Un romanzo che ha il passo del genere epico, come suggerisce il termine “rapsodia” nel titolo, per quell’attenzione al senso più profondo dell’esistenza, per l’importanza data a ciò che si vede a occhi aperti e allo stesso modo a ciò che si vede a occhi chiusi, a ciò che tiene unita una comunità e a ciò che si condivide, nel bene, nel male e per un bene superiore a quello individuale.
La storia è ambientata nella Mesopotamia d’Italia, tra l’Adige e il Po, e dà vita a un romanzo-rapsodia che si svolge negli anni Cinquanta senza che ci sia una riga che rimandi alla retorica da miracolo economico, boom dei consumi e industrializzazione, preferendo sottrarsi al tempo storico in nome di quell’interesse per il rapporto tra sogno e realtà, tra l’eterno e il quotidiano, tra l’uomo e il soprannaturale, tra la salvezza in cui è bene sperare e il buio della perdizione che si può trovare nelle pieghe del passato, nella vita di tutti, nell’animo di chiunque.
La geografia di Fenoglio, il mondo di Manzoni
Le vicende di Rapsodia delle terre basse (Neri Pozza, Vicenza 2024, pp. 188, euro 15) sono ambientate a San Sebastiano, un paesino che potrebbe ricordare certa topografia rintracciabile in Beppe Fenoglio, di cui si assapora anche l’inquietudine di alcuni personaggi, o in Giovanni Guareschi, che torna alla mente anche quando gli scambi si fanno più ironici, o quando si legge di sacerdoti di campagna alle prese con i problemi della comunità, di avventure rocambolesche e spericolate, di vicende ambientate intorno a una canonica.
Gli echi di questa narrazione d’altro canto sono molti e colti: c’è Giovanni Verga perché siamo costantemente nelle basse sfere, sia qui che in Verga dettagliatamente indagate e riportate al lettore, anche se quelle di Bubola sono attinte al suo nord-est e non al profondo sud o alla Milano e dintorni dello scrittore verista; ancora, leggendo il romanzo di Bubola si incontra Flannery O’Connor per la concretezza del soprannaturale e degli angeli che entrano nella quotidianità e nella realtà senza bisogno di tante spiegazioni, ma la scrittrice statunitense c’è anche nella trama della vicenda noir che insanguina le pagine a coltellate e rompe le teste a colpi di accetta, a sorpresa e a ripetizione;
c’è indubbiamente Dante quando si ripropone un vero e proprio viaggio agli inferi o quando parla un albero che fu donna, ma c’è anche inevitabilmente Alessandro Manzoni per qualche scelta di vocabolario che rimanda direttamente a don Lisander, ma anche perché siamo in una campagna italiana e si parla di Dio, di folla, di credulonerie, di preti e non solo, di salvezza.
La musica è sempre al centro
Denominatore comune è l’arte di Massimo Bubola, che da autore di canzoni che hanno segnato la musica d’autore italiana è qui e ora portatore di una prosa raffinata, mai banale, evidentemente figlia di migliaia di pagine lette e rimasticate – e tra queste pagine ci sono indubbiamente quelle della Bibbia, con l’eroismo e la simbologia dell’Antico Testamento – il tutto mescolato con l’abilità sintetica e la grazia dei cantautori, e dei poeti, che consente di incontrare nel corso della lettura alcune espressioni mozzafiato, per lo più brevi, fossero solo una riga, un verbo, un aggettivo usato con quella bilancia semantica che utilizzano solo quelli che sanno curvare le parole, tanto da invitare alla rilettura per assaporarne la bellezza.
Le vicende rimandano alle narrazioni di vite che nella poetica di Bubola hanno sempre avuto ampio spazio: leggere questo romanzo significa ritrovare l’ambientazione di “L’usignolo”, di “Emmylou” e de “La sposa del diavolo”, ma anche la prosa versificata di “Cocis”, di “Alì Zazà”, di “Dino Campana”; questi sono solo alcuni brani che raccontano in versi vite e peripezie di persone che si incastonano nella storia del mondo e dell’essere umano, senza essere per forza esemplari, ma essendo capaci di richiamare l’attenzione, di alzare la soglia di interesse, di uscire dal seminato della norma per densità e qualità ora di azione, ora di bene e di male, ora di arte, ora di sregolatezza, ora di follia.
La comunità rurale
Rapsodia delle terre basse narra le vicende di una comunità rurale ancora capace di riunirsi intorno a racconti, paure, simbologia, voglia di riscatto, figure umane carismatiche e altre balzane, dando rilevanza e ruolo ai bambini quanto ai vecchi saggi, concedendo credito ai matti come a chi riesce a vedere in sogno ciò che non si spiegherebbe altrove, ai visionari e alla potenza del femminile.
A quindici anni di distanza dalla prima edizione, Massimo Bubola pubblica nuovamente questo suo romanzo – che fu d’esordio – questa volta con Neri Pozza, dopo una vera e propria riscrittura, un labor limae da cantautore alle prese con un nuovo arrangiamento per una canzone del proprio repertorio.
Il racconto nelle mani del lettore risulta denso, ma non complesso, assai curato nelle scelte sinonimiche e nei dettagli descrittivi e introspettivi, capace di essere coinvolgente per una trama che ricerca una soluzione a una questione spinosa e – allo stesso tempo – con il merito di distogliere dalla frenesia di questi tempi sghembi, riportando il lettore a contatto con un ciò che conta davvero: l’ascolto, l’interiorità, il rapporto con il passato e i propri fantasmi, quello con il cielo, quello con la propria coscienza, quello con il tempo, il suolo, l’altro da sé.