Massimo Pandolfi è giornalista, scrittore, presidente del Club L’inguaribile voglia di vivere che da quindici anni promuove eventi culturali di sensibilizzazione e testimonianza sul valore e la dignità della vita umana in qualunque condizione essa sia, mediante incontri, dibattiti, pubblicazioni. Sostiene, inoltre, progetti mirati a favore di persone in difficoltà, ammalati, disabili, anziani, che permettano la realizzazione di loro desideri, sogni o necessità di varia natura.
«Io di inguaribile ho solo la voglia di vivere».
Parole secche, rimasi quasi spiazzato. Quell’uomo mi fissava negli occhi e quasi mi penetrava con lo sguardo mentre scandiva la frase. Era uno sguardo diverso, vero: dolce, sorridente, anche un po’ scanzonato. Doveva essere un’intervista.
Io, giovane, sano, giornalista in carriera e tutto sommato lontano anni luce, professione a parte, dai misteri della malattia e della disabilità, di fronte a quella affermazione non sapevo più che dire, che fare, che domandare. Finì che scoppiammo entrambi a ridere. E lo abbracciai.
È successo tanti anni fa. Da quell’incontro, da quelle parole, da quell’abbraccio, sono nati un libro, altri libri (tutti editi da Ares), un’associazione di volontariato e soprattutto un percorso mio, personale, accompagnato, da tanti altri “Io”, che uniti sono diventati, tenendosi per mano, una piccola-grande tribù di amici che provano a raccontare e soprattutto testimoniare che vale sempre la pena – sempre! – vivere e condividere il mistero della nostra esistenza.
Quelle nove parole («Io di inguaribile ho solo la voglia di vivere») me le pronunciò nei primi anni del terzo millennio Mario Melazzini, un uomo che fino a qualche anno prima era al top: bello, ricco, in carriera (giovane e già medico primario), una moglie, i figli, una marea di hobby.
Ma nel momento in cui pensava di avere tutto, stava cominciando a perdere tutto.
La Sla aveva cominciato ad avvinghiarlo, quasi a stritolarlo. Sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa tremenda: ti prende e poco alla volta non ti fa più camminare, muovere, parlare, respirare. Resti come prigioniero del tuo corpo. Melazzini a un certo punto pensò anche di farla finita, bussò alla porta di una clinica svizzera che offre l’eutanasia. Non voleva vivere così, il dolore e la sofferenza gli facevano paura. A chi non fanno paura?
Poi Melazzini cambiò idea, strada, ed è diventato un totem della vita, l’«Io che di inguaribile ho solo la voglia di vivere». Lo testimonia ancora oggi, continuando a tenere testa, da leone, alla malattia.
Ma come fa, come si fa? Non c’è risposta “ufficiale”.
Un percorso si trova, o meglio, si può trovare, solo attraverso testimonianze, volti, persone, sguardi, Non c’è teoria che tenga.
Mi viene in mente cosa diceva e cosa faceva un giovane gigante, Matteo Nassigh, un ragazzo che ha vissuto solo diciannove anni ma che nella sua breve esistenza segnata da una grave disabilità fisica ha mosso pure le montagne. Diceva: «La bellezza sta nella diversità, l’unicità ci rende liberi, non liberi di fare ma liberi di essere. L’unica cosa veramente importante è prendersi cura delle persone e dei luoghi dove esse abitano».
Non liberi di fare ma liberi di essere. Questa frase di Matteo richiama un passaggio del Manifesto del nostro Club L’inguaribile voglia di viver: «Vi confidiamo un piccolo grande segreto: vogliamo amare ed essere amati, Chiediamo solo di amare ed essere amati. Perché tutti noi, prima o poi, saremo in difficoltà. Sani o malati, giovani o anziani, atleti o disabili».
Anni fa appena potevo andavo a Piacenza a trovare Gian Piero Steccato che, mentre festeggiava a Roma nel 1999 le nozze d’argento con la moglie Lucia, fu colpito da un diabolico ictus che lo ha quasi ucciso. Quasi. Gian Piero ha vissuto per altri dodici anni un’esperienza-esistenza che qualcuno potrebbe definire di serie B, C, forse Z, ma che in realtà è stata da Champions League.
