La Fondazione Maddalena Grassi di Milano si occupa dal 1991 dell’assistenza ai malati terminali con un approccio integrato per sviluppare percorsi assistenziali e riabilitativi personalizzati che prevedano sempre di più il coinvolgimento del paziente e della sua famiglia. Si legge dal sito della Fondazione: «Promuoviamo un ambiente in cui ogni individuo con un bisogno di salute riceva un’assistenza sanitaria di alta qualità fondata sul rispetto della persona e dei suoi bisogni. Miriamo non solo a soddisfare le esigenze mediche della persona, ma anche ad accompagnarla offrendo supporto emotivo e sociale a lei e alla sua famiglia». Attualmente il cappellano della Fondazione è don Vincent Nagle, nato nel 1958, a San Francisco (Usa). È laureato in Sociologia e in Studi classici, in Lingua araba e in Storia della religione islamica. Ordinato sacerdote nel ’92 nella Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo. È autore dei volumi Sulle frontiere dell’umano. Un prete tra i malati (Rubbettino), Nella terra di Dio (Lindau) e Viaggio in Terra Santa e Davanti al re (Ares).
Otto o nove anni fa ho partecipato a una conferenza sul tema della cura alla fine della vita. Un medico che parlava sul palco insieme a me ha osservato che nel corso delle generazioni precedenti la medicina ha compiuto tanti passi in avanti nella capacità di guarire le persone da varie malattie e infortuni e nella prevenzione. Ma da tempo la scienza non realizza più tali progressi se non raramente.
Oggi la medicina va nella direzione di permettere convivenza con la malattia, modificandone gli effetti, rallentandone il progresso, offrendo apparecchi o cure che rendano più sopportabili o almeno meno gravose le condizioni conseguenti il malanno. La vita viene prolungata riducendo il progredire delle malattie o aiutando la persona a subire in modo minore le conseguenze delle limitazioni nella propria vita causate da una condizione di salute compromessa.
Un campo dove questa tendenza emerge in modo drammatico è la neurologia. La rianimazione delle persone colpite da un trauma fisico ha permesso di salvare la vita di moltissimi soggetti colpiti da infarto o vittime di incidenti, ma con la conseguenza che la persona a volte sopravvive afflitta da un’esistenza molto condizionata a causa dei danni subiti al cervello.
Sono nato nel 1958 e cresciuto in campagna dove le persone vivevano in situazioni dure. Quando a qualcuno veniva diagnosticato un tumore non trascorreva tanto tempo prima della sua morte; anche altre condizioni, per esempio problemi al cuore, facevano presagire che la vita terrena del malato non sarebbe durata a lungo.
Sappiamo che ora non è così. Viviamo più a lungo, ma spesso questi anni “guadagnati” vengono vissuti in modo strettamente associato a diversi generi di malattie o altre condizioni determinanti limitazioni che non portano subito alla morte.
Tutto questo è una sfida nuova nella storia del mondo. Il progresso della scienza medica ci presenta una società in cui le persone malate sono in numero sempre maggiore, una percentuale via via crescente di popolazione bisognosa di essere curata e anche accompagnata nella propria condizione compromessa. E questo accade in un’epoca in cui le relazioni familiari e sociali sono sempre più deboli e le persone sole sempre più numerose.
Questi cambiamenti che cosa ci chiedono?
Non si tratta di una domanda secondaria ma assolutamente essenziale. Chiunque potrebbe forse intuire che i limiti generati dalla salute ridotta inducono una maggiore esigenza di essere aiutati e curati, ma c’è un fattore nell’esperienza della malattia che gioca un ruolo più significativo di tutti gli altri, ed è a questo che voglio qui fare cenno.
Negli ultimi nove anni, il mio lavoro quotidiano consiste nello stare con persone gravemente malate, che non hanno prospettiva di guarigione, in cura presso la Fondazione Maddalena Grassi, e ho sperimentato come la questione di essere o meno accompagnati sia il fattore discriminante che determina se la persona malata abbia voglia di continuare a vivere o desideri cercare un aiuto per mettere fine al suo soggiorno fra di noi.
Non è il dolore, non la mancanza di mobilità, la povertà, né la indisponibilità o inefficienza del sistema sanitario che emergono come “il” fattore destabilizzante nell’esperienza umana della malattia, anche se tutti questi sono elementi molto importanti.
