeno. L’uomo ha da sempre il bisogno di appartenere a un contesto sociale, ma l’appartenere è diverso dal diventare dipendenti e quindi dal perdere la propria individualità e la propria unicità. L’empatia ha due colonne portanti: da un lato, il senso di giustizia (se io valgo uno anche gli altri valgono uno, e questo conferisce una giustizia che regola gli scambi tra essere umani); dall’altro, vi è la reciprocità, che è come dire che non posso non fare all’altro il bene che mi aspetto da lui. Fino a questo livello di empatia le cose vanno benissimo.
Il gradino successivo, dove è possibile una deriva, è la dipendenza del singolo dal contesto esterno: questo tipo di rapporto può sfociare nella patologia. È il caso in cui uno diventa dipendente dall’approvazione dell’esterno e subentra un conformismo sociale, per cui il gruppo vale molto di più dei singoli individui. Questa dinamica è pericolosissima, è la condizione che può favorire un indottrinamento della persona con le derive sociali che ben conosciamo se guardiamo al nazismo, al comunismo o comunque a tutte le forme di dittatura che la storia ci ha mostrato e in cui l’irriducibilità dell’Io è stata calpestata.
Quindi nel contesto, che siano i rapporti personali o gli ambiti sociali, è sì importante essere collaborativi ed empatici, ma lo è altrettanto mantenere la propria autonomia, il senso della differenza individuale. Anche perché – questo va di conseguenza – quando l’Io si “scioglie” troppo nel gruppo c’è anche il rischio di una de-responsabilizzazione che non ha niente di sano e di adulto.
Cosa intendi in questo caso per de-responsabilizzazione?
Significa che uno guarda all’esterno e tra sé e sé dice: siccome tutti fanno la tal cosa, allora vuol dire che la cosa va bene. In questa nostra epoca, così sguarnita da un punto di vista etico, la de- responsabilizzazione è il pensare acritico per cui, per esempio, se si fa una legge sull’eutanasia o sull’aborto, allora vuol dire che eutanasia e aborto vanno bene. Non è vero! Nel senso che dobbiamo sempre ragionare con la nostra testa, non è detto che quello che ci viene proposto – anche se ratificato da una legge – sia qualcosa che è saggio e utile. Anche perché, tra l’altro, le leggi cambiano di generazione in generazione. L’etica invece ha una radice immutabile ovvero di essere a favore della vita dell’essere umano sempre.
È un suggerimento ad essere presenti al presente…
Sì, si deve sempre avere senso critico, che purtroppo è quello che sta venendo meno oggi. Il senso critico è fondamentale per la sopravvivenza di una realtà sana, e mi riferisco anche a compagini religiose o comunque cristiane. Io mi sono occupata di abusi di coscienze spirituali, i quali nascono da un’obbedienza senza l’uso della ragione e senza che il contenuto del dire e del fare sia contestualizzato. E poi il senso critico è anche ciò che ci aiuta a sviluppare un pensiero scientifico.
In che senso?
Nel senso che il pensiero scientifico ha come prerogativa il procedere per tentativi ed errori. Il pensiero scientifico autentico non è mai dogmatico, è sempre validato sul campo. Esercitare il senso critico rispetto a un dato che considero significa ogni volta verificare quale sia il contesto.
Questa libertà di pensiero avviene a costo di frizioni? Va, cioè, esercitata senza avere paura della diversità e della resistenza, se non anche dell’opposizione che può incontrare?
Certo. Anche perché l’innovazione e la creatività nascono anche da questo. In generale, sono le persone che hanno il dono della visione ampia delle cose e che sono dotate di una creatività accesa che si rendono conto che le situazioni debbono e possono essere cambiate. Non a caso, “crisi” vuol dire anche punto di svolta, cambiamento. Ogni cambiamento genera una crisi e ogni crisi deve portare a un cambiamento.
Tu definisci la speranza come fiducia legata alla sensazione di poter gestire ciò che si sta vivendo oppure come quella capacità del cervello di accedere all’immaginazione, che a sua volta permette di entrare in una dimensione spirituale, consentendo al soggetto di sviluppare un atteggiamento mentale non unicamente relegato alla realtà empirica. Che cosa può sviluppare questa speranza come attitudine dello sguardo e della mente di fronte alla realtà?
Quando uno ha un problema è come se si trovasse al buio. Sicuramente è esperienza di tutti un momento in cui qualcun altro ci ha indicato qual è il percorso. In quei frangenti ti devi fidare di qualcuno che ti dice di non disperare, che la luce si riaccenderà e che dal tunnel dove ti trovi, puoi uscire. Se uno non ha già attraversato quella circostanza nella vita allora deve accedere a quella realtà fidandosi e con l’immaginazione.
