Il mio primo viaggio in Sicilia avvenne in condizioni per cui non posso ricordarne nulla: nell’estate del 1945, in un’Italia ancora piena di macerie fisiche e morali, partii dalla Liguria per l’Isola nel più comodo, soffice, tiepido mezzo di trasporto: il grembo materno. Ero un feto, vivevo in quella misteriosa simbiosi con la madre il mio viaggio più grande, dal nulla alla vita, e intanto, protetto dall’inconsapevolezza e dal silenzio, venivo portato verso la terra da cui veniva mio padre.

Seppi molto più tardi quanto il viaggio fosse stato avventuroso. Mio padre, in società con un collega ex ufficiale siciliano anche lui, comperò una vecchia Balilla, un modello d’auto squadrato e ingombrante che sarebbe di lì a poco scomparso, e iniziò il viaggio, un ritorno a casa tormentato da mille avversità, il motore dell’auto che si fonde, una pensione infestata dalle cimici a Firenze, posti di blocco continui, incontri con ufficiali inglesi molto poco cortesi con ex ufficiali di un paese sconfitto, e chissà cos’altro.

Arrivata in Sicilia, mia madre fu sconcertata dagli usi arcaici, patriarcali ancora vigenti, dalla personalità del nonno, don Peppe, alto, forte più di una quercia, che restava costantemente muto davanti alla nuora che veniva da così lontano, ma non mancava ogni mattina di portare a lei incinta una forma di ricotta fresca: come se volesse nutrire anche me, nella mia tranquilla, parassitaria vita prenatale.

Il secondo viaggio in Sicilia, tre anni dopo, mi vide camminare sulle mie gambe già lunghe di bambino, e con il mio ego in via di formazione, in cui prendevano forma curiosità, malinconia, senso del gioco e del mistero.

Per una stranissima combinazione, i miei primi ricordi consci affondano proprio in quel viaggio. Ci penso spesso, come è possibile che le mie prime memorie di allora non siano la casa di Porto Maurizio, gli affreschi alle pareti del salotto, il tondo con i cavalli che trainano il carro del Sole sul soffitto della mia camera, la nonna Teresa ancora in vita, la via di palazzi alti, in salita, dove abitavamo: niente. i miei primissimi ricordi sono una via lunghissima dal fondo ancora dissestato, che tagliava la grande città come un fiume, un canyon, e un giardino con una fontana, e sulla superficie dell’acqua un cigno. Erano la via Etnea e il Giardino Bellini di Catania.

La città dove mio padre, lasciato da bambino il piccolo paese natale, il “paesazzo” come di recente l’ho sentito chiamare da un gallerista catanese distratto e snob, si era formato e aveva forgiato il suo carattere contraddittorio, serio e altero e insieme amante della bella vita. Che i primi ricordi siano quelli di un viaggio e affondino nella terra dei padri, non è rimasto ininfluente nella mia vita. Ci fu il periodo lungo della Grande Dimenticanza.

È vero. L’adolescenza e la prima giovinezza li vissi in un triangolo immaginario che aveva per vertici la Liguria, l’Inghilterra e Milano. Il Liceo di Oneglia, glorioso e polveroso, intitolato a Edmondo De Amicis, l’Università a Milano, i sogni tra Londra e Bath, Eastbourne, Statford-on-Avon, dove avevo vissuto le mie prime avventure d’amore e di viaggiatore.

La Sicilia era esclusa da quel mondo, anche immaginario, in cui crescevo e maturavo la mia vocazione di scrittore. Non so come, ma avevo l’impressione che anche mio padre stesse dimenticando l’Isola natale. Erano morti i nonni, e la zia Santina, l’unica rimasta zitella delle sei sorelle Conte, che periodicamente veniva a passare lunghi periodi con noi, era accolta generosamente ma poi messa in disparte, non senza qualche fastidio da parte di mio padre per il suo parlare pervicacemente il dialetto: lui aveva perso del tutto perfino l’accento siciliano, che sembra così incancellabile.

