Claudio Pollastri, giornalista, formidabile “cacciatore di storie”, dal 2004 intervista personaggi e personalità di tutto il mondo anche per Studi cattolici.
La domanda che non ho mai fatto nell’intervista che non ho mai scritto. Chissà perché. Chissà. Forse non si è mai creata l’occasione. Da entrambe le parti. O forse lui aspettava che fossi io a chiedergliela. Mentre io temevo non mi rispondesse. Com’è avvenuto su un solo personaggio, Pupi Avati. Ancora adesso mi chiedo perché non gliel’ho mai proposto. Ma nemmeno Cesare me l’ha mai suggerito. L’unico da quando, nel nostro primo incontro nella tarda primavera del 2004, «diamoci del tu, siamo colleghi» mi aveva chiesto di intervistare i personaggi anche per Studi cattolici. Partendo dall’incontro appena avvenuto con Michail Gorbaciov a Milano «libero di fare le domande che vuoi, anche sulla religione… le nostre pagine sono aperte a tutti». Vero. In 19 anni abbiamo ospitato il mondo. Tranne Pupi Avati. Senza darmi spiegazioni. Per uno di quei divertissement autoironici in perfetto pendant con le cravatte original fashion. Eh sì, perché non aveva avuto problemi nel mettere in pagina un’intervista fino all’ultimo ciak con Tinto Brass e la sua ex musa redenta Claudia Koll. O il dramma privato vissuto da Maria Schneider sul set di Ultimo tango a Parigi con Marlon Brando. O il riscatto radicale nella politica trasparente dell’onorevole Cicciolina.
Per una specie di compensazione a quell’intervista mai proposta e mai declinata mi aveva offerto con voluta nonchalance l’opportunità d’incontrare Giulio Bosetti l’attore bergamasco protagonista dei famosi sceneggiati televisivi degli anni Sessanta e Settanta «era compagno di classe del nostro don Elia». Sull’uscio in legno della porta d’antan dell’Ares mi aveva congedato con un saluto che era il suo biglietto da visita dove spettava all’interlocutore il dilemma amletico di distinguere l’autostima dall’autoironia «per anni mi dicevano che assomigliavo ad Alberto Arbasino…». E mentre lasciava sospeso il giudizio su chi fosse the winner regalava una salomonica conclusione in salsa parigina ça va sans dire.
Come avveniva nella proposta dei personaggi da intervistare. Mi lasciava fare. E poi buttava lì un nome che mi sorprendeva «perché non senti Patty Pravo?». Fintamente stupito del mio autentico stupore mi spiegava «da bambina aveva incontrato Ezra Pound nella casa della nonna a Venezia». E poi aggiungeva che si doveva vivere l’apostolato nella realtà quotidiana spaziando in ogni settore della società «san Josemaría parlava anche di Sophia Loren». A quel punto non mi restava che chiedere ma soprattutto ottenere un appuntamento con La Ciociara. Che, davanti agli attestati di stima che le stavo riferendo aveva risposto con divistica naturalezza e sfumature lessicali più vicine a Pozzuoli che a Hollywood «chi?». Quando gliel’avevo riferito, Cesare non si era scomposto «ti porto i complimenti del Rettore dell’Università di Navarra per l’intervista alla cattolicissima Penelope Cruz».
E poi lo sguardo era andato alla sua foto con Ornella Vanoni «ieri sera ero in Piazza Duomo ad ascoltare un suo concerto… che personalità!». Da cronista di gossip avevo scritto molto sull’ex cantante della Mala e sex symbol degli anni Settanta e Ottanta. Ora andavo a intervistarla per Studi cattolici come emissario di Cesare «portale i miei saluti». Missione compiuta temendo una reazione come quella di Donna Sophia che per fortuna non vi era stata. Anzi. Stesso copione con mia divertita sorpresa con Nilla Pizzi altra icona musicale del Cesare-che-non-ti-aspetti «il mio mito resta Maria Callas ma non si può snobbare il ruolo che ha avuto Adionilla detta Nilla nella cultura popolare col suo Grazie dei fior».
Delle interviste lo divertivano i retroscena, il non detto che gli raccontavo quando andavo nella redazione storica in via Stradivari, a Milano, dove il parquet molto vissuto scricchiolava creando tutt’intorno complice la penombra e i soffitti alti una suggestiva atmosfera hitchcockiana. Dopo un po’ di tempo, troppo per i suoi parametri, troncava la conversazione diventando, allora sì, serio «adesso preghiamo». Il tono era dolcemente assertivo con l’atteggiamento involontario ma ormai acquisito nel DNA di chi è destinato a spiegare sempre qualcosa a qualcuno. Come in una serata in cui intervistavo tra gli altri ospiti Almerina Antoniazzi moglie di Dino Buzzati e Alessandro Quasimodo figlio del Premio Nobel Salvatore. Cesare aveva spiegato due o tre cose dei loro congiunti che non conoscevano «c’è sempre qualcosa da insegnare… è la nostra missione».
Maestro in ogni campo
A tutti ha insegnato qualcosa. A me, a mangiare i pizzoccheri che avevo sempre evitato per scelta immotivata, quelle che fai senza un perché. Il perché me l’aveva dato Cesare «qui, non c’è altro!». Era febbraio 2005. Corso di ritiro a Galleno. Da allora è il piatto che ho consigliato in un’intervista anche a Cracco.
Promosso mio masterchef ad interim mi aveva suggerito di intervistare Francesco Toldo portiere dell’Inter, nonostante Cesare fosse serenamente juventino a differenza di Andrea Beolchi che ha i cromosomi bianconeri. «Anche Benedetto XVI era di fede juventina». E poi aveva aggiunto come fosse la cosa più normale nella redazione di Studi cattolici, «Sua Santità, quand’era il cardinale Ratzinger, aveva collaborato dal 1966 con dei saggi alla nostra rivista». Motivo in più per rispondere alla richiesta di portare le mie interviste nazional-popolari tra le pagine di altissimo spessore che avevano ospitato addirittura un Papa non sum dignus.
Eppure, il temuto professor Cavalleri che brandiva la penna come un macete, lo stroncator cortese, l’editorialista volutamente over the top non mi ha mai giudicato. Mi lasciava fare. Forse per una rassegnata e cristiana accettazione dell’incorreggibile che ho sempre preferito interpretare come fiducia cieca. Che quando riusciva a intravedere qualche ombra di criticità oggettiva si limitava a incrinare leggermente il capo fingendo di riavviarsi i capelli dove nessuno era fuoriposto come invece mi sentivo in quel momenti io dovendo spiegare con la credibilità di un giornalista come svolgevo il mio apostolato con i personaggi «attraverso le interviste chiedo quale sia il loro rapporto con la religione e la fede… ho invitato Claudio Baglioni a visitare la sede dell’Opera di Roma che è a due passi da casa sua… ho invitato anche George Clooney al Castello di Urio a pochissimi chilometri dalla sua villa di Laglio… me l’hanno promesso nell’intervista».
«Tu credi alle dichiarazioni di personaggi in cerca di visibilità rilasciate a un giornalista in cerca di scoop?», aveva concluso col più devastante sarcasmo del suo illimitato repertorio. Lo stesso che usava anche su di sé. Come in occasione del conferimento del prestigioso Ambrogino d’oro nel 2006 quando aveva spento il mio with the compliments volutamente tiepido con uno sferzante «è bello essere commemorati da vivi… post mortem non te li puoi godere». Come le interviste. Non posso pubblicare l’ultima perché, come ho detto, non vi è mai stata la prima. Peccato. Sembrava fatta al suo ottantesimo compleanno quando avevo intervistato i suoi coetanei come Pippo Baudo, Silvio Berlusconi e Alain Delon «no, Delon è del 1935… ha un anno in più… devi essere preciso con quelli autenticamente del ’36».
Un’altra provocazione. Da copertina. Come la foto, per la prima volta, di un’attrice glamour come Nicole Kidman intervistata a Roma dando buca a Rosi Bindi «nel cappello introduttivo non hai spiegato il motivo», mi aveva redarguito con una serietà troppo ostentata per essere autentica. E poi Angela Merkel e Hillary Clinton, Madonna e Lady Gaga fino a Michelle Obama e Drusilla Foer sulla quale Alessandro Rivali vice direttore più realista del direttore adombrava qualche perplessità. Cesare invece aveva detto subito sì. Come ha fatto per l’ultima volta al breve scambio di battute con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen alla prima della Scala di Milano. Poi altre. E altre ancora. Tranne la sua, di Cesare. E di Pupi Avati. Chissà perché. Chissà.