Il paradigma della “giustizia riparativa” si propone di risolvere i conflitti generati dai reati valorizzando il ruolo della vittima e della riparazione da parte del reo, in un percorso di reciproco ascolto e riconoscimento. Sulle implicanze di questo approccio s’interrogano i contributi di questo quaderno: Guido Brambilla e Alberto Frigerio esaminano l’evoluzione che l’idea di “giustizia riparativa” ha subìto nel tempo, sino al significato attuale; Christian Loda, servendosi dei rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, fotografa le luci e le ombre della situazione delle carceri in Europa; sulla vita nel carcere minorile si sofferma l’intervista di Paola Uboldi a don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria di Milano; Giorgio Paolucci e Fabio Romano descrivono la propria esperienza di volontari nei carceri lombardi come membri dell’“Associazione Incontro e Presenza”; Bruno Nacci parla di una delle più grandi prigioni del mondo, Cecot , con l’ex carcerato Francesco Ghelardini. Apre il quaderno la riflessione di Arrigo Cavallina (Verona, 1945), che avendo sperimentato il carcere, sottolinea la necessità di coniugare la pena come espiazione e occasione di ravvedimento del detenuto con la considerazione del reo come persona a tutti gli effetti, la cui dignità sporge sui suoi atti, anche i più gravi, e che può essere aiutato a reinserirsi nella comunità e a riscattarsi.
In un capitolo de Il Profeta di Kahlil Gibran «uno dei giudici della città si fece avanti e disse: “Parlaci della Colpa e del Castigo”». E il Profeta dà una lunga risposta, di cui riporto qualche brano.
Il vostro io divino
resta per sempre incorrotto. […]
Ma l’io divino non vive in voi da solo.
Molto in voi è ancora uomo, e molto non è ancora uomo,
ma un informe pigmeo che cammina dormendo nella nebbia cercando il proprio risveglio. […]
Vi ho udito spesso parlare di chi commette un torto come se non fosse uno di voi,
ma un estraneo, un intruso nel vostro mondo.
Ma io vi dico che anche il santo e il giusto non possono levarsi oltre l’altezza che è in ciascuno di voi.
Così il malvagio e il debole non possono cadere più in basso della bassezza che ugualmente è in voi. […]
Voi non potete separare il giusto dall’ingiusto e il cattivo dal buono […].
E se qualcuno di voi, in nome della giustizia, volesse abbattere la scure sopra il tronco malato, osservi le radici;
e in verità, troverà le radici del bene e del male, le infeconde e le fertili,
tutte intrecciate nel cuore silenzioso della terra. […]
Saprete che l’eretto e il caduto sono un unico uomo
che vive nel crepuscolo fra la notte del suo io pigmeo e l’alba del suo io divino.
Che cosa sarà questo “io pigmeo” che ci portiamo dentro? Mi sembra che le bestie non abbiano questo gioco di libertà, possono decidere ogni azione, ma all’interno di un unico senso, di un condizionamento alla sopravvivenza della rispettiva specie. È come se nell’evoluzione, superato un certo grado di sviluppo, nel nostro antenato in posizione eretta, non più scimmia se mai lo è stato, accanto a qualcosa che grossolanamente vorrei chiamare coscienza, si fosse infiltrato un suo opposto. Per lui, e per noi, con tutti i gradi intermedi tra il crepuscolo e l’alba, c’è questa possibilità di scegliere il senso verso il quale orientare le azioni. Nel linguaggio della Genesi è il serpente a insinuarsi nella prima famiglia umana ed è il frutto dell’albero a generare la pretesa di decidere che cosa è bene e male diversamente da quanto stabilito. Così se nel versante dell’“io divino”, cioè pienamente realizzato, troviamo le parole che corrispondono a un bene comune, alla difesa e continuazione della vita, come “pace”, “compassione”, “amore”, sull’altro versante troviamo le parole della distruzione reciproca, da “egoismo” a “mammona”, a “ideologia”.