L’unico campo in cui la Sicilia per lui contava ancora era quello gastronomico: era capace di fare ottanta chilometri per procurare la ricotta salata da grattugiare sugli spaghetti con le melanzane, e qualche volta condiva con olio, aceto e sale una arancia tagliata a fette: il massimo di esotismo per i parenti liguri. Io, tra il mare e i locali notturni della Riviera, nelle aule della Statale a Milano, ai tavoli del CUSM, il collegio dell’Università, tra le nebbie e i fumi di Sesto San Giovanni, non sentivo la Sicilia che come un passato lontano, in fondo estraneo, che potevo benissimo ignorare.

Quando papà morì, l’anno dopo che era andato in pensione, come se in fondo per lui una vita senza lavoro e senza un ruolo di comando non valesse più la pena di essere vissuta, mio fratello Silvio e io decidemmo di andare in Sicilia per fare celebrare una Messa in sua memoria in presenza della vasta parte della famiglia che non aveva partecipato alle esequie in Liguria. Non avevamo mai sentito parlare papà di temi religiosi, se non si considera una litania in omaggio a San Francesco da Paola, che recitava qualche volta (“San Franciscuzzo da Paola/ cunzateci sta taula”). Raramente l’avevamo visto in chiesa.

Ci aveva insegnato un impegno strenuo nel lavoro, e dato esempi di giustizia e di generosità. Era uno di quegli uomini all’antica per cui valeva la formula secondo cui non potevano non dirsi cristiani. A noi bastava. I parenti del “paesazzo” esibivano il lutto con piccoli manifesti funebri attaccati alle porte delle case, quelli di città parteciparono al rito con una certa alterigia distaccata.

Dopo tanta dimenticanza, quando l’anello più stretto che mi legava all’Isola, la figura paterna, si era dissolto nel mistero della morte, ecco che la Sicilia, come per un richiamo, mandava le sue voci, le sue sirene sino alle mie orecchie. Tornava lentamente a parlarmi. Non erano certamente parole chiare, ragionevoli, obbedienti a una logica che io potessi controllare. Piuttosto, erano parole rauche, spezzate. oscure, ossessive, contraddittorie, piene di una vitalità feroce e dolcissima.

Si componevano in un canto. Il canto delle Sirene, perdizione e bellezza, tentazione naufragio: era il mito a riportarmi in Sicilia. Non c’è terra che più della Sicilia sia bagnata dal mito. Ed era per me, vagabondo tra i miti di tutto il pianeta Terra, il momento di riconoscerlo pienamente. Ai piedi di Taormina e di quel miracolo aereo che è Castelmola c’è Giardini Naxos, sul sito dove i Greci diedero vita alla loro prima colonia, diffondendo la loro filosofia, la loro arte e la loro idea della divinità in tutta l’Isola. Siracusa divenne una delle maggiori metropoli del mondo antico, ancora oggi l’Orecchio di Dioniso, il Teatro, la fonte Aretusa testimoniano uno splendore fatto di pietra, di sole, di buio, d’acqua in cui tanti miti continuano a vivere.

Quante dee e quanti dei, quante figure del mito hanno lasciato le loro impronte in Sicilia. Scilla e Cariddi sullo Stretto, Efesto il dio fabbro e il gigante Tifone nell’Etna, Polifemo e i Ciclopi davanti al mare di Aci Trezza, la ninfa Aretusa e il fiume Alfeo a Siracusa, Persefone nel cuore fiorito dell’Isola dove, sbucando dal buio infero Ades la rapisce.

A questa Sicilia del mito si sovrappone e dura un secolo circa la Sicilia dell’Islam. Le tracce sono ancora evidenti in tanti toponimi, in tanti luoghi, in tanti volti. Non c’è altra parte d’Italia che abbia fatto parte della nazione araba, e così a lungo. E poche parti d’Italia hanno dato tanto alla letteratura come la Sicilia, ci pensai con un soprassalto mentre viaggiando verso Augusta rasentai Lentini: la patria di quell’Jacopo da Lentini che, ditemi se è poco, creò la forma canonica del sonetto, due quartine e due terzine per complessivi 14 versi (7+7), su cui non soltanto un critico letterario, ma anche un esperto di numerologia, e forse anche uno di cabala e magia, hanno da indagare.

