Il quaderno speciale di dicembre è incentrato sullo sviluppo del concetto del prendersi cura, gli uni degli altri. Introduce il fascicolo Paola Binetti (Roma 1943), medico psichiatra e deputata, che partendo dai riferimenti biblici, da esempi di “non-cura” come la maternità surrogata e di “cura positiva” come le Cure palliative, smonta uno dei capisaldi della società moderna: la capacità di autodeterminazione come unico valore fondamentale. La convinzione di poter fare a meno degli altri, infatti, è la più infelice delle tentazioni a cui l’uomo è esposto. Perché è nella relazione di cura che nascono e maturano i due sentimenti che definiscono e scolpiscono la nostra umanità: la gratitudine verso chi si prende cura di noi e la generosità che si esprime nel prendersi cura degli altri.

Dopo aver creato tutto ciò che c’è di più bello al mondo, Dio fa una promessa all’uomo: «Voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». È il momento supremo della creazione, quello in cui prende forma un modello antropologico intensamente relazionale.

Il bisogno più profondo dell’uomo è stare in relazione con qualcuno che gli sia pari, sperimentando tutta la gamma delle emozioni e dei sentimenti che scaturiscono da un rapporto pienamente umano tra persone diverse, con uno stesso radicamento nei valori sostanziali della loro esistenza.

La solitudine non è contemplata, è considerata come un fattore di rischio che incombe sulle nostre esistenze, mentre è prevista e programmata la complementarità, quella differenza che permette l’aiuto reciproco, la collaborazione, a partire dalla eterogeneità dei talenti e delle prerogative individuali. Si tratta di una relazione in costante equilibrio tra autonomia e fragilità, necessaria soprattutto per prendersi cura degli altri e accettare che altri si prendano cura di noi, secondo l’antica metafora del guaritore ferito. Posso prendermi cura di te solo perché ho fatto esperienza della mia fragilità e delle mie capacità e competenze.

Il racconto biblico nella sua eterna attualità

La solitudine, segno di sofferenza e di disagio, è quindi un’opportunità per andare incontro all’altro e sperimentare, al di là dei propri limiti, nuovi slanci del cuore e della propria intelligenza.

Al centro della narrazione biblica c’è il senso e il significato che la relazione ha per noi: la relazione con Dio e ogni altra relazione con altri uomini e altre donne. A tal punto che possiamo dire: «In principio era la relazione». Nel senso che l’uomo ha bisogno degli altri, così come gli altri hanno bisogno di lui. C’è una necessità etico-antropologica, che Dio ha posto a fondamento del nostro essere e da cui non possiamo prescindere, perché è nella relazione di cura che prende forma l’immagine di Dio, quella della paternità e quella della fraternità.

Più che una rivelazione è un dato esperienziale, che attinge la sua forza alla ripetuta e rinnovata consapevolezza che l’autonomia assoluta, la convinzione di poter fare a meno degli altri, è la più infelice delle tentazioni a cui l’uomo è esposto. Le modalità di cura cambiano nel tempo, ma senza cura reciproca non si può vivere, per cui l’uomo teme più la solitudine che il dolore.

Nella relazione di cura nascono e maturano i due sentimenti che definiscono e scolpiscono la nostra umanità: la gratitudine verso chi si prende cura di noi e la generosità che si esprime nel prendersi cura degli altri. Si tratta di un legame intergenerazionale che supporta, più e meglio di tanti altri rapporti, la coesione sociale, posta a garanzia della nostra solidarietà. Ed è in questa dialettica di cura che si realizza quel lento e misterioso processo contenuto nella promessa di Dio: «Dio creò l’uomo a sua immagine. A immagine di Dio lo creò».

Identità e dialogo, alla luce delle reciproche necessità

Ma perché la relazione di cura con il tempo acquisti il suo giusto significato, è necessario avere una identità personale solida, con un tratto di indiscussa unicità; per questo alla relazione di cura si accompagnano saggezza del cuore e capacità di fare. Non c’è solo il desiderio di andare incontro all’altro quando ne percepiamo la fragilità, c’è tutta la speranza di cogliere di cosa l’altro abbia bisogno, nello sguardo, nel gesto, nella parola.

È una forma di empatia che cresce e si sviluppa con il tempo, perché nella dinamica della cura il tempo gioca un ruolo prezioso. Intercettare il cambiamento che ognuno di noi attraversa nelle diverse circostanze della vita, nella salute e nella malattia, conferisce sfumature diverse alla paura della solitudine, all’angoscia di sentirsi abbandonato, ma anche allo spirito di servizio, che spinge a rendersi utili agli altri.