Il bene che convive col male nel cuore
Il più santo ha dentro di sé una possibilità di male, che a volte prima di essere vinto è riuscito a manifestarsi; così il peggior delinquente ha in sé, soffocata, una possibilità di bene che può riemergere, e quante volte lo ha fatto.
Si capisce allora perché papa Francesco, in visita nelle carceri, abbia ripetuto che si chiede: «Perché voi e non io?», intendendo che, se avessero vissuto ciascuno nelle condizioni dell’altro, si ritroverebbero forse a ruoli invertiti.
Il cuore silenzioso dove si intrecciano radici di bene e di male non è solo della terra, è anche il nostro. Quando Gesù invita chi è senza peccato a scagliare per primo la pietra, se la svignano tutti. Non si sta negando l’opportunità dell’intervento penale, e quindi la necessità di un giudizio, si rifiuta la pretesa che l’intervento consista nel tagliare, nell’escludere dalla convivenza, nel separare con un muro di cinta le due specie umane degli innocenti e dei colpevoli, che invece nascono, crescono e si aggrovigliano nella stessa società.
Non c’è un limite inferiore? Un’abiezione al di sotto della quale negare l’umanità di chi la compie? I racconti dei lager, dei loro pianificatori ed esecutori, dei torturatori, di cose che noi non faremmo mai, ci spingono a pensare a un’alterità assoluta. Eppure… perfino da una grande rivoluzione, da chi lottava per il grande riscatto degli oppressi, per ragion di Stato e di ideologia, sono nate altre stragi e il sistema del Gulag.
Anche quando il fine sembra buono (ma chi non crede che il proprio fine sia buono?), i mezzi lo condizionano inesorabilmente. Penso alle atomiche sulle città del Giappone, ma, in fondo, a ogni guerra, da sempre, alle conquiste e oggi alle catastrofi ambientali, alle barriere di morte contro le migrazioni e si potrebbe proseguire con tanti esempi di corresponsabilità diffusa.
Abbiamo dunque questa umana, e solo umana possibilità di orientamento, magari con scelte di piccoli passi, consapevoli che non siamo immuni dalla più rovinosa caduta ma che portiamo indelebile l’impronta dell’io divino. Che nessuno, ma proprio nessuno, è escluso dalla tensione a raggiungerlo.
Papa Benedetto XVI, nel Messaggio di capodanno 2007 per la Giornata mondiale della pace, scrive:
Perché creato a immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone.
È pertanto doveroso per tutti gli esseri umani coltivare la consapevolezza del duplice aspetto di dono e di compito.
La trascendente “grammatica”, vale a dire l’insieme di regole dell’agire individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia e solidarietà, è iscritta nelle coscienze, nelle quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio.
Costituisce un elemento di primaria importanza per la costruzione della pace il riconoscimento dell’essenziale uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro comune trascendente dignità. L’uguaglianza a questo livello è quindi un bene di tutti inscritto in quella “grammatica” naturale, desumibile dal progetto divino della creazione.
Penso a questa “grammatica” come al pacchetto applicativo nelle relazioni umane di quella regolazione universale che le Scritture chiamano Sapienza e che, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, mantiene in equilibrio tutto il creato. E solo noi, per quanto ne sappiamo, abbiamo l’opposta libertà di infrangere la grammatica, cioè di fare del male al prossimo e all’intera specie.
Fin dalle origini, e per sempre, al male dell’offesa si vorrebbe in qualche modo reagire. Anche il perdono non è inerzia, ma tende a un effetto di cambiamento. A parte questo, la storia delle pene vede l’introduzione progressiva di alcuni princìpi. Dapprima l’obbligo che la vendetta privata non infligga un male superiore a quello subìto, poi la sottrazione ai privati di questa facoltà e la sua attribuzione esclusiva ai rappresentanti dello Stato, tenendo conto che la presunta offesa a Dio o al sovrano, in quanto di gravità infinita, giustificavano qualunque ferocia nella reazione.