Ecco Giovanni Verga, che sedusse personalità come quelle di D.H. Lawrence e di Jean-Paul Sartre, e poi almeno Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Patti, Piccolo, Sciascia, D’Arrigo, Consolo sino a un Camilleri myth maker, da Montalbano al Tiresia che parla in un suo strepitoso monologo teatrale. Ricordo la sorpresa e la dolcezza di una telefonata di Sciascia che mi arrivò un mattino, e tutto il rimpianto di non essere subito volato a Palermo a stringergli la mano.

Eppure, il richiamo della Sicilia su di me ha agito soprattutto su un piano più oscuro e vitale. Né la passione per Verga, né la devozione a Sciascia, né l’amore per il barocco di Lucio Piccolo sarebbero bastati. Il richiamo ha a che fare con il sangue, il dna, la coscienza sia pur confusa e torbida della continuità della vita. E si è fatto più forte man mano che io mi avvicino all’età per dire la quale bisogna usare il numero dell’infinito.

È il richiamo dell’età dei padri, terribile per me che non sono diventato padre, e non sono più figlio. Specchio della mia povertà, delle mie ossessioni, delle mie derive, del mio barocco, del mio culto del mito: tutto questo è la Sicilia per me. Specchio delle contraddizioni più feroci tra una ragione che rasenta un avaro scetticismo e il bisogno di entusiasmo e di slancio, tra una inclinazione al piacere e un desiderio incommensurabile di sacro e di Dio. Torno sempre più spesso in Sicilia. Fantastico di comperare una casa sul mar Ionio o sulle pendici dell’Etna. So che non avverrà. Ma il fatto stesso che ci pensi è segno di un movimento desiderante dell’anima.

E poi chissà. Dove trovare più amici e sempre più cari, giovani poeti che mi circondano quando sono nell’Isola? Dove sono luoghi più azzurri e più protesi verso il cielo? E dove trovare cibi per me più deliziosi che la pasta alla norma e gli involtini di pesce spada, e un vino più seduttivo, quasi drogante di quello alla mandorla da bere ghiacciato?

E poi c’è l’Etna, che mi incanta e mi stordisce. La sua presenza è enigmaticamente ubiqua, con una possanza fuori misura, quasi extraterrestre. L’eccesso è la vera misura della Sicilia. Troppa vita, troppa morte, troppa gioia, troppo dolore. Le colate di lava sono un eccesso delle viscere della terra. Il nero del tufo è l’eccesso ossificato del fuoco. La volta che sono arrivato sino alla vetta del vulcano era una camionetta della Forestale a portarmi. Partito da Zafferana Etnea, mi sono trovato in poco tempo a passare attraverso diverse realtà sovrapposte.

È così sempre quando si risale il pendio di un’alta montagna: si passano tipi di vegetazione e climi diversi in brevi distanze. Ma l’Etna non è solo un’alta montagna. Non ha asprezza di rocce, ma il caos dove si incontrano piante, canaloni scavati come da torrenti, coni vulcanici dalle piccole bocche, agglomerati di tufo. Intanto si allontana il paese, l’abitato, la stessa idea di una casa, la stessa idea di storia, di civiltà. La jeep della Forestale continua a risalire come se stesse penetrando nuvole.

Bisogna infilarsi di fretta una giacca a vento. La vetta è spoglia. Deserto di cenere e foschia. Un altro mondo. Un pianeta sconosciuto. Ai piedi non hai né erba né fango né pietra, hai lo strato sottile di qualcosa che li nega e li riassume, non del tutto solido, infido, che sembra lasciar trapelare venature rossicce. Non ho resistito e ho calcato la palma di una mano a terra: ho avvertito un senso inatteso, spaventoso di calore, una pulsazione come di carne.

