Non si fa altro che parlare di diritti umani. Le dichiarazioni si moltiplicano a livello internazionale, nazionale, settoriale. Da diritti dell’uomo, della persona, siamo arrivati ai diritti individuali, in cui ciascuno può arrivare a rivendicare presunte esigenze soggettive, e ai diritti di categorie sociali, dove gli interessi corporativi fanno capolino. Questa proliferazione di diritti più o meno riconosciuta dagli ordinamenti giuridici degli Stati rende sempre più difficile la loro effettiva tutela e soddisfazione e dà luogo a conflitti tra diritti, a vere e proprie aporie. Come dare una casa a tutti? Come assicurare universalmente le cure mediche a disposizione sempre più costose? Il diritto alla qualità della vita, a cui è connesso il diritto all’eutanasia attiva e passiva, entra in conflitto con il principale diritto del rispetto della vita umana.
Se poi rivolgiamo l’attenzione al di là delle nostre frontiere nazionali, come ci obbliga a riflettere oggi il fenomeno delle migrazioni di massa, la questione dei diritti diventa angosciosa con il rischio di far seguire all’angoscia risposte improntate alla più crudele aggressività ammantata di ipocrisia.
Il sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Mauro Magatti, sul Corriere della sera del 2 luglio, se n’è fatto eco ricordando gli obblighi reciproci nella politica dei diritti, concretamente dello ius migrandi, e richiamando l’attenzione sul gravissimo fatto che sono in gioco, oltre alle migliaia di vittime di disperati alla ricerca di un luogo dove vivere degnamente, il futuro nostro e della democrazia. E non esagera.
Nell’articolo, opportunamente, è citata la Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu (1948), che vincola il potere politico a riconoscere e rispettare come sacra la dignità di ogni vita umana, e il Diritto internazionale marittimo, che stabilisce l’obbligo di intervenire per salvare un’imbarcazione in difficoltà; ciò che cercano di fare soprattutto le Ong nelle acque del Mediterraneo, tentando di far sbarcare i profughi naufraghi in un porto sicuro. Ma i porti accessibili sicuri dell’Europa unita, Italia in testa, li respingono da dove provengono con la promessa ipocrita di essere aiutati in casa loro, quando casa in realtà non hanno, la loro provenienza è quella dei lager libici e la promessa di un aiuto ai Paesi di origine è inesistente. «Purtroppo, quello che sta accadendo sulle coste del Nord Africa», afferma Magatti, «è l’emblema del fallimento della politica europea, incapace […] di gestire sensatamente i flussi di migranti». E si domanda ancora: coma mai un Europa «così attenta sulla questione dei conti pubblici […] non consideri una priorità la politica migratoria».
Nuove invasioni barbariche?
Quando le statistiche parlano di 70 milioni di persone in fuga forzata, non si può ignorare che siamo davanti a un problema decisivo per le democrazie del XXI secolo. Diamo per scontato che le dichiarazioni dei diritti sono volutamente indeterminate, anche nelle nostre Costituzioni, per cui sono sottoposte a interpretazioni secondo criteri alquanto variabili, che consentono, come accade nella maggioranza degli Stati costituzionali, democratici e sociali dell’Occidente, di far coesistere il rispetto della vita umana con l’aborto, l’eutanasia e il suicidio assistito. Apprezzabile la citazione che fa Magatti di Simone Weil, secondo la quale la logica dei diritti, se non si assume l’onere della reciprocità, finisce per contraddirsi riducendosi a difesa dei più forti; da cui la necessità, pensava la Weil, e con lei molti altri, che la Dichiarazione dei diritti umani andasse completata con una «Carta delle obbligazioni». Un illustre giusromanista, Alvaro d’Ors, guardava con sospetto il tanto parlare di diritti umani, sia perché non tutti partono da una visione della dignità della persona fondata nella natura umana, sia perché si dimentica che diritto sta per «dovere esigibile», cioè prima c’è il dovere, il debitum, ciò che spetta soddisfare alla persona, da cui nasce il diritto.