Ma chi stabilisce che cosa costituisce offesa? È possibile che siano proprio la legge o il giudizio a non rispettare la “grammatica” della nostra convivenza, a pretendere perfino atrocità e punire chi rifiuta di compierle. E qui lasciamo aperta la grande questione della disobbedienza.
È rimasta a lungo prevalente l’idea che fosse giusto infliggere all’offensore lo stesso male che aveva provocato. E che la minaccia della pena servisse a scoraggiare i comportamenti vietati. Da notare che il carcere, fino a tempi recenti, era considerato strumento di trattenimento, anche severo e prolungato, ma non di per sé la condanna da scontare.
Il criterio del tempo di chiusura in prigione come misura universale della pena si diffonde rapidamente solo con l’illuminismo, la prima rivoluzione industriale, la necessità di controllo sociale e di regolazione del mercato del lavoro, e quando il tempo di lavoro diventa indicatore del valore della merce.
Ci chiediamo: una persona, qualunque persona, di fronte a una scelta tra alternative, compresa la commissione di un reato, è libera o condizionata da altri fattori? Per prevenire o punire il reato, è più efficace minacciare e infliggere una sofferenza oppure intervenire sui fattori che hanno spinto a quella scelta?
Oggi sappiamo che le risposte sono entrambe valide e nessuna esclusiva. Certamente la struttura di personalità, le vicende familiari e sociali, l’ambiente, la cultura, le condizioni economiche, le tante fragilità incidono sui comportamenti, ma l’insopprimibile dignità umana comporta che sempre almeno un residuo di coscienza dà la libertà e quindi la responsabilità delle decisioni. Accanto al tentativo di modificare il contesto, è proprio questa la leva per suggerire e facilitare un diverso orientamento.
La persona non è il suo reato
Nel 1930 il nuovo Codice penale Rocco somma le due proposte con intenti puramente disciplinari e non educativi, prevedendo per ogni reato un tempo di carcere seguito da una cosiddetta misura di sicurezza.
Ma siamo sull’orlo del precipizio. L’ideologia fascista e nazista costruisce una propria “grammatica” in spregio a tutto quanto sa di rispetto, solidarietà, riconoscimento di una comune umanità. L’umanità diventa “disponibile”, come profondamente scrive il filosofo e giurista Giuseppe Capograssi, meditando sulla catastrofe, cioè sacrificabile, sterminabile addirittura, con tutto il contorno di crudeltà senza confine etico, in nome dello scopo che l’ideologia stessa ha posto, dalla vita di una sola presunta razza alla sottomissione del mondo.
Eppure, è stato possibile uscirne e ricavare dall’esperienza di quell’abisso il valore di un insegnamento. L’Assemblea Costituente è stata in grado di accogliere il confronto rispettoso tra esponenti di tendenze diverse e di convergere su un testo che riconosce la pari dignità e i diritti di ogni persona.
L’articolo 27 scolpisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Si parla di pene, al plurale, e non di carcere, lasciando aperto un ventaglio di alternative. Si afferma, senza eccezione, la pari, comune, incomprimibile umanità di ogni persona, del tutto indipendentemente dai reati commessi. Il disvalore del fatto sanzionato non incide sulla dignità di chi lo ha commesso. La persona non è il suo reato («Non siamo reati che camminano», scrivono alcuni detenuti) e mantiene tutti i diritti umani non incompatibili con la sola privazione della libertà.
“Persona” non è la fotografia di un momento ma sempre contiene la prospettiva di un divenire altro. In nessun caso la possibilità di cambiamento può essere negata e gli sforzi considerati inutili. Banalmente, se uno dalla comune condizione di innocenza infantile è arrivato a fare quel che ha fatto, come escludere che ulteriori sviluppi lo portino a fare, e pensare, tutt’altro? Anche la neuroscienza studia la plasticità cerebrale, cioè la caratteristica del nostro sistema nervoso di reagire all’ambiente, ai cambiamenti fisiologici, alle esperienze superando le condizioni iniziali. I meccanismi dell’apprendimento sono più intensi in età di sviluppo, ma mai completamente bloccati.
