Nel mese di aprile è uscito Quello che ci resta, il terzo romanzo di un’inaspettata trilogia pubblicata grazie all’accoglienza della casa editrice Ares.

Benvenuti copertina Quel che ci resta

La copertina di Quello che ci resta

Quattro anni fa iniziai a scrivere il primo romanzo con l’intenzione di “donare” un libro per l’estate ai miei studenti del liceo. Allora l’ispirazione arrivò sotto forma di Arianna, una ragazzina quattordicenne alle prese con la crisi di coppia dei genitori. Era un personaggio interamente composto da frammenti di alunne incontrate negli anni, le sue parole, i suoi gesti, i suoi pensieri si formavano naturalmente a partire dall’esperienza accumulata come docente della scuola superiore. Desideravo raccontare i piccoli drammi, i dubbi, i cambiamenti di un’adolescente incerta alle prese con le responsabilità della vita dei “grandi”; nacque così Niente che ci assomigli.

La copertina di Niente che ci assomigli di Anna Benvenuti

La copertina di Niente che ci assomigli

La ferita del Covid

Poi arrivò il Covid. Cercai di raccontarne l’impatto in un nuovo romanzo, per dare voce allo sconcerto dei ragazzi chiusi in casa e costretti dietro a uno schermo in un tempo sospeso che li privava della libertà e delle relazioni. Arianna era cresciuta, in piena pandemia compì diciotto anni e la festeggiai con Ancora tutto da imparare. Non avevamo ancora capito, però, che il peggio doveva ancora arrivare.

la copertina di Ancora tutto da imparare di anna benvenuti

La copertina di Ancora tutto da imparare

Il secondo lockdown, soprattutto, ha provocato nei ragazzi una ferita profonda e il suo strascico si fa sentire prepotente ancora oggi. L’adolescenza è per sua natura un’età difficile, caratterizzata da profondi mutamenti e fragilità, ma le circostanze del covid hanno accentuato le difficoltà e hanno enfatizzato il disagio emotivo delle giovani generazioni. Improvvisamente le aule scolastiche sono state travolte da episodi di attacchi di panico, ansie insormontabili, demotivazione, abbandono, apatia, fino ad arrivare a disturbi dell’alimentazione e autolesionismo.

Sono stata raggiunta da tali problematiche a scuola e poi anche a casa. Nostra figlia, undicenne, ha sofferto di anoressia nervosa acuta mentre frequentava la prima media e ha rischiato addirittura la vita. L’esperienza diretta della paura e della sofferenza ha naturalmente avuto un impatto potente sulla nostra famiglia, ma io e mio marito abbiamo trovato la nostra ripartenza (la nostra salvezza?) in ciò che ci viene meglio, la scrittura: insieme abbiamo dato vita a un libro di testimonianza, una “cronaca” della storia che vivevamo quotidianamente e che, fortunatamente, via via sembrava risolversi in modo positivo.

Con nostra figlia fuori pericolo, abbiamo capito che ciò che ci aveva angosciato maggiormente era stata la solitudine. Eravamo consapevoli del fatto che è difficile stare accanto alle persone che soffrono, soprattutto se la causa è un male viscido, di cui si parla poco, quasi uno “stigma” (vocabolo terribile!) del quale vergognarsi; ma abbiamo deciso di provare a scardinare almeno una parte della muraglia che circonda i DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare), raccontando in prima persona, non per dare consigli, ma per far sentire meno sole le persone, soprattutto i genitori, che si trovano a vivere queste terribili esperienze.

Con la pubblicazione di Corpo a perdere. Nostra figlia e l’anoressia (Piemme, Milano 2023, pp. 208, € 18), nel maggio scorso, abbiamo iniziato a metterci a disposizione di associazioni che si occupano di DCA per sostenere le famiglie con la nostra testimonianza.

copertina di corpo a perdere di anna benvenuti e lorenzo sanna

La copertina di Corpo a perdere

Eppure, i disturbi dell’alimentazione sono solo alcuni dei disagi che vivono i nostri ragazzi. In questi ultimi anni ho conosciuto alunne travagliate da una profonda sofferenza che le ha portate a farsi del male. Parlando con loro ho capito che anche questo era un tema nascosto, di cui parlare poco, da tenere sotterraneo, di cui vergognarsi, ed è così anche perché è difficilissimo mettersi nei panni di chi vive in prima persona tali situazioni e si cade facilmente in giudizi – o pregiudizi – affrettati e superficiali.