Quando poi uno avrà fatto questo tipo di esperienza, le volte successive, può ricorrere alla memoria del passato. Faccio un esempio: se sono disperato perché ho tantissimo mal di pancia, in quel momento mi serve immaginare che uscirò da questa sofferenza come già è accaduto altre volte in passato. Questa immaginazione, questo pensare che quello che sto vivendo è qualcosa di momentaneo e che io posso anche accedere a un tipo di realtà diversa, questa è la speranza. La speranza non è non avere paura, ma vivere quella paura con l’idea che si può affrontare, si può superare e che vivremo momenti migliori e diversi.
La speranza però ha sempre due versanti: un lato affettivo (quindi, per esempio, le parole che ci confortano) e una parte cognitiva. “Cognitiva” qui comporta qualcuno che indica una strada e un percorso. Non basta, cioè, il conforto sul piano affettivo… se siamo in una emergenza e ci vien detto che tutto andrà bene ma di fatto non cambia nulla, vuol dire che quella enunciata è una falsa speranza.
La vera speranza comporta sì una rassicurazione, ma anche un piano d’azione efficace. Penso sempre all’addestramento in aeronautica: in volo si fanno piani in cui è necessario capire quali sono le manovre da fare, quanto carburante occorre avere a disposizione e così via. Se non si ha una consapevolezza anche razionale e cognitiva della situazione, si manda la gente a morire in volo. Nella vita è un po’ così, alcuni scenari la prima volta ci trovano impreparati, poi le situazioni si possono leggere e capire in modo che una seconda volta possano essere affrontati e superati più facilmente.
Questo è molto bello, perché la speranza di cui parli tu è profondamente radicata al reale.
Esatto. Viviamo in una società che comunica molto sul piano emozionale, così le persone sono molto dominate da questa componente piuttosto che da quella razionale. Lo ripeto ancora, da questo punto di vista, io ringrazio moltissimo di aver lavorato con le Frecce Tricolori, con i piloti cacciabombardieri dell’Aeronautica Militare Italiana, perché nella loro attività è necessario uno studio immenso, di ogni particolare.
Lo scrivo anche nel libro, dobbiamo abbandonare il mito della spontaneità, come l’illusione che tutto deve venire spontaneo. Spontaneo significa anche automatico, ma qualcosa di automatico è il frutto di uno studio e di un addestramento. Solo dopo molto allenamento le cose diventano automatiche, come per la guida dell’auto, per fare un esempio chiaro tra molti possibili. All’inizio nulla è veramente spontaneo: dopo tanta pratica e tanto studio teorico, quando guidiamo la macchina ci accorgiamo di muoverci spontaneamente, grazie ad automatismi, che sono semplicemente il punto di arrivo di azioni ripetute così tante volte che diventano consolidate, tante volte anche indipendentemente dall’attenzione al gesto.
Un altro aspetto affascinante nel libro è quello svelato dalla storia di Morgana: è possibile che la speranza sia così incidente da un punto di vista biologico da favorire la guarigione?
Certo, questo lo dice anche Fabrizio Benedetti, psichiatra e neurofisiologo, uno dei più autorevoli studiosi a livello internazionale sulle neuroscienze del dolore e in particolare per quanto concerne il tema dei fenomeni placebo e nocebo: lui dice che tante nostre parole passano attraverso la stessa via biochimica in cui passa per esempio un antidolorifico come la morfina. E poiché le parole vengono prima dei farmaci, lui conclude che sono piuttosto i farmaci che passano nelle stesse vie in cui passano le parole. Quindi parole di speranza producono in noi una serie di neurotrasmettitori che sortiscono effetti fisiologici ben determinati.
Faccio un esempio. La paura non è solo qualcosa di mentale, ma produce catecolamine, adrenalina, cortisolo, tutti neurotrasmettitori che determinano anche un’infiammazione cronica nel nostro corpo. Parimenti l’emozione che la speranza suscita produce endorfine e dopamina, ovvero una serie di neurotrasmettitori che hanno la capacità di favorire la guarigione. Ci sono sì emozioni complesse e negative che ci fanno ammalare, ma ci sono anche emozioni che hanno il potere di farci guarire.
Queste parole buone possono accadere anche nella verità di un dialogo non terapeutico? Sono le parole della vita, vero?
Certo, sono le parole della vita. Accadono in quelle relazioni con persone che sono in grado di cambiare la polarità della nostra vita e delle nostre emozioni. Queste persone bisogna cercarle. Sono coloro che riescono trasmettere speranza, amore e curiosità.