Per vincere la sensazione di essere soli in un mondo che appare ostile, è necessario poter contare su qualcuno che supporti la nostra fragilità: ciò che da soli sembra impossibile, se condiviso assume tutt’altra dimensione. Il racconto biblico insiste su di un aspetto che non può sfuggirci. «Dio dice: Voglio fargli un aiuto che gli corrisponda», ma corrispondere a questo aiuto è cosa tutt’altro che facile e scontata. In questo entra in gioco tutta la nostra libertà.

Le diverse relazioni che intratteniamo contribuiscono a cambiarci ed è per questo che cambiamo relazioni; ne includiamo di nuove e ne respingiamo altre, perché sono inadeguate. Si sviluppa una consapevolezza che diventa integrante della nostra libertà e della nostra responsabilità e fa di noi il fulcro di un universo composito di relazioni diversissime tra di loro. Ogni relazione è una intersezione tra passato e presente: trae forza dal vissuto in atto, il presente, l’hic et nunc, ma anche dalla memoria di altre relazioni che si sovrappongono e si intrecciano.

Relazioni che, nonostante la lontananza, restano vive dentro di noi, come una voce interiore che suggerisce, corregge, incoraggia e con il suo silenzio, esprime dissenso o approvazione. In un certo senso sono persone che continuano a prendersi cura di noi, sia pure a distanza, in modo apparentemente virtuale, mentre in realtà hanno una loro misteriosa concretezza, come accade con i genitori; con un vecchio maestro che ci ha aiutato a diventare i professionisti che siamo, o con qualche amico con cui abbiamo condiviso esperienze preziose e indimenticabili.

Dalla complessità di ogni relazione il soggetto estrae gli elementi che entrano in sintonia con il proprio vissuto e con la propria proiezione nel futuro. È necessario un bilanciamento temporale e per questo richiedono una continua rielaborazione.

Alcune relazioni di cura peculiari: le relazioni istituzionali

Vale la pena ricordare che anche le Istituzioni hanno la loro ragion d’essere nella relazione di cura dei cittadini. Ma anche le Istituzioni, oltre a una loro mission, hanno una loro personalità, uno stile, un vissuto, legato alle persone che le dirigono, alle loro idee, ai loro valori.

Per esempio, quando il dibattito ruota intorno al senso della vita è animato da un contrasto, che penalizza chi crede che la vita, ogni vita, meriti la massima cura; che la morte abbia tempi e ritmi che vanno rispettati; e che l’esistenza umana abbia una trascendenza che rimanda al pieno rispetto delle credenze religiose di ognuno.

La falsa alternativa all’amore per la vita è l’enfasi eccessiva nella capacità di autodeterminazione, che si spinge fino al rifiuto della vita, con le conseguenze che ne derivano.

Assistiamo alla lotta tra chi rifiuta ogni etica della cura, preferendo l’affermazione della propria soggettività, e chi riconoscendo la fragilità umana coglie la necessità di prendersi in carico anche la vita di chi da solo non ce la fa. Dietro ogni scelta ci sono storie personali, ferite, strascichi, che lasciano traccia. La memoria, quella di chi cura e quella di chi ha bisogno di essere curato, va rielaborata continuamente per evitare che si contamini con la paura di ferire e di essere feriti. Ci sono relazioni che curano e relazioni che feriscono, equilibrarle è la fatica del nostro vivere quotidiano.

Per questo vale la pena ricordare che le Istituzioni non hanno solo un bilancio economico, di cui rispondere; hanno un’anima, una mission, che si traduce in relazioni di cura concrete rivolte a persone concrete. La dimensione tecno-economica non è la sola a dettare la linea a un intero Paese; c’è un approccio etico che non può essere accantonato. E le Istituzioni, pur avendo bisogno di risorse materiali adeguate, non possono dimenticare il loro compito di cura, da declinare responsabilmente, con equità e perspicacia.

È il significato del documento del Dicastero per la Dottrina della fede Dignitas infinita, che fa riferimento anche agli articoli 3 e 32 della nostra Costituzione.

Il difficile nodo della maternità surrogata

Una relazione che chiamerei di “non-cura”, e che merita di essere analizzata, è quella della maternità surrogata, dove la tecnologia sembra fare passi da giganti, mentre la dimensione della cura si assottiglia, fin quasi a scomparire.