Ma lasciamo per ora le questioni teoretiche e veniamo alla realtà dei fatti. Che cosa comporta misurarsi con l’ineliminabile fenomeno migratorio che affligge oggi soprattutto l’Europa e gli Stati Uniti d’America, paragonato da Galli della Loggia alle invasioni dei barbari nel declino dell’Impero romano, che sant’Agostino giudicò inizio di un mondo nuovo? Che cosa comporta l’accoglienza non di una persona, né di cento né di mille né di migliaia, ma di milioni? Comporta coinvolgere tutta la cittadinanza dello Stato ospitale nel condividere solidariamente diritti politici, diritti sociali e libertà con gli immigrati, il che esige una regolamentazione coordinata a livello internazionale che consenta di mantenere stabile la comunità politica.
Il problema è certamente politico, diciamo pure di etica politica, che un giurista allievo di Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli (Iura paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2015), ha avuto il merito di mettere in chiaro già anni fa come un’aporia del sistema democratico, il cui ethos si ispira principalmente ai valori della libertà e dell’uguaglianza. Riassumo il suo lucido ragionamento.
Se la cittadinanza diventa esclusione
Il principio di uguaglianza è oggi vistosamente smentito nei Paesi più formalmente democratici con la discriminazione giuridica tra cittadini e non cittadini, non essendo questi titolari degli stessi diritti dei cittadini; mentre taluni diritti sono attribuiti a tutti in quanto persone, molti altri sono attribuiti solo ai cittadini. La cittadinanza, che alle origini dello Stato moderno ha svolto un ruolo di inclusione, svolge oggi un ruolo di esclusione. In contrasto con tutte le carte e convenzioni internazionali sui diritti umani e perfino con le costituzioni di Stati democratici che attribuiscono i diritti civili e buona parte di quelli sociali (alla salute, all’istruzione, a un’equa retribuzione) a tutti, e non solo ai cittadini, in quanto persone, di fatto il godimento di tali diritti è condizionato, nelle odierne politiche e legislazioni contro le immigrazioni, dal «presupposto della cittadinanza», cioè da quel diritto di avere diritti che è il diritto di accesso, di circolazione e residenza nel territorio nazionale. E ciò a dispetto dello ius pellegrinandi (migrandi) teorizzato da Francisco de Vitoria alle origini del diritto internazionale moderno, con cui si giustificava la colonizzazione di interi territori in seguito alla scoperta dell’America, diritto tuttora stabilito dall’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu.
È noto infatti che il teologo salmanticense trovò nello ius pellegrinadi un fondamento giusnaturalista razionale all’occupazione dei territori scoperti da Cristoforo Colombo e compagni, mentre riconosceva ai nativi la dignità personale e quindi la pienezza dei diritti umani mettendo così le basi del diritto internazionale moderno.
La cittadinanza è entrata in contraddizione, continua il Ferrajoli, con l’uguaglianza giuridica di tutti gli esseri umani, pur stabilita dalla carte e convenzioni internazionali. La cittadinanza, ovviamente quella dei Paesi più ricchi, si è trasformata nell’ultimo privilegio di status, forse nell’ultimo fattore di esclusione, anziché, come fu all’origine dello Stato moderno, di inclusione e parificazione, nell’ultima contraddizione irrisolta con l’affermata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali. Nella comunità transnazionale degli odierni Stati costituzionali e democratici esistono cittadinanze pregiate, come quelle dei Paesi occidentali, e cittadinanze che non valgono nulla, come quelle dei Paesi poveri. Ed esistono all’interno di tali ordinamenti costituzionali e democratici cittadinanze disuguali: quelle del cittadino optimo iure, quella dei semi-cittadini conferita agli stranieri con permesso di soggiorno, e quella dei non-cittadini clandestini.
Conclude il Ferrajoli: certamente, il superamento della distinzione tra persone e cittadini ha il sapore di un’utopia, ma quanto meno il riconoscimento di questa aporia dovrebbe generare in noi una cattiva coscienza e agire da freno sulle odierne pulsioni xenofobe e razziste. Dovrebbe generare almeno la consapevolezza di una contraddizione tra i nostri princìpi di pari dignità di tutti gli esseri umani e la nostra pratica discriminazione dei non-cittadini. «Una contraddizione che riguarda l’intero Occidente e in particolare l’Europa, che dopo aver per secoli invaso il mondo con le proprie conquiste e colonizzazioni si chiude oggi come una fortezza assediata, negando agli extra-occidentali quel medesimo ius migrandi che all’origine della modernità aveva impugnato come fonte di legittimazione delle proprie conquiste, invasioni e colonizzazioni».