Sempre sulle pendici dell’Etna, c’è il paese di Trecastagni. Sul suo nome le ipotesi sono tante. Scartata quella più ovvia, la presenza di tre alberi di castagno sul sito dove il paese è sorto, resta quella più enigmatica e insieme più probabile. Il nome deriverebbe dai Tre Casti Agni, i tre fratelli Alfio, Cirino e Filadelfo, martiri cristiani del III secolo, a cui è dedicato un santuario. Visitare il santuario a maggio, quando cade la festa di Sant’Alfio, è stata una esperienza che mi ha lasciato un segno incancellabile. Avevo sino allora cercato in Sicilia miti greci. Lì mi sono trovato di fronte a una maniera popolare e mitica di vivere la fede cristiana. Ho un ricordo ambiguo e imperfetto di quella notte.

Chi mi aveva portato sin lassù? E perché? Mi pare di ricordare due amici poeti con me, Antonio Di Mauro e Carmelo Panebianco, autore di liriche alla riscoperta della Sicilia islamica. E di ricordare che dal santuario, situato sui cinquecento metri d’altezza, si dominava un molto ampio spazio collinare, ormai immerso nel buio. Usa che da tutti i paesi vicini chi ha ricevuto una grazia da Sant’Alfio, o chi vuole chiedergliene una, arrivi al santuario a piedi, seminudo, e recando sulle spalle un cero. Cominciai a vedere i primi che guadagnavano la porta del santuario: uomini giovani e meno giovani, affaticati, sudati, in una piena esaltazione di tutti i sensi, e trascinando ceri che potevano arrivare alle dimensioni di tronchi d’albero. Tutto mi appariva folle e incredibile, ma dentro di me cresceva una commozione che mi stringeva la gola e faceva affacciare ai miei occhi il sale delle lacrime.

Dunque in un mondo ormai senza più segni tangibili di fede, di sacro, di preghiera, c’era lì, alle pendici del Vulcano, chi offriva al proprio Santo protettore un sacrificio simile, si sottoponeva a una penitenza così dura, alimentava in cuore una speranza così infuocata. Uno arrivò sul sagrato sfinito, reggeva un cero cilindrico di almeno cinquanta centimetri di diametro e lungo più di due metri, che gli oscillava sulle spalle e sbilanciava il suo passo. Spettinato, un perizoma bianco, respirava forte, tossiva, chissà cosa aveva chiesto al Santo, o cosa stava per chiedergli. Doveva essere qualcosa di grosso e disperato, come il cero che portava e il suo passo, ormai in procinto di crollare. Quando vide la porta del Santuario, riprese forza dal sentirsi così vicino alla meta. Barcollò un po’, poi accelerò e infilò la porta con un urlo sovrumano, una clamorosa offerta di sottomissione: “Sugnu servu vostru, Sant’Alfiu”.

L’eco di quel grido così straziante e sublime mi accompagnò quando anche io, che indossavo un comodo maglione e una giacca a vento, con il mio povero abito mentale estraneo a simili riti ed eccessi, entrai nel santuario tra tanti uomini discinti e tanti ceri ormai piantati sul pavimento e accesi, con fiamme che volteggiavano intorno tra nuvole di fumo, e lasciavano vedere soltanto in una trasparenza oscillante l’altare, le statue, le colonne. Dov’ero? In che Sicilia? In che secolo? Quella chiesa non sembrava più una chiesa dei nostri tempi, asettici e disincarnati. Il fervore, il fuoco, i gridi. La purezza del “casto agnello” Sant’Alfio era celebrata con una cerimonia folle e smodata, ma così meravigliosamente umana. Che cosa può dirsi umano, senza fede, follia, sacrificio, speranza, preghiera? Non vidi Dioniso, quella sera. Troppo facile. Vidi il senso della fede popolare nel miracolo, nell’incarnazione.

Anche questo lo devo alla Sicilia. La terra dei padri. Da allora il mio riavvicinamento alla Sicilia è diventato più forte e assurdo, o almeno incomprensibile al di fuori di una sensibilità mitica e metafisica. Ed è da lì che, senza deciderlo con un progetto ben ragionato, ho ambientato in Sicilia, per la prima volta, ai piedi dell’Etna, un intero libro che ha per oggetto un antico terribile mito calato nel presente della nostra realtà. Così il mio ritorno alla Sicilia ha finito, forse mio malgrado, per manifestarsi in ciò che per me conta di più: nella scrittura, nella letteratura.