Ho visto, invece, tante volte come la considerazione che prevale su tutto il resto nell’esperienza della persona malata sia sentirsi o meno accompagnata.
Nei primi anni di lavoro ricordo di aver trascorso molto tempo con un gruppo di persone malate di Hiv. Mentre è vero che questa patologia può essere ormai efficacemente curata, anche se non superata, con l’uso di vari farmaci antivirali, seguire il programma stabilito dalla terapia richiede impegno, organizzazione e sostegno. Tante, tra le persone che contraggono questa malattia, vivono però esistenze caotiche che precludono una disciplina nella terapia, e questo permette che essa avanzi nel suo percorso distruttivo.
Sono cappellano in tre diverse strutture dove vivono persone in cui la malattia è molto avanzata. Ricordo che un venerdì mattina, in Quaresima, stavo parlando con un gruppo di questi ospiti della Passione e sofferenza di Gesù; ciò ci ha condotti a toccare il tema delle sofferenze e della morte. A un certo punto uno dei presenti ha affermato con veemenza che, quando sarà giunto a una certa evoluzione della sua malattia, si suiciderà o richiederà l’eutanasia. Ho visto le teste di tutti i presenti annuire e ho sentito tante espressioni di assenso. Quando ho approfondito il discorso è emerso che, con il genere di vita da loro trascorsa, tanti ponti erano stati tagliati e non volevano entrare in agonia e morire da soli. Tutti hanno espresso preoccupazioni simili.
Ho compreso che il terrore vissuto non era in primo luogo determinato dalla prospettiva della sofferenza e della morte, ma da quella di dover affrontare tale passo abbandonati.
Ho potuto verificare che la questione di essere accompagnati o meno è realmente al centro delle nostre paure, anche se non ne siamo coscienti. E ho cominciato a meditare sul significato di cosa significhi e cosa, al contrario, non permetta di “fare compagnia”. Dunque, per accompagnare un malato quali elementi sono necessari?
Sono due i fattori indispensabili per proporre un accompagnamento vivo a una persona: “non censurare niente” e “portare un’ipotesi positiva inerente al suo vivere”.
Non censurare
Cosa intendo quando parlo di censura? Intendo dire che per accompagnare una persona non basta stargli vicino e parlare allegramente di argomenti piacevoli o condividere attività belle e coinvolgenti. Spesso noi per istinto, quando ci tocca avvicinarci a una persona sofferente, siamo tentati di aiutarla distogliendo la sua attenzione dal dramma del dolore e dal terrore generati dalla propria condizione per orientare lo sguardo su aspetti positivi e promettenti.
Di per sé non c’è nulla di male in questa iniziativa e può risultare utile in alcuni momenti ed esperienze condivise. Però il risultato non coincide con una genuina realtà di accompagnamento nell’esperienza del limite, cioè del presagio della morte.
Questo evitare di guardare, affiancando i malati, ai limiti crescenti delle loro capacità umane che corrisponde al preannuncio, prossimo o meno, della propria morte, dipende dal fatto che noi per primi non siamo pronti a stare di fronte al limite della nostra esperienza terrena, cioè alla nostra stessa morte, più o meno imminente.
Anche se siamo consapevoli di essere mortali, tale fattore assolutamente fondamentale della nostra condizione umana, momento per momento, giorno per giorno, tende a essere censurato. Infatti, quando per un motivo qualsiasi, questo limite si presenta inevitabilmente, costituisce una esperienza traumatica. Non iniziamo mai la nostra giornata con la consapevolezza limpida e libera di essere mortali e che quindi il limite, la morte, fanno parte di ogni esperienza umana. Rabbiosamente releghiamo ai margini estremi della nostra coscienza questa cognizione. È forma di censura.
È la ragione per cui facciamo fatica a stare accanto a una persona malata guardando insieme a tutta intera la sua condizione, al contrario collaboriamo a realizzare una censura.
Per accompagnare una persona dentro il cammino del limite occorre qualcuno disposto a condividere questo percorso con lei, guardando insieme ogni aspetto della realtà per individuarne i segni di speranza.
