Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto». Quando papa Francesco citò il personaggio dei Promessi Sposi facendolo entrare nel magistero pontificio come una metafora dell’ignavia umana davanti ai drammi del prossimo, l’opinione pubblica era già sorpresa dal luogo dove ne parlò – Lampedusa –, dalle motivazioni del viaggio – i ripetuti naufragi di migranti nel Mediterraneo –, dal fatto che come sua prima uscita ufficiale dal Vaticano – di per sé dunque altamente simbolica – avesse scelto non un solenne proscenio mondiale, e neppure la sua stessa patria (peraltro non ancora visitata, dieci anni dopo), ma un’isoletta nota come meta del turismo e delle migrazioni, due rotte tanto differenti e che pure ormai da tempo convergono su pochi chilometri quadrati di terra emergente dal mare, quasi un luogo destinato a imprevedibili incontri. E dunque la citazione manzoniana in mezzo al mare passò quasi inosservata, tanto era già spiazzante il proscenio. Ma oggi torna a parlarci, e stavolta non possiamo scantonare.
La sorpresa, in quel giorno (era l’8 luglio 2013) a poca distanza temporale dall’inizio del pontificato, era ormai una cifra evidente del nuovo Papa, che quasi non lasciava passare giorno senza spiazzare la Chiesa e il mondo. La citazione di Manzoni in un contesto simile – che ci può far mai l’Innominato a Lampedusa? – fu dunque solo un nuovo colpo di scena dentro uno stile di annuncio che stava cambiando sotto la spinta impressa da un uomo per il quale la storia va guardata sempre dal punto di vista di chi sta su una zattera alla deriva nel mare, aggrappato a una speranza invincibile.
È questo il mondo in cui Francesco, allora come oggi, pensa ai fenomeni migratori: povertà, desiderio di vita nuova, dignità umana, giustizia sociale, indifferenza, sguardo accogliente, fraternità, saggezza nell’aprire le porte, condivisione. A interrogarci inesorabilmente è sempre di più quel suo dirci che quando restiamo inerti, se non ostili, perdiamo il nostro volto umano e diventiamo “innominati” anche noi: «Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? – ci incalzava ancora il Papa, dieci anni fa come fosse oggi –. Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. (…) In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!»
I migranti e papa Francesco
Parole roventi, che sono poi echeggiate in documenti e omelie, discorsi e messaggi. Fino al testo consegnato per la 109esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato in calendario il 24 settembre, pubblicato l’11 maggio. Pagine nelle quali il Pontefice iscrive nell’agenda dell’opinione pubblica la sua idea che tutti gli esseri umani nella condizione dei migranti (sospinti a partire, ma sempre contro tutta la loro stessa vita che gli grida di non farlo) devono essere «liberi di scegliere se migrare o restare», tema-slogan del messaggio pontificio, e già di una iniziativa della Conferenza episcopale italiana di («Liberi di partire, liberi di restare», 2017-2020, con progetti di sviluppo nei Paesi di emigrazione per 27 milioni di euro).
«I flussi migratori dei nostri giorni, scrive il Santo Padre, sono espressione di un fenomeno complesso e articolato, la cui comprensione esige l’analisi attenta di tutti gli aspetti che caratterizzano le diverse tappe dell’esperienza migratoria, dalla partenza all’arrivo, incluso un eventuale ritorno». Francesco affida a un’immagine evangelica il riassunto simbolico di ciò che desidera dirci: «Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”. La fuga della Santa Famiglia in Egitto non è frutto di una scelta libera, come del resto non lo furono molte delle migrazioni che hanno segnato la storia del popolo d’Israele. Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è». Forse in questa chiave non avevamo ancora considerato la pagina di Matteo, oggi riletta dal Pontefice: «Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire».