All’inizio di ogni relazione non può che esserci un incontro. in questo caso si tratta dell’incontro fondativo del nostro essere e della nostra personalità. Il bambino ha bisogno che ci si prenda cura di lui in modo esclusivo, perché la sua fragilità è totale e la sua autosufficienza inesistente in quel momento. Serve qualcuno che gli offra, in un rapporto unico, il suo riconoscimento come persona. Un’esperienza che solo sua madre può offrirgli, perché tutto passa attraverso una dipendenza totale, che si andrà sciogliendo e diversificando con il tempo, ma che lascia un imprinting fortissimo.

È il cuore di ogni relazione: uno chiede e l’altro dà e nessuno può fare a meno dell’altro. Le nuove scoperte nell’ambito della infant research ogni giorno confermano la centralità della relazione madre-figlio nello sviluppo del sé del bambino. Il bambino impara a modulare le sue richieste, cogliendo la risposta emotiva con cui sua madre risponde alle sue necessità. Ed è così che va elaborando il suo stile di attaccamento: più o meno sicuro; più o meno dipendente; più o meno disarmonico.

In attesa che impari il suo alfabeto emotivo, con una grammatica e una sintassi specifica, la madre rappresenta l’opportunità di un rispecchiamento continuo attraverso cui interpretare la realtà che lo circonda e imparare a giudicarla.

Di tutto questo nella maternità surrogata non c’è traccia. Si crea nel bambino una babele di linguaggi che rimanda a una babele di esperienze, di cui non è possibile cogliere significati e valori. Ogni relazione è un microcosmo di tutte le emozioni possibili e imparare a riconoscerle per inquadrarle correttamente è parte integrante della maturità affettiva e della stabilità emotiva, che arriveranno in un secondo momento. Per questo guardiamo alla Maternità surrogata, alla Gestazione per altri, con estrema perplessità: perché altera l’intero paradigma della maternità e della relazionalità che scaturisce tra madre e figlio.

La maternità è segno della grande trasformazione che ha caratterizzato la rivoluzione femminile. Un tema che attraversa la coscienza femminile, interpella quella maschile e si basa su nuove esperienze umane, che vanno dall’evoluzione della società, ai progressi della scienza, fino a includere profondi interrogativi etici. Parlare di maternità significa affrontarne la sfida più radicale, quella che tocca l’identità femminile, che si è spesso identificata con il vissuto della maternità. E della maternità ha fatto il prototipo della relazione di cura.

Oggi il legame materno è tornato al centro del dibattito pubblico e dello scenario politico, per effetto dei cambiamenti che hanno investito la vita delle donne, a cominciare dalla difficoltà nella conciliazione dei due obiettivi cardine della sua vita la realizzazione di sé e la cura della famiglia, figli compresi.

La maternità surrogata capovolge questo paradigma e il bambino perde definitivamente il contatto con la madre biologica e con la madre gestazionale. Ma in un certo senso non fa esperienza del vissuto stesso di maternità, perché nella maternità surrogata viene meno l’esperienza reale della relazione madre-figlio. Perde forza il legame più strutturante che esista al mondo, la relazione primordiale e fondativa del nostro essere.

Oggi appare sempre più difficile spiegare questo tema a chi sembra aver smarrito il senso della relazione di cura, a favore di un unico parametro: la cura di sé come espressione di autodeterminazione. Non è facile immaginare un’esistenza senza madre, in un momento in cui la tecnologia rende possibili infinite forme di manipolazione della relazione generativa. Non tutto ciò che si può fare però è lecito e in questa prospettiva si perde il senso della relazione di cura; se ne estirpano le radici e diventa sempre più difficile curare e farsi curare. Tutto assume uno strano sapore di surrogato e non si sa più distinguere ciò che è autentico da ciò che è una banale imitazione.

La maternità surrogata ci permette comunque di sottolineare alcune cose essenziali: è compito della politica garantire a ogni bambino il diritto alla vita, il diritto a una famiglia, che lo aiuti a diventare una persona matura ed equilibrata, capace di relazioni solide e ben strutturate. La madre ha un ruolo fondamentale, che offre una costante ricerca di equilibrio dinamico tra la consapevolezza di quanto e di come dipendiamo dagli altri e di quanto e di come gli altri dipendono da noi.

Tutte le nostre relazioni si innestano nella biografia di un soggetto, di cui riflettono uno stile di vita in linea con le relazioni precedenti e con le aspettative che supportano sicurezza personale e ricerca di consenso. E infine maturità personale e coesione sociale hanno radici ancestrali che iniziano nel momento del concepimento. È il mistero dell’uomo, la cui realtà si manifesta nel lungo disvelamento della sua vita.