Abbiamo quindi un criterio non equivoco per valutare ogni provvedimento di giustizia penale, compresa la gestione delle carceri: chiedersi se tenda o meno alla rieducazione, o se addirittura la ostacoli. La Corte Costituzionale ha mostrato di averlo ben presente nelle decisioni sulla legittimità degli atti.
In generale, ogni menomazione dei diritti dei detenuti diventa un impedimento alla rieducazione, perché sembra dare conferma alla visione di non riconoscimento della pari dignità dell’altro associata alla commissione dei reati, anziché testimoniare un diverso spirito di convivenza nel rispetto reciproco. L’attuale sovraffollamento, con le sue conseguenze, incide sulla garanzia dei diritti umani, come anche certi regimi detentivi che si richiamano a una durezza fine a sé stessa, certe privazioni o negazioni di domande legittime, tanto più certi episodi di violenza da parte del personale che tradisce il suo ruolo.
Tutto il personale, infatti, e non solo gli incaricati dell’area pedagogica, pur nella diversità di funzioni, dovrebbe convergere verso l’obiettivo finale della rieducazione, affiancato da altre figure come i cappellani, i volontari, i privati e i rappresentanti istituzionali, tra i quali il “garante dei diritti”.
Una persona detenuta per aver commesso reati vive, con maggiore o minore intensità, la sofferenza della sua condizione di separazione, privazioni, obblighi; possono aggiungersi sensi di sconfitta, di colpa, rimorsi nei riguardi di altri ma anche di come si è danneggiata la propria vita. Alla domanda di come avrebbe potuto o potrà andare diversamente non ci sarà solo la risposta da parte di alcuni: «Devo farmi più furbo», ma per tanti può affacciarsi l’ipotesi di dover cambiare qualcosa, di rivedere le proprie sicurezze, di riuscire a percorrere una strada diversa. La prima condizione sarà di sentire su di sé fiducia e stima, e di essere aiutato a ricostruire il senso del futuro e anche del presente.
Il carcere può allora diventare un tempo di ricerca e aprirsi alla speranza. Gli strumenti ricorrenti sono l’ascolto, le testimonianze, i colloqui, le attività di gruppo, il confronto, la comunicazione con l’esterno, l’istruzione, la formazione professionale, la scoperta delle proprie risorse artistiche, delle proprie capacità di dare aiuto ad altri.
E proprio dal disagio, dall’insoddisfazione per le scelte passate, può nascere il bisogno di non accontentarsi di un reinserimento sociale nella legalità, ma di cercare la realizzazione di sé in un’attenzione, un ascolto più profondi, interrogandosi sui valori dello spirito, se questo dono della vita, in qualunque circostanza, non chiami a un compito che trascende l’egoismo.
La rieducazione non è rivolta solo alla persona. Una continuità di sostegno al percorso dalla detenzione alla liberazione non dovrebbe scontrarsi con altri muri e difficoltà che ricacciano indietro il cambiamento, con i problemi della famiglia, del lavoro, dell’abitazione, del reddito, dell’assistenza sanitaria, dei servizi sociali, delle amicizie, delle eventuali pratiche religiose e di volontariato, delle attività di tempo libero. Sono tanti gli àmbiti da attivare o correggere, tante quindi le radici da “rieducare”, ognuna con qualche responsabilità, tutte intrecciate nel cuore della comunità dove il detenuto spera di rientrare e che a sua volta dovrebbe sperare di riuscire a trasformare una minaccia nell’accoglienza di un fratello.

Papa Francesco esegue il rito della lavanda dei piedi del Giovedì Santo ai carcerati © Vatican Media