Molti anni orsono, quando ero cappellano in un ospedale negli Stati Uniti, vi era ricoverato un predicatore protestante pensionato molto rinomato nella zona. Ho deciso di entrare nella sua stanza per mostrare rispetto verso quest’uomo così stimato dai miei colleghi protestanti. Quando mi recavo da lui lo trovavo circondato dalla sua famiglia, la moglie e uno o più dei figli ormai adulti. Apparivano persone splendide. Dopo le presentazioni mi mettevo in ginocchio accanto a lui per poterlo guardare negli occhi stando al suo livello e chiedevo come si sentisse. Egli lamentava spesso i suoi dolori e le paure, così io gli rispondevo: «Sì, sì, Frank, lo credo, lo credo. Deve essere proprio difficile». Evitavo correttamente di proporre preghiere, perché questo toccava ai miei colleghi protestanti, non a me, mi alzavo e partivo. Ogni volta che tornava in ospedale perché le sue condizioni peggioravano, andavo a fargli visita per ripetere il mio saluto rispettoso.
Una volta, uscito dalla camera di Frank, nel corridoio ho sentito dietro a me il calpestio di passi frettolosi. Era la figlia maggiore, la quale mi disse di volermi ringraziare per le mie visite. Sorpreso, risposi, «È mio dovere, svolto volentieri». Lei insistette sottolineando la sua gratitudine e accennando al fatto che stavo insegnando qualcosa a tutti loro.
Mi spiegò che, quando lei e i fratelli da piccoli si lamentavano, il papà cercava sempre di interrompere le recriminazioni per parlare d’altro, di cose più positive. Ora loro si stavano comportando allo stesso modo con lui di fronte alla sua malattia: quando Frank esprimeva il proprio disagio mutavano l’argomento di conversazione.
Invece «quando vieni tu lo ascolti veramente, fino in fondo, e lui aspetta con desiderio le tue visite. Mi rendo conto ora che in tutto questo tempo noi non l’abbiamo ascoltato e l’abbiamo lasciato solo!». Detto questo scoppiò in pianto.
Stavano sempre con lui, in modo molto amoroso e premuroso, tuttavia, secondo la figlia, l’avevano lasciato solo, abbandonato, perché non guardavano assieme a lui la realtà che stava affrontando.
Portare un’ipotesi positiva
Il secondo fattore necessario, a mio avviso, per essere di compagnia a una persona malata è portare un’ipotesi positiva sulla sua vita. Che cosa significa ciò?
Intendo avere nei confronti del malato uno sguardo convinto, o almeno desideroso della presenza dei segni che rendono convinto, del fatto che vale la pena vivere anche nella sua situazione.
Tale sguardo è spesso molto più pieno di domanda che di risposta perché stando davanti a una persona drammaticamente limitata e sofferente, non è immediato per noi poter vedere in che modo davvero valga la pena di vivere così.
Con riferimento alla mia esperienza posso dire che normalmente non sarei in grado di accennare alla persona quali siano le ragioni per abbracciare il suo vivere drammatico, neppure se venissi illuminato da adeguate motivazioni. È la persona stessa che deve scoprire questo valore anche se è difficile, se non quasi impossibile, per una persona non accompagnata giungere a questa scoperta.
La paura, il terrore, l’angoscia, la resistenza interna che uno sperimenta in tempi di prova fanno sì che lo sguardo sulla realtà venga molto ridotto e costretto. Una persona al tuo fianco che guarda con te e domanda di trovare una risposta di valore consente un’apertura della coscienza che rende tali scoperte molto più possibili. Il compagno può dire: «Hai visto? Hai capito? Hai notato?».
Nella mia esperienza questo momento arriva sempre, con i tempi necessari e diversi per ciascuno. Non mi è mai accaduto che, prima o poi, in un modo o nell’altro, non si presentasse una parola, un incontro, una memoria, in cui emergesse qualcosa per cui valeva la pena di aver vissuto quel momento, capace di aprire una prospettiva verso la scoperta di come possa valere la pena di vivere ancora.
Prima di procedere vorrei anticipare la risposta a una possibile obiezione su quello che sto dicendo. Una sera parlavo davanti a una grande aula piena di persone, per lo più cattolici praticanti. A un certo punto uno dei presenti ha osservato: «Perché non parli della fede? Perché non parli di Gesù?». Ho risposto dicendo che Gesù è venuto per riconciliarci col Padre, col Creatore, con la realtà che è la parola amorosa di Dio alle sue creature. Certamente un rapporto personale col nostro unico Salvatore, Gesù Cristo, favorisce in modo stupendo una relazione aperta, curiosa e fiduciosa con la realtà e ciò facilita enormemente la scoperta, qui e ora, che il dono della vita da parte del Padre rimane ed è operativo sempre, in ogni circostanza.