Vent’anni fa san Giovanni Paolo II, citato da papa Bergoglio, aveva affermato in un analogo messaggio che «costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria». Ma in un mondo dilaniato da guerre incancrenite e da altre terribili e recenti (le une e le altre ugualmente inutili e crudeli) l’esodo di persone, famiglie, popoli interi è diventato un fenomeno endemico, che insieme alle grandi crisi alimentari e climatiche si somma alla povertà e al sogno di un futuro umano per sé e per i propri cari: «Persecuzioni, guerre, fenomeni atmosferici e miseria sono tra le cause più visibili delle migrazioni forzate contemporanee», spiega il Papa. «I migranti scappano per povertà, per paura, per disperazione. Al fine di eliminare queste cause e porre così termine alle migrazioni forzate è necessario l’impegno comune di tutti, ciascuno secondo le proprie responsabilità. Un impegno che comincia col chiederci che cosa possiamo fare, ma anche cosa dobbiamo smettere di fare. Dobbiamo prodigarci per fermare la corsa agli armamenti, il colonialismo economico, la razzia delle risorse altrui, la devastazione della nostra casa comune».
Lotta all’indifferenza
Ma cosa occorre «per fare della migrazione una scelta davvero libera»? Oggi è indispensabile «sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale. Solo così si potrà offrire a ognuno la possibilità di vivere dignitosamente e realizzarsi personalmente e come famiglia». Ognuno ha le proprie responsabilità, a partire da chi tiene le redini politiche delle comunità: «È chiaro», argomenta il Santo Padre «che il compito principale spetta ai Paesi di origine e ai loro governanti, chiamati a esercitare la buona politica, trasparente, onesta, lungimirante e al servizio di tutti, specialmente dei più vulnerabili. Essi però devono essere messi in condizione di fare questo, senza trovarsi depredati delle proprie risorse naturali e umane e senza ingerenze esterne tese a favorire gli interessi di pochi. E lì dove le circostanze permettano di scegliere se migrare o restare, si dovrà comunque garantire che tale scelta sia informata e ponderata, onde evitare che tanti uomini, donne e bambini cadano vittime di rischiose illusioni o di trafficanti senza scrupoli».
Già pensando al Giubileo del 2025 (ricordate quanti gesti di riconciliazione propose papa Wojtyla per sanare grandi “peccati sociali”?) Francesco si dice convinto che oggi «è necessario uno sforzo congiunto dei singoli Paesi e della Comunità internazionale per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare, ossia la possibilità di vivere in pace e con dignità nella propria terra. Si tratta di un diritto non ancora codificato, ma di fondamentale importanza, la cui garanzia è da comprendersi come corresponsabilità di tutti gli Stati nei confronti di un bene comune che va oltre i confini nazionali. Infatti, poiché le risorse mondiali non sono illimitate, lo sviluppo dei Paesi economicamente più poveri dipende dalla capacità di condivisione che si riesce a generare tra tutti i Paesi. Fino a quando questo diritto non sarà garantito – e si tratta di un cammino lungo – saranno ancora in molti a dover partire per cercare una vita migliore».
Condizione preliminare è «riconoscere nel migrante non solo un fratello o una sorella in difficoltà ma Cristo stesso che bussa alla nostra porta». La conseguenza immediata nella logica cristiana è chiara: «Mentre lavoriamo perché ogni migrazione possa essere frutto di una scelta libera, siamo chiamati ad avere il massimo rispetto della dignità di ogni migrante; e ciò significa accompagnare e governare nel miglior modo possibile i flussi, costruendo ponti e non muri, ampliando i canali per una migrazione sicura e regolare. Ovunque decidiamo di costruire il nostro futuro, nel Paese dove siamo nati o altrove, l’importante è che lì ci sia sempre una comunità pronta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzione e senza lasciare fuori nessuno».
Un modo umano di vedere la “questione migratoria” che ci porterà a vedere «nelle persone più vulnerabili – e tra questi molti migranti e rifugiati – dei compagni di viaggio speciali, da amare e curare come fratelli e sorelle». Perché «solo camminando insieme potremo andare lontano e raggiungere la meta comune del nostro viaggio». Per non scoprirci innominati davanti alla storia.