La relazione di cura non termina mai: le cure palliative

Se la maternità surrogata è icona della “non-cura”, le cure palliative sono l’emblema della relazione di cura che giunge fino alla morte e si spinge oltre. Il dolore e la sofferenza sembrano insopportabili quando si sperimenta la solitudine e si punta a porvi fine, anche ricorrendo al suicidio. La legge sul suicidio medicalmente assistito è l’ultimo paradosso di una politica che pretende di far passare come cura quello che in effetti non è altro che la morte del paziente. Ci si “prende cura” di un malato, mettendo fine alla sua vita in un modo apparentemente indolore. Con farmaci appropriati, gratuitamente forniti dalla Asl, in una struttura controllata, forse anche a casa propria. Unica condizione: il malato deve essere in grado di intendere e volere e deve voler morire. Ogni altra condizione è stata rimossa.

Anche in questo caso c’è il paradosso di una relazione di non-cura tra un paziente stanco di vivere e una persona che lo aiuta a compiere un gesto estremo, come il suicidio. La relazione di cura ha perso di vista il suo significato più profondo e la tecnocrazia, da valore strumentale, ha assunto il valore di causa finale. Senza stigmatizzare le ragioni individuali, resta lo stupore verso chi, standogli vicino, avalla questa volontà di morte, invece di scioglierla con l’intensità di una relazione di aiuto e con il balsamo della speranza.

Troppo poco abbiamo riflettuto sulla perdita di senso di molte relazioni di cura, per ancorarsi a un astratto senso di libertà e di pseudo-autodeterminazione. L’uomo non è astrazione, ma concretezza; non è una generica speculazione politico-filosofica, ma un vissuto pieno di senso. Nessuno si autodetermina da solo e nessuno può prescindere dalle attese e dalle illusioni, dalle speranze e dalle delusioni che ogni relazione comporta. Ma una risposta c’è, anche a livello sociosanitario, ed è la soluzione offerta dalle cure palliative, raccomandata da quella famosa sentenza della Corte costituzionale, la 242, che, pur avendo depenalizzato il suicidio assistito e avendo aperto nuove strade all’eutanasia, ha posto come alternativa le cure palliative, ancora sottostimate a livello culturale, e per questo sottofinanziate.

Papa Francesco è intervenuto recentemente per esprimere gratitudine «per tutto l’aiuto che la medicina si sta sforzando di dare, affinché attraverso le “cure palliative”, ogni persona che si appresta a vivere l’ultimo tratto di strada, possa farlo nella maniera più umana possibile».

E riflettendo su certi comportamenti istituzionali, ha aggiunto: «Spingere gli anziani verso la morte non è umano né cristiano. C’è un problema sociale reale nel voler pianificare la morte degli anziani, accelerandone il processo. A volte si vede che, agli anziani che non hanno mezzi, vengono date meno medicine di quelle di cui avrebbero bisogno e questo è disumano».

Il presidente della Società Italiana di Cure Palliative, Italo Penco, ascoltato dalle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali di Montecitorio, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge sulla liceità dell’eutanasia, ha affermato: «È fondamentale implementare una rete per offrire le cure palliative in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, al fine di scongiurare il più possibile la ricerca di eutanasia e suicidio assistito». È «proprio la mancanza di informazioni sul diritto a ricevere cure per il controllo della sofferenza che può far optare per l’eutanasia».

Le cure palliative, come le definisce l’Organizzazione mondiale della sanità, sono rappresentate dall’insieme degli interventi terapeutici e assistenziali finalizzati alla cura attiva, totale, di malati la cui malattia di base non è più responsiva alle cure specifiche.

Per stimolare un approccio di questo tipo servono due competenze: la capacità di ascolto e la capacità di empatizzare, fondamentali per acquisire consapevolmente codici comportamentali adeguati ai bisogni dei malati. Ascoltare significa lasciare raccontare all’altro il suo problema, la sua storia, i suoi vissuti senza interpretare, senza giudicare, senza risolvere. Le persone capiscono subito quando c’è un ascolto senza ascolto; un suggerimento che sposta il problema senza risolverlo.

Questioni esistenziali quali il significato del dolore e della sofferenza, della morte e della vita, del bene e del male, richiedono risposte concrete. Comprendere l’altro non è solo un processo intellettuale; per comprendere non basta ascoltare, bisogna amare.