La scuola, un luogo per crescere

Arianna è tornata da me quest’estate, aveva sostenuto l’esame di maturità, un rito di passaggio e di liberazione dopo l’angoscia della pandemia. Era cresciuta, stava bene, ma stava scivolando verso l’indifferenza, una forma estrema di difesa nei confronti del male, una deriva verso la quale molti ragazzi si sono diretti, atterriti da ciò che li circondava.

Non potevo non raccogliere la nuova sfida, dovevo raccontare le battaglie di questi ragazzi che hanno ricevuto in pieno l’urto di una realtà distopica che ha stravolto le loro vite; lo dovevo anche alle mie alunne che non avevano voce e che sono diventate un nuovo personaggio, Carolina, l’amica amata e odiata di Arianna: insieme formano il nucleo del terzo romanzo, Quello che ci resta. Il tono resta volutamente lieve, in linea coi precedenti, ma i temi non fanno sconti alla realtà dei fatti. Alla fine, però, quello che resta è la voglia di rilanciare sulla propria vita, sull’amicizia, sull’amore.

La sfida del terzo romanzo è anche la sfida quotidiana che affrontano i docenti nelle scuole. I cambiamenti sono stati tanti e rapidi e non abbiamo avuto il tempo necessario per imparare a sostenere i ragazzi nel momento della loro maggiore fragilità. Ancora oggi percepiamo nelle classi le conseguenze della sofferenza degli ultimi anni.

Non è sempre eclatante come nel caso dei disturbi prima accennati, può manifestarsi anche solamente con la demotivazione, il disinteresse, l’incapacità di capire quale strada intraprendere nel proprio futuro. Gli insegnanti si trovano di fronte ragazzi meno curiosi, perché spesso già bombardati da mille sollecitazioni social, o perché spaventati dalla realtà che li circonda o, infine, che hanno sperimentato l’isolamento durante la pandemia e hanno capito che si può vivere anche solo di virtualità per non rischiare di soffrire, o addirittura di crescere.

Quale strada per il futuro

Non ci sono soluzioni pronte all’uso, ma dall’esperienza quotidiana ho maturato la convinzione che il primo passo necessario per scardinare l’apatia è l’ascolto. Anche i giovani, che forse ci appaiono distanti e respingenti, hanno ancora molto bisogno di essere ascoltati da noi. Di essere accolti, anche quando sbagliano, per potersi sentir dire che ciò che si rompe può essere aggiustato. O ricostruito da capo in modo diverso.

Abbiamo tutti bisogno di progettualità e rilancio per vivere, ma noi insegnanti abbiamo anche una responsabilità nei confronti dei ragazzi che ci osservano dietro i loro banchi e dovremmo continuare a essere animati da quello che amo definire “ottimismo educativo”. Dobbiamo essere indulgenti nei confronti degli errori dei ragazzi, che non significa essere né indifferenti né buonisti: ma credo sia importante non interrompere mai il dialogo, per poter rilanciare anche a partire dallo sbaglio. Non possiamo recidere il ponte comunicativo coi nostri ragazzi, a costo di reinventare il nostro linguaggio.

Per questo ritengo che sia necessario essere esemplari, non nel senso di perfetti, ma mostrando in che modo affrontiamo noi la nostra vita; raccontare la nostra esperienza con il disturbo di nostra figlia, per esempio, ha sicuramente sottolineato la nostra fragilità, ma abbiamo anche difeso l’esigenza di non considerarla un difetto e l’abbiamo resa il punto da cui ripartire con fiducia. Per mantenere vivo il dialogo occorre, infatti, non solo ascoltare e accogliere, ma anche raccontarsi.

Gli studenti vengono a scuola per costruirsi e deve essere un luogo in cui si cresce, si impara, si migliora, si diventa consapevoli dei propri difetti e si cerca di valorizzare i talenti. Solo così possiamo aiutarli a proiettarsi in avanti con rinnovato slancio.