La lezione di Böckenförde
Pertanto, il Ferrajoli considera la condizione dell’emigrante, nella pratica una volta accolto, l’ultima contraddizione irrisolta con l’affermata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali. Contraddizione che sembrerebbe accettata, anche se con senso di colpa, il che è già segno che la democrazia ha un ethos. Ma, mi domando, il senso di impotenza del giurista democratico doc che guarda lontano e vede tutte le conseguenze sociali e politiche di una presenza massiva di emigranti entro il territorio di uno Stato democratico non potrebbe essere la causa della paralisi della politica europea nel cercare soluzioni, nel mettere in moto azioni che non siano la difesa e la repressione, alzando dei muri, chiudendo i porti, confinando coattivamente per lungo tempo in condizioni disumane masse di emigranti?
Si sta avverando quanto affermato da tempo da un grande giurista e filosofo tedesco non sufficientemente preso in considerazione o peggio ancora frainteso da noi. Parlo di E.W. Böckenförde (Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, Laterza, Roma-Bari 2007), secondo il quale l’attuale forma di Stato, proprio quello democratico, frutto di un processo di secolarizzazione che trova il proprio compimento nella Dichiarazione dell’uomo e del cittadino del 1789, vive di presupposti che non può garantire da sé, cioè la pace sociale, la sicurezza, il bene comune. Deve ricorrere a energie esterne, perché se cerca di garantire da sé le forze regolatrici interne, coi mezzi di coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità. Lo Stato può tentare di fronteggiare questo problema facendosi garante della soddisfazione delle attese di una vita buona dei cittadini e cercando di ottenere le risorse necessarie dalla forza morale del singolo e dall’omogeneità della società. Lo Stato deve innanzitutto condurre una politica generale facendo leva sul principio di solidarietà e confidando nelle forze vincolanti interiori dei suoi cittadini.
Un equilibrio che non c’è
Non è il momento di spiegare dettagliatamente questa dottrina conosciuta come il «teorema o dilemma di Böckenförde».
Quanto appena accennato basti per comprendere quanto sia suicida una politica che si appella all’egocentrismo nazionalistico e all’antagonismo della cittadinanza divisa in gruppi contrapposti all’insegna del «non passi l’extracomunitario» e del «volemose bene». Da sempre, in situazioni di emergenza e catastrofi di ogni genere, le forze interne della società, dovutamente coltivate, prima di tutto la solidarietà che non ha frontiere, hanno preceduto e accompagnato gli interventi insostituibili della buona politica statale, che da sola arriva in ritardo e non completa mai l’opera.
Parliamo dunque di insostituibile buona politica dello Stato, particolarmente necessaria davanti a un’emergenza mondiale come quella attuale delle emigrazioni di massa. Ma quale politica? Una politica improntata alla solidarietà, che tenti almeno di regolamentare l’emergenza migratoria, per alcuni aspetti positiva dato il nostro gravissimo declino demografico, e non facendo credere alla popolazione che può essere rimossa scaricando responsabilità che invece vanno condivise.
Angelo Panebianco, sempre sul Corriere della sera del 6 luglio, in un editoriale dal titolo «Scelte sull’immigrazione: l’equilibrio che non c’è», non si nascondeva le difficoltà di mettere mano a un piano politico efficace, concludendo la sua attenta analisi della questione con le seguenti parole: «Tra i due poli del “Non passi lo straniero” e “Amiamoci e accogliete” c’è, in mezzo, una vasta prateria elettorale: Occorre qualcuno che abbia voglia di cavalcarci dentro».
Sono parole che forse hanno il difetto di far dipendere l’azione politica dall’immediato ritorno elettorale, ma del resto diventano comprensibili in un’Italia che non dà tempo a chi governa di lavorare seminando tra le lacrime e le proteste di chi si sente ferito dall’aratro, contando però che avrà tempo di raccogliere il frutto nell’esultanza generale.