Il Parlamento sta discutendo di una legge sulla morte volontaria medicalmente assistita, dopo aver eliminato dal titolo anche la parola suicidio, perché evocatrice di drammi personali come la solitudine, l’abbandono, la paura del dolore e della sofferenza. Ma il paradosso della legge sta proprio nel titolo, in quel sottolineare la dimensione volontaria, come se questo giustificasse il venir meno dell’alleanza più sacra: quella tra medico e paziente. E alla fine la morte arriva al paziente proprio attraverso il medico che lo assiste. C’è un’ironia quasi dissacrante nella scelta di queste parole, che suscita in chi riflette sulla legge tutti i paradossi della cultura contemporanea.

Il suicidio segna una sconfitta e come tale va prevenuto e va curato. Nessuno, davanti a un tentativo di suicidio, si sognerebbe di dire a una persona: vieni, ti insegno, ti aiuto, e la volta prossima andrà meglio. Eppure, è questo quanto pretende di fare la legge. Vuoi suicidarti? Non ci sono problemi, ci sono io per aiutarti a raggiungere il tuo obiettivo. Devo solo accertarmi che tu lo voglia e poi non avrò più timori, perché la legge mi protegge da qualsiasi azione penale.

Dalla legge 38/2010 alla legge 219/2017 sono emerse tutte le linee di frattura di un’alleanza speciale tra medico, Istituzioni e paziente. Le Cure palliative potrebbero ribaltare questa dinamica, se si tenesse conto che: considerano la morte un evento naturale, per cui non accelerano né ritardano la morte. Nulla hanno a che vedere con qualsiasi forma di accanimento terapeutico o di eutanasia; provvedono al sollievo dal dolore e integrano gli aspetti sanitari con gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell’assistenza, offrendo un supporto alla famiglia durante le fasi della malattia e durante il lutto.

Non c’è bisogno che il malato arrivi in fase terminale per ricorrere all’approccio palliativo; si tratta di cure applicabili ben più precocemente nel corso della malattia (Oms, 1990). Costituiscono una “cura attiva” e non un approccio puramente passivo, sono un vero e proprio “approccio” innovativo, che cambia i modelli organizzativi di una struttura. Per questo richiedono un cambio di mentalità, che si estende a tutte le “malattie inguaribili”, a tutte le patologie croniche e degenerative che provocano sofferenza.

Le cure palliative investono la struttura di un ospedale, di un hospice o di un servizio domiciliare, ma per questo all’umanizzazione delle cure deve corrispondere un elevato grado di professionalità e di competenza specifica, soprattutto per quanto concerne la gestione del dolore e dei sintomi. Le attività devono conformarsi ai migliori standard di buona pratica clinica e gli operatori devono saper gestire tutti gli aspetti dell’assistenza. Compresa la comunicazione, essenziale per offrire un piano terapeutico-assistenziale più efficace e generare minori conflitti, meno stress, mentre si facilita il controllo dell’ansia del paziente e della famiglia. È tempo di cura e tutto richiede una qualità di cura in linea con i tempi e la loro evoluzione farmaco-tecnologica.

Combattere la cultura dello scarto

Tutti gli uomini, tutto il mondo ha bisogno di cura ed è nella relazione di cura che si esprime non solo la grandezza dell’uomo, ma anche l’efficacia delle istituzioni da lui create. Siamo tutti chiamati a curare e a essere grati delle cure che riceviamo. Gratitudine e fragilità sono nei fatti il vero motore di quella coesione sociale di cui parla papa Francesco nella enciclica Fratelli tutti, da lui stesso definita come enciclica sociale, in radicale antitesi alla cultura dello scarto: «Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili […] le persone non sono più sentite come un valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani. Siamo diventati insensibili» (Fratelli tutti, 18). Per ovviare a tutto ciò dobbiamo mettere mano a una molteplicità di relazioni di cura verso chi ne ha più bisogno. «Questo scarto si manifesta in molti modi, come ad esempio nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto quello di allargare i confini della povertà […]. Lo scarto, inoltre, assume forme spregevoli che credevamo superate, come il razzismo, che si nasconde e riappare sempre di nuovo […]. Ci sono regole economiche che sono state efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che “nascono nuove povertà”» (Fratelli tutti, 20-21).

Ed è in queste mille forme diverse che la relazione di cura esprime la sua creatività nella carità, confermando come una politica ben intesa è la forma più alta di carità. Perché la carità a modo suo non è altro che prendersi cura di chi ha più bisogno.

Bibliografia

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