È rimasto per anni e anni immobile, muto, cieco, attaccato a una macchina, storpio, dipendente da tutto e da tutti. Eppure, ci comunicava in continuazione (e fra un attimo vi scriverò come comunicava) che «La malattia mi ha tolto tutto, ma non l’indispensabile: sono vivo».
Ha scritto un libro di ricette in un batter d’occhio, che non è solo un modo di dire, perché Gian Piero, in tre anni, solo col movimento delle palpebre, ha dettato Poche ma buone a sua figlia Silvia. Ecco, lui “parlava” con le palpebre.
Ma quando entravo a casa Steccato a Piacenza, anche all’improvviso e soprattutto senza preavviso, mi colpiva sempre un’altra cosa: in quel grande salone dove al centro primeggiava, in bella vista, questo gigante in carrozzina, c’era sempre una tavola imbandita. Non mancavano mai biscotti, torte, ciambelle, una buona bottiglia di vino. E casa Steccato era un viavai di gente, continuo. Io vedevo, vivevo, una sorta di eroicità in questa ordinaria quotidianità. Gian Piero ci ha lasciati nel 2011.
Qualche settimana fa dei soci del Club L’inguaribile voglia di vivere hanno invitato a cena al ristorante un’anziana coppia che da quasi vent’anni accudisce un familiare malato di Sla. Era la prima cena fuori casa dell’anno per loro due. Per arrivare puntuale all’appuntamento al ristorante, la donna ha anticipato alle 17.30 le pulizie quotidiane del malato, che durano due ore la mattina e due ore il pomeriggio. Oltre a tutto il resto. Ogni giorno, ogni santo giorno. Ovviamente la coppia, moglie e marito, non va in vacanza – nemmeno un week end fuori casa – da una vita. Lui a tavola confessava: «Io tante volte non capisco, ma va bene così. Ora godiamoci questo cibo, questo splendido panorama». Non capisce, ma va bene così.
Nel 2020 ho scritto il libro Innamorati della vita (Ares, pp. 152, € 14) nel decennale del Club. Credo che l’introduzione alle dieci storie c’entri qualcosa, forse moltissimo, con ciò che sto cercando di testimoniare:
Innamorati della vita: mettete l’accento dove volete e leggetelo come preferite questo libro. Innàmoràti della vita (con gli accenti sulla “a”) sono i nostri testimoni che, nonostante la malattia e la disabilità, vivono e provano a vivere al cento per cento la realtà che il mistero ha messo loro di fronte. Innamòrati della vita (con l’accento sulla “o”) è invece l’invito, delicato, che proviamo a proporre a chi non ce la fa, a chi non accetta la malattia, a chi non accetta le complicazioni, anche tremende, della vita stessa. Questo libro, attraverso le dieci testimonianze, può aiutare a farci capire che può esistere sempre (sì, sempre) il modo, la possibilità, l’opportunità di dare un significato all’esistenza, anche quando sembra impossibile. Può aiutarti una compagnia. I nostri testimonial sono innàmoràti della vita (con gli accenti sulla “a”), ma hanno anche bisogno, ogni giorno, di innamorarsi di nuovo della vita. E a loro, come a ognuno di noi, serve, è indispensabile, avere qualcuno che li tiene per mano.
Tenersi per mano, ecco l’unica vera risposta.
Perché la vita non è una finale di Champions League dove conta fare gol, vincere, alzare la Coppa. C’è anche quello, sì, ma poi? La vita è il percorso di tanti poveracci – e ognuno di noi in fondo è un poveraccio – che camminano quotidianamente alla ricerca di una luce, di un qualcuno che ti voglia bene, di un qualcuno a cui voler bene. Ora, adesso. Non solo ieri o domani.
La risposta è nelle testimonianze
Paolo Marchiori da quasi vent’anni ha una sgradevolissima compagna, la Sla, che avanza inesorabile. Vive in casa con la sorella e il cognato, ha bisogno di assistenza continua. Anche di soldi, perché purtroppo lo Stato non arriva dappertutto (su questo tema sarebbe necessario un ulteriore approfondimento).
Da un paio d’anni il Club L’inguaribile voglia di vivere lo ha “adottato”. È nata la cosiddetta “Tribù dei cento” che dal novembre del 2022 dona a Paolo mille euro al mese. Siamo in cento, ognuno contribuisce con dieci euro al mese. Ha scritto Paolo nella nostra chat di gruppo: «Sono quasi tutto paralizzato a eccezione però degli occhi, quelli sì che funzionano, per fortuna, e mi permettono di scrivere tramite un comunicatore oculare che mi aiuta a coltivare tutte le mie relazioni. Questo dispositivo ha quasi tutte le funzioni di un computer. Posso usare whatsapp, la posta elettronica, Skype e Google, posso stampare e scrivere documenti. Esco con l’ambulanza ogni tre mesi, per fare delle iniezioni di botulino alle ghiandole salivari e ho un tubicino nello stomaco che si chiama Peg per alimentarmi. Sono tracheotomizzato e uso un ventilatore che mi permette di respirare. Ogni strumento va sempre ben pulito e disinfettato e ogni venticinque minuti devo essere aspirato dalla saliva, e in aggiunta la mattina e la sera un altro macchinario aiuta a liberare i miei polmoni. La mia malattia mi fa dipendere completamente dall’aiuto del mio badante Eleuterio che insieme alla moglie e a mia sorella Rosanna mi confermano nella certezza che la vita è un dono e che ogni giorno va vissuto come tale. La loro cura e la loro attenzione mi fa sentire amato e a mia volta anch’io, nonostante i miei grandi limiti, posso essere di aiuto ad altre persone. Che la provvidenza esista è una certezza e voi me lo dimostrate». Le risposte arrivano dalle testimonianze. Ma non aspettatevi mai risposte perentorie, notarili. Risolutive.
Sarebbe bello, sì, toglierebbe magari ognuno di noi dall’imbarazzo della scelta, ma ripensate anche alle parole di quel giovane “santo”, sì osiamo definirlo tale, che ci ha lasciati, Matteo Nassigh, di cui scrivevo precedentemente: «La bellezza sta nella diversità, l’unicità ci rende liberi».
Ogni storia è unica, irripetibile. La società moderna tende invece a uniformare tutto. Se uno non ce la fa più non ce la fa più, sia fatta la sua volontà è il violento messaggio, fatto passare per misericordioso, che sta passando. Se uno vuole morire, perché ha un tumore, la Sla, è in carrozzina, lo ha lasciato la moglie, o perché sono fatti suoi (non scandalizzatevi, fra qualche anno arriveremo a dire anche così) lasciamolo morire. Anzi, aiutiamolo a morire. Chi prova a stringergli la mano passa per un sadico e bigotto attentatore della libertà individuale.
L’imprevisto, in realtà, cambia le carte in tavola, travolge e stravolge ogni progetto. Pensate che un mio vecchio e caro amico, Sebastiano Marrone, anche lui purtroppo vittima della maledetta Sla, vent’anni fa arrivò al bivio. Per non morire i medici dovevano tracheotomizzarlo, cioè farlo respirare attraverso una macchina. Lui aveva detto, da tempo, che non voleva sottoporsi a questo tipo di intervento invasivo. Si può. Ma è arrivato il maledetto (o benedetto?) imprevisto, Sebastiano ha avuto una crisi respiratoria, ha perso i sensi e quel punto i medici hanno chiesto a sua moglie: «Cosa facciamo?».
Prima le hanno spiegato che senza intervento Sebastiano sarebbe morto nel giro di poche ore: con l’intervento avrebbe vissuto, a Dio piacendo, con un tubo.
