Giuseppe Conte (Porto Maurizio, 1945) è uno dei riferimenti della poesia contemporanea: cantore dei miti e del mare, di epopee e ballate, nella sua ricerca ha scelto come padri tutelari Lawrence, Sterne, Goethe, Foscolo e Shelley. L’Oceano e il ragazzo (1983), la prima opera in versi di Conte, fu salutata da Italo Calvino come un libro «decisivo» per il rinnovamento della poesia italiana. Per una panoramica della sua ricerca ricordiamo Poesie, l’Oscar Mondadori, a cura di Giorgio Ficara, che raccoglie il suo lavoro dal 1983 al 2015. La sua raccolta più recente è Non finirò di scrivere sul mare (Mondadori 2019, pp. 146, euro 18). Lo scorso autunno ha pubblicato Il mito greco e la manutenzione dell’anima (Giunti, pp. 432, euro 20), recensito da Cristina Dell’Acqua sul fascicolo Sc di gennaio, mentre il pamphlet Visione è appena uscito per Vallecchi (Firenze 2022, pp. 56, euro 8).
Mio padre, nato in Sicilia, aveva come capita spesso agli isolani una certa diffidenza nei confronti del mare. Ricordo che quando raramente entrava in acqua gli si corrugava il volto in una smorfia buffa, in marcato contrasto con la sua espressione abituale, che era severa, quasi altera in terraferma. Mia madre invece, ligure da infinite generazioni, apparteneva in giovinezza al clan di coloro che facevano a nuoto la “traversata”, che era per antonomasia quella dal molo “lungo” a quello “corto” all’ingresso del vecchio porto della nostra città. Io, nato da loro, ho meticciato le loro così diverse disposizioni verso il mare, e verso la vita. Per tutta l’adolescenza non degnai il mare di uno sguardo. Mi attraevano le vie del passeggio, i negozi con le loro vetrine, e soprattutto i ritrovi, i caffè, tutto ciò che era abitabile, misurabile felpato, umano. Scendevo malvolentieri verso le spiagge di sabbia o di roccia, primi segnali di un mondo nudo, antecedente alla venuta dell’uomo, evitavo il confronto con lo spazio vuoto, cangiante, frontale, solitario del mare. Nuotavo senza alcun piacere, non avrei mai previsto che molto più tardi nuotare ogni mattina sarebbe stata una specie di mia preghiera di ringraziamento per la bellezza di essere vivo. Fu dopo il torbido dell’adolescenza e il lungo periodo della formazione intellettuale passato in pianura, dove il sole tramonta come sciogliendosi nella terra, che apersi gli occhi sul mare. All’improvviso, cominciò ad apparirmi come la realtà che contiene tutte le realtà, Come il simbolo dei simboli, in ciò simile all’anima. Il movimento, la stasi, il limite l’infinito, i miraggi, i sogni sono sue emanazioni. La vita animale proviene da lui: le meduse, esseri primordiali, asessuati, che si riproducono per partenogenesi, che flottano e non respirano, composte al 99% di acqua, lo raccontano nel loro silenzio. Ma mentre riscoprivo il mio Mediterraneo, l’ispido e freddo mar Ligure, il tiepido e verde Adriatico, il luminoso Egeo costellato di isole e di miti, sentivo sempre più forte e inspiegabile la fascinazione di un mare sconosciuto, o conosciuto soltanto sulle tavole degli atlanti, mia passione di bambino: l’Oceano Atlantico, il Nord delle maree, delle nebbie, delle magie celtiche di Merlino, dei maelstrom. La sorte volle che finissi a vivere in Bretagna, al decimo piano del Building sul porto di Saint-Nazaire. Lì conobbi il gioco ritmico, cosmico delle alte maree che irrompevano con i cavalloni e delle basse maree che stagnavano in distese di asterie, conchiglie, alghe, e rendevano sempre nuovi ed enigmatici i profili delle coste. Conobbi le tempeste equinoziali: piazze e vie che scomparivano nell’acqua sotto di me, barche che facevano capriole assurde e caracollavano lontano dalla riva, il vento che insidiava tutte le finestre del mio appartamento con mille becchi di cormorano, e soffiava su per le trombe delle scale ululando come un branco di lupi presi a fucilate: tanto che come mai prima nella vita mi sentii assediato dalla magia oscura, furibonda, sovreccitante delle cose. Nel mio immaginario di uomo del Sud, nato presso il mare lirico dei Trovatori di Provenza, si facevano largo le onde tragiche e amorose dei romanzi del Ciclo Bretone, sentivo confluire in me i due mondi da cui nel Medioevo rinacquero la poesia e il romanzo dell’Occidente.
Sempre viaggiare
L’oceano è sfida, il Mediterraneo equilibrio. Dante lo vide bene quando creò il suo Ulisse affamato di conoscenza e di infinito, teso verso il culmine del mistero divino come i campanili e le guglie delle cattedrali gotiche. L’Ulisse di Omero ritorna a casa: il suo viaggio è costellato di sventure e di amori: ma sono le donne che amano, non lui. Le voci di Nausicaa, Circe, Calipso, Penelope sono così preponderanti che rendono plausibile e fascinosa ai miei occhi l’ipotesi avanzata da Samuel Butler e Robert Graves che l’Odissea sia stata concepita in un cuore femminile, e scritta da una mano femminile. L’Ulisse dell’Iliade, astuto, vendicativo, e tratti traditore, non sarebbe mai diventato l’eroe dominante nell’immaginario occidentale. Lo è diventato grazie all’Odissea, grazie allo sguardo femminile, che è mediterraneo. L’Oceano rimane inesorabilmente maschile, con tutto quello che c’è di rovinoso, di propenso al naufragio nella natura dei figli di donna. Ho conosciuto la ferocia dell’Oceano Indiano, che può essere tutto di luce e di tenebra come nel Golfo del Bengala, il Pacifico, che visto dalla costa californiana, dai pontili di Santa Monica, appare agli occhi dell’immaginazione come una immensa coperta d’oro gettata tra l’Asia e l’America: ma che nella realtà è ormai profanato dalla Great Pacific Garbage Patch, l’isola di plastica, la prima , la più grande, scoperta dal capitano e oceanografo Charles Moore, che ha dedicato la vita a combatterla, ed è un vero eroe del nostro tempo: non imperialista, non militare, non patriottardo, ma impegnato in ciò che oggi più conta, la salvezza del mare e della terra, del Pianeta che dallo spazio appare azzurro. Nel contrasto tra Mediterraneo e Oceano, uno dei tanti contrasti che serbo vivi senza paura dentro di me, posso dividermi tra i poeti impregnati di grecità, di sole e del suo lato vitale e oscuro, come Foscolo e Kavafis, e i poeti oceanici come Baudelaire e Hugo. Il primo amò il mare visto dalla nave che lo portava all’approdo di Mauritius e da Honfleur, sulla costa atlantica: e in un cuore che disprezzava la natura, lasciò che solo il mare agisse con la sua forza debordante di simboli. Il secondo, autore dei Lavoratori del mare, scelse per il suo esilio una piccola isola sperduta, da dove combattere Napoleone il Piccolo e dialogare a tu per tu con Dio. Lì divenne un faro per tutti gli esuli, i ribelli, i perseguitati del mondo, a cui, per scrivergli, si racconta che bastasse questo indirizzo abissale: Victor Hugo-Océan.