Ma il fatto di cui sono testimone è quanto Dio sia generoso e collaborativo in questa opera di accompagnamento anche nei confronti di tante persone dotate solo di una fede poco formata, ambigua, o addirittura diversa dalla mia. Ho visto tanti uomini e donne che non erano in grado di parlare con chiarezza del Signore Gesù, eppure accompagnavano in modo vero un malato e Dio offriva la sua risposta alla domanda di come possa valere la pena di vivere così, senza aspettare i passi preliminari di una catechesi. Una volta ho chiesto a una malata che aveva già ottenuto l’autorizzazione all’eutanasia perché non l’aveva attuata. Mi ha indicato la sua badante filippina dicendo: «La mia badante è brava».
Tornando all’importanza di un’ipotesi positiva sul vivere, vorrei raccontare un altro episodio. Quando ho cominciato a visitare Daniela (nome fittizio), la prima cosa che mi ha rivelato è stata che voleva essere portata in Svizzera per il suicidio assistito. Era vedova con una vita molto difficile alle spalle e ormai molto malata di Sla. Aveva due figli già adulti che incontravano tante difficoltà nel rispondere alle complesse esigenze della mamma. Ho chiesto a Daniela di spiegare perché desiderasse essere aiutata a morire, così abbiamo parlato della sua storia, dell’infanzia in un orfanotrofio, del rapporto davvero difficile col marito e della perdita, a causa di un tumore, della sorella, la persona con la quale viveva il rapporto più intimo. È stato possibile individuare alcuni temi, per lei entusiasmanti, da esplorare insieme, ma ogni nostro incontro iniziava sempre dalla riproposta della sua volontà di essere messa a morte.
Con il tempo ho capito che Daniela si percepiva come un peso e un ostacolo alla vita dei suoi due figli, così in un momento drammatico del suo percorso le ho detto ciò che pensavo da tempo: «Cara, i tuoi figli sono ormai uomini adulti, eppure non sono sposati, né conviventi o fidanzati e faticano ad accudirti nella tua malattia. Non ne conosco le ragioni, ma ritengo non siano molto inclini all’amore, non vivano un’esperienza compiuta dell’amore. Questa tua malattia potrebbe costituire la loro ultima occasione per imparare ad amare nella vita. Tale prova è per loro una scuola di amore, di cui hanno bisogno. Tu vorresti davvero precludere a loro questa occasione preziosa?». Da quel giorno non solo non abbiamo mai più parlato di andare in Svizzera, ma il volto di Daniela è cambiato. Quando l’avevo incontrata era un volto molto segnato dall’angoscia, dopo quel colloquio è andato trasformandosi in una bella visione di serenità, piena di pace e amore. Era serafico.
Stando con lei senza censure, e con l’ipotesi che questa esperienza non fosse “contro” di lei ma “per” lei, è emerso ciò per cui valeva la pena che vivesse in quel modo.
In conclusione, che il tempo e la società in cui viviamo ci pongono davanti alla grande sfida dell’accompagnamento come un’esigenza primaria, onnipresente. La mancanza di questa risorsa rende sempre più ampio il campo di un pensiero privo del senso del valore infinito della vita umana, nella sua misteriosa profondità. Perciò è veramente indispensabile un richiamo a tali istanze coinvolgenti tutti noi che diciamo di avere a cuore l’umano redento dal sangue di Cristo.
C’è anche di più. Ho scoperto, accettando di accompagnare le persone in queste situazioni difficili, che la prima persona a essere liberata dalla propria angoscia davanti alle sofferenze, davanti ai limiti drammatici, davanti ai presagi forti della morte, spesso non è il malato, ma in realtà sono io. Ho percepito la medesima sensazione anche nell’esperienza dei volontari che ho mandato da tante persone. L’accompagnamento libera dall’angoscia innanzitutto noi che, con trepidazione, abbiamo accettato questa sfida. Avvicinarsi alla Croce domandando che il Salvatore si metta a operare, ci libera tutti. Sono ormai persuaso che l’accompagnamento abbia la stessa dinamica della salvezza.