La moglie di Sebastiano, una donna dell’Est dura, tosta ma tremendamente dolce, disubbidì all’ordine ricevuto tempo prima da suo marito. Disse ai sanitari: «Non fatelo morire, intervenite».
Ecco il successivo racconto di Sebastiano:
Il giorno in cui mi sono risvegliato tracheotomizzato per me è stato come un incubo anche perché, in tutta sincerità, avevo espresso nel corso della mia malattia il desiderio di non sottopormi a questo tipo di intervento. Nel momento della crisi respiratoria, però, mia moglie non ha avuto dubbi e ha chiesto ai medici di salvarmi. Ho passato molti mesi terribili in cui non riuscivo ad accettare questa situazione e chiedevo insistentemente di morire. Ero arrabbiatissimo con lei, Ma l’amore di chi mi circonda mi ha fatto risvegliare, mi ha ridato una nuova vita. Non ho paura di morire, anche perché nella mia movimentata vita ho rischiato più volte di morire. Ora so che ogni giorno va vissuto in pieno e che, soprattutto, come mi ricordano ogni giorno i miei figli, la mia famiglia ha bisogno di me.
Sebastiano ha cambiato idea e per anni si è goduto anche i nipotini seduti sulle sue gambe: non poteva muoversi, toccarli, ma li amava con lo sguardo. Li amava come poteva.
Tutto ciò è potuto succedere solo perché sua moglie lo ha voluto ancora con sé e gli ha disobbedito. Certi benpensanti potrebbero anche scandalizzarsi, sostenere che ha commesso un reato. Ma per certi benpensanti, racconta da anni Mario Melazzini, la vita è come una patente a punti. O, meglio: la dignità della vita è come legata ai punti che hai. Quando finisci i punti, non sei più degno di vivere. E i punti li perdi in base alla malattia o alla disabilità che incontri nel tuo cammino. Follie.
Per fortuna i nostri testimoni ci insegnano che non è così, non funziona così.
In tutti questi anni di esperienza diretta, ho imparato che non esistono malattie incurabili: guai a usare questa parola che è entrata nel gergo comune. Non è solo scorretta, è proprio sbagliata: urlatelo quando la sentite pronunciare o scrivere da qualcuno. Perché curare vuol dire prendersi cura e curare si può, sempre. Guarire è un’altra cosa e ci sono malattie inguaribili, questo sì. Ci sono e ci saranno sempre. Ma se la mettiamo così, in fondo e per paradosso, la vita stessa è qualcosa di inguaribile: prima o poi moriremo tutti, no?
Tony Golfarelli sfidava la Sclerosi multipla anche lanciandosi con il paracadute. Viveva, ci provava. Non buttava via niente: il bello e il brutto. Lo amavano in tanti nella sua Romagna.
Il suo motto era quello che in fondo è l’Abc per ognuno di noi, l’Abc più semplice, banale e umano che possa esistere perché la vita sarà anche complicata, ma in realtà è semplicissima. «Non posso fare tutto, ma faccio ciò che posso» diceva Tony. Proviamoci anche noi, finché si può. Perché tanto cosa succederà nell’altro mondo prima o poi lo scopriremo comunque.
A Bologna c’è un sant’uomo, ufficialmente non credente ma probabilmente tormentato dai dubbi della fede. Si chiama Fulvio De Nigris. Dall’esperienza più assurda e dolorosa che possa capitare a un genitore, la morte di un figlio in giovane età, ha creato insieme a Maria, la madre del bambino, la Casa dei Risvegli, che da vent’anni, e nel 2024 si sta facendo festa, ospita le persone in coma e in stato vegetativo. Con scienza e coscienza. Coccole e amore. Perché la vita è questa roba qui. A volte i pazienti si riprendono, e bene, altre no. L’attore Alessandro Bergonzoni, da sempre testimonial della Casa dei Risvegli, ha lanciato uno slogan per il ventennale: “Completamente guariti? Perfettamente curati”.
Ecco, la cura. Prendersi cura. Ci tocca ogni giorno. Può essere il gesto più difficile del mondo, ma in fondo è anche il gesto più bello del mondo.