L’inclusione di chi è un uomo come me, ma ha una storia, una cultura, dei valori e delle abitudini diverse dalle mie, è un processo facile? No. È possibile? È necessario, oltre che è possibile.
Il nodo vero è cambiare paradigma. Uscire dal paradigma della paura con tutti gli annessi e connessi, le convenienze, pseudo convenienze. La paura è sempre cattiva consigliera: lo pensiamo sempre quando si tratta degli altri, ma quando siamo noi ad avere paura, pensiamo invece che ci aiuti a capire le cose.
Al contrario, la paura è davvero una cattiva consigliera perché è un avvertimento che non ci fa capire le cose: rende difficile gestire i problemi, affrontarli, risolverli sia dal punto di vista personale sia collettivo. È sempre l’inizio della fine.
La paura è qualcosa che ci fa ripiegare su noi stessi, ci fa “conservare” noi stessi. Conservare noi stessi è una grande sapienza evangelica, ma anche molto umana – le due cose un po’ coincidono – per cui chi si conserva, inevitabilmente finisce. Uscire dal paradigma della paura vuol dire comprendere che gli altri non sono un pericolo, non sono una minaccia, ma che, anzi, possono essere una grande ricchezza.
Questo processo non è facile perché stiamo tutti sulla difensiva, sappiamo vedere poco lontano e un po’ abbiamo la memoria corta: il nostro paese è stato fino a pochi decenni fa – e lo è tuttora perché ogni anno 120 mila ragazzi e ragazze soprattutto dal nord Italia, vanno altrove per cercare lavoro – un Paese di migranti. La condizione è la stessa. Certo uno potrebbe contestare dicendo che «loro però non hanno niente». A parte che hanno una cultura e una storia propria, ma poi se dovessimo ragionare in questi termini, se non hanno niente, ancora meglio. Perché l’integrazione, che poi è questo il reale problema, sarebbe molto più facile
L’accoglienza è sviluppo
Da sempre i Paesi di accoglienza sono territori che si sono sviluppati, al contrario i Paesi chiusi si sono impoveriti. Ci sono due esempi interessanti a dimostrazione di questo. Il primo compara la Repubblica Dominicana e Haiti, due Paesi che si trovano sulla stessa isola. Da un lato Haiti si è chiusa, dall’altro Santo Domingo, avendo molte relazioni con l’esterno e molta immigrazione, si è sviluppata molto di più. Mentre Haiti, come sappiamo, è uno dei Paesi più violenti e più poveri del mondo.
Il secondo è l’Australia, da sempre terra di migrazione, che a un certo punto ha cambiato impostazione, irrigidendo il controllo sull’immigrazione e questo ha impedito uno sviluppo ancora maggiore di tutto il continente. Lo stesso papa Francesco è figlio di immigrati e può spiegarcelo bene che cosa sia l’integrazione. Così come in realtà possono spiegarcelo milioni di nostri connazionali che dimostrano che cosa significhi integrare e la possibilità che questa rappresenta per chi accoglie. Tutto questo richiede un sistema, richiede sicurezza, richiede garanzie e su questo purtroppo ancora siamo molto indietro.
L’accoglienza significa anche entrare in una casa e vivere secondo le abitudini di quella casa; secondo le tradizioni, la cultura, portando anche la propria. Ecco, questa è la vera sfida: questa è una ricchezza e non una debolezza.
La crisi della nostra identità
Se ci sentiamo molto deboli, è perché probabilmente il problema è che non sappiamo più chi siamo noi. Quando abbiamo tranquillità, sicurezza della nostra identità, l’altro mi porta delle cose in più, ma non minaccia in quello che sono io.
Ricordiamoci dei verbi che papa Francesco suggerisce sempre: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Cioè, permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie in una dinamica di arricchimento reciproco, di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano delle comunità.
E questo avviene già. Penso appunto a chi è in prima linea: per esempio, la scuola lo sa benissimo come questo atteggiamento aiuti a capire il mondo, a relativizzarsi in due modi: innanzitutto si relativizza il pensiero di credere di essere il centro del mondo e proprio per questo si capisce di più la propria storia, perché la si comprende in relazione agli altri, non perché uno parla su sé stesso o parla per sé stesso, ma perché impara a parlare con gli altri e l’incontro con le culture e le tradizioni che ogni persona porta con sé. Quindi, in realtà, la nostra capacità deve essere quella di saper aiutare questa ricchezza a venir fuori. La non educazione oppure la non integrazione fanno perdere a tanti abitanti tante possibilità.
L’integrazione è già realtà
Due ultime cose. Una è già una realtà e faccio un esempio che mi ha colpito recentemente. In un grande Istituto bancario si pensava di aprire degli sportelli per gli stranieri, per assecondare un po’ i clienti diversi. Si è scoperto che il 10% dei conti della banca apparteneva già a stranieri. A quel punto non c’è il problema di fare qualcosa per loro perché già sono una parte considerevole del nostro sistema e del nostro futuro.
Noi non siamo mai quelli che eravamo prima. Tutto cambia e questa è la grande capacità che ci viene richiesta: non perdere la nostra identità profonda, le radici profonde: della cultura, delle tradizioni, della religione del nostro Paese con tutte le difficoltà ma che sono parte anche del nostro umanesimo.
Questo richiede una grande visione per il futuro, non aver paura della cultura dell’incontro e dell’accoglienza; e genera sempre qualcosa di nuovo, ne abbiamo bisogno, e non ci fa perdere il vecchio. Ed è l’unico modo per continuare a